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Il Museo del Giocattolo di Figueres

Il Museo del Giocattolo di Figueres
Per entrare al 'Museu del Joguet de Catalunya' di Figueres calpesto il gioco del mondo, quello che in realtà io ho sempre chiamato 'gioco della campana' e che qualcuno conosce anche come 'gioco della settimana', a seconda della parte d’Italia dove si è cresciuti. Oppure rayuela, xarranca, hopscotch, marelles, ula, tempelhupfen se siamo stati bambini in Argentina o in Catalunya, in Inghilterra o in Francia, in Nepal o in Germania. Una volta dentro, una riproduzione della Tour Eiffel del 1929 mi sembra lì per lì un bel modo per accogliere i visitatori che, oggi per lo meno, sono soprattutto francesi (fra un po’ capirò che la struttura vuole essere un esempio di grande meccano: 9.832 pezzi e 8.623 viti).
Il confine con la Francia è effettivamente a pochi chilometri da Figueres, nota prevalentemente per lo strampalato e capriccioso museo voluto da Dalì, che è infatti il motivo principale del passaggio in città di molti turisti. Mi chiedo se la vicinanza tra i due musei giovi al più piccolo o saranno solo coloro che viaggiano con bambini a visitare anche il 'Museo del Giocattolo'? Fosse così sarebbe un peccato, venendo qui incontreremmo infatti un grillo parlante desideroso di riaccompagnarci tra le stramberie dell'infanzia nostra, dei nostri genitori, nonni e bisnonni. Forse il grillo ce le canterebbe pure, per essere diventati troppo seriosamente adulti, e di un grillo parlante c'è da fidarsi...
In realtà arriveremo a epoche ancor più remote, se teniamo conto che nella prima sala del museo sono esposti giochi dell’antichità greca e di quella romana ritrovati negli scavi di Tarragona e in quelli di Empúries: bambole e poi dadi, pedine e tavolieri di osso, fango o avorio.
Tra l’altro, anche il gioco del mondo che ci dà il benvenuto all’entrata pare che abbia origini assai lontane, per la precisione nell’antico Egitto, e che poi si sia diffuso in tutta Europa sui selciati dell’Impero Romano, quando il gioco veniva detto ‘dello zoppo’ (claudus).
La maggior parte degli oggetti in mostra appartengono alla collezione di Josep Maria Joan Rosa che li ha donati alla sua città, dopo aver raccolto per anni centinaia di giochi di tutti i tipi e provenienze.
La suddivisione che ci viene proposta è tematica e i primi giochi che troviamo sono quelli che si fanno all’aperto, quindi pattini, monopattini, tricicli, birilli, corde, palle, trottole, cerchi (o hula-hop) e biglie. Subito dopo vengono i giochi legati al tema del viaggiare e qui la parte del leone la fanno i trenini elettrici e le autombili d’altri tempi, soprattutto dei primi decenni del Novecento e di fabbricazione catalana, spagnola, tedesca e inglese. C’è per esempio un bel modellino del vecchio tram della linea Gracia-Bonanova, attualmente due quartieri di Barcellona, e una riproduzione degli anni Venti di un taxi sempre della capitale catalana.
Il percorso continua con la parte dedicata agli animali, prevalentemente di cartone, dove non mancano però il cavallino a dondolo e gli orsetti, tra cui Don Osito Marquina, l’orsetto con cui giocavano Dalì e la sorella.
Dopo la sezione dei giochi da tavolo, c’è quella riservata alla vita di famiglia che raccoglie bambolotti e bambole, cucine e negozi in miniatura; c’è anche una bambola stesa sul lettino di una sala operatoria specializzata in ‘operazioni senza dolore’. Altre bambole sono di fabbricazione torinese e risalenti agli anni Venti del secolo scorso; un altro pezzo forte è una delle prime Barbie della Mattel, datata 1959. In questa zona del museo è stata esposta anche una sezione davvero insolita di ambientazione religiosa, con bambole-suore e aule con la riproduzione di una lezione di religione e poi altari, processioni e indumenti sacri di vario genere.
Dopo le bambole si passa ai teatrini e ai palcoscenici, alle marionette e ai burattini e ai giochi di magia con l’immancabile scatola del piccolo prestigiatore e qualche testo e oggetto del poeta Joan Brossa. Tra i divertimenti ‘ottici’ sono stati invece raccolti alcuni modelli degli Anni Trenta di cinematografi portatili, il ‘Cine Nic’, un’evoluzione della lanterna magica che divenne la passione di molti bambini spagnoli, i quali potevano anche creare il proprio film, disegnando prima le scenette su una carta apposita; usando la versione munita di grammofono, potevano addirittura sceglierne la banda sonora. Vediamo anche il dispositivo ottico dello zootropio (dal greco ‘giro della vita’), strumento giratorio per la magia delle immagini in movimento.
Oltre a soldati e a giochi di ‘guerra per scherzo’, dietro le vetrine troveremo poi innumerevoli figure di latta con i personaggi più insoliti, maschere, giochi per non vedenti e strumenti musicali, carte da gioco, il cubo magico e chi più ne ha, più ne metta.
Tra i fumetti è presente ovviamente il TBO, famoso settimanale di storie illustrate e umoristiche che venne pubblicato in Spagna tra il 1917 e il 1998; fra le vecchie pagine spicca la figura in cartone dell’illustre Doctor de Copenhague che era colui che presentava la sezione della rivista dedicata alle grandi invenzioni, probabilmente una delle poche concessioni europeiste sotto il franchismo, recitano le informazioni ai suoi piedi.

Del gioco dell’oca ritroviamo diversi esemplari; si tratta probabilmente del più famoso gioco di percorso che sia mai esistito. Con il suo tragitto a spirale rappresenta la vita: una serie di ostacoli da superare e poi l’arrivo al giardino dell’oca, simbolo del bene ma anche del ritorno alle origini. A proposito di origini, pare che Ferdinando de’ Medici ne avesse regalato uno al re Filippo IIº di Spagna già nella seconda metà del Cinquecento, ma l’oca era già stato animale molto apprezzato da civiltà ben più antiche: i Celti, gli Egizi ed anche i Romani che avevano eletto le oche a guardiane del tempio di Giunone. Prima di arrivare al corridoio che ci porta alla fine del museo dove si rende omaggio ai più importanti costruttori di giocattoli, la sorpresa del ricordo, e anche un po’ di nostalgia, conducono di nuovo tra peluche, costruzioni di carta, Meccano, valigette zeppe di piccoli oggetti.
Al termine della visita ritorniamo all'inizio, laddove ci era stato raccontato che uno dei più antichi giochi da tavolo e di percorso, il 'Gioco reale di Ur' risalente al 2600-2400 a.C., fu rinvenuto negli anni Venti del Novecento nelle tombe reali della città sumera; perfino durante il viaggio eterno fu, e sarà, importante continuare a giocare.


Text&Foto: Baldassar Perruccio © CapGazette
Settembre 2015

Le barche. In partenza da Barcellona, sulle rotte d’altri tempi

Barche

In partenza da Barcellona, sulle rotte d'altri tempi
Tra il tredicesimo e il quindicesimo secolo le navi che salpavano dal porto di Barcellona, battendo bandiera catalano aragonese, si dirigevano verso il Mediterraneo occidentale o quello orientale e verso i paesi del nord. Come cambiava il commercio col percorso marittimo?
Verso la Sicilia viaggiavano tessuti e armamenti, olio di Mallorca, riso di Valencia e miele di Tortosa, mentre sulla stessa rotta ma in senso contrario venivano trasportati il grano e lo zucchero (caricati a Palermo e a Messina erano destinati a raggiungere più tardi anche i paesi del Nord), la seta, il cotone e il corallo. A Napoli, che era un porto molto importante per gli scambi internazionali, ci si riforniva invece di vino bianco e rosso e di magnifici cavalli e i catalani vi vendevano zafferano, cera e sale di Ibiza.
In Nord Africa, soprattutto a Tunisi e a Algeri, si commerciavano utensili agricoli e stoffe in cambio d’oro e di schiavi, di corallo e di cera.
Anche sulla via del Levante, solcata prevalentemente da quelle grandi potenze marittime che furono Genova e Venezia, le navi catalane si guadagnarono un certo prestigio. Toccavano solitamente i porti di Alghero, Cagliari, Gaeta, Napoli, Palermo, Messina, Siracusa e Rodi e da qui prendevano la rotta che portava o a Beirut o a Alessandria d’Egitto. Il viaggio variava dai tre ai tredici mesi, a seconda degli scali, ma al ritorno, prima di approdare nuovamente a Barcellona, l’ultima tappa era sempre quella che si effettuava sull’isola di Mallorca.
Sulla rotta del Levante, chiamata anche rotta d’Oriente o d’Oltremare, il commercio più importante era indubbiamente quello delle spezie: pepe, incenso, mirra, zenzero, cannella e sandalo venivano scambiati con corallo, olio, nocciole, mandorle, piante aromatiche e zafferano, l’unica spezia esportata dal Mediterraneo occidentale. I preziosi tessuti di Damasco venivano scambiati con panni più economici, con lana e col vino liquoroso di Cipro. Il benessere dei mercanti, degli artigiani e dei contadini della corona catalano aragonese dipendeva prevalentemente dagli affari commerciali della rotta di Siria e Egitto: le entrate che si ricavavano dalla vendita dei prodotti acquistati in Oriente e riesportati in Castiglia, in Provenza e nei paesi del Nord dovevano infatti assicurare il lavoro nelle botteghe artigianali e nei campi dei territori della Corona.
Sulla rotta atlantica le navi che partivano da Barcellona toccavano i porti dell’Almeria, di Malaga, di Siviglia, di Cadice, di Lisbona per poi avventurarsi verso la Manica in direzione dell’Inghilterra o delle Fiandre.
Oltre a tutte le altre mercanzie che giungevano dai paesi del Levante o dalla Sicilia, i prodotti che solcavano queste acque erano prevalentemente alimenti in grado di sopportare il lugno viaggio: fichi secchi, mandorle, pinoli ed infine lo zafferano che nelle Fiandre veniva usato sia come spezia, che come colorante nella tinteggiatura dei tessuti.
Dai paesi del Nord si importavano metalli, in particolar modo il ferro che serviva a fabbricare coltelli e armi, pelli scandinave e russe, cappelli, berretti e piume per riempire i cuscini, stoffe d’ogni genere ed infine il legname.
Parliamo di mercanzie ma con loro anche di mercanti, crociati e pellegrini, di soldati alla mercé della corte, di uomini, donne e bambini che venivano trasportati nelle terre conquistate per ripopolarle; umanità in movimento e legami tra terre lontane, di cui ancor oggi rimane traccia nelle lingue e nelle tradizioni popolari, nei tratti somatici e nei caratteri delle persone.
Nel 1490 venne pubblicata a Valencia un’opera dello scrittore Joanot Martorell, dal titolo Tirant lo Blanc, destinato a diventare un classico della letteratura catalana medievale. Il libro narra le avventure cavalleresche di Tirant e del suo amore per Carmesina, la figlia dell’imperatore greco; le terre che l’eroe percorre evocano le rotte marittime commerciali di cui abbiamo parlato: l’Inghilterra, la Sicilia, Rodi, Costantinopoli, il Nord Africa.
Le stesse leggende popolari catalane sono costellate da personaggi che sono i protagonisti, e i testimoni, di una storia densa di avventure per mare; per esempio il Pescatore di Corallo, che è la vicenda di un povero orfano che un giorno, all’epoca del re Pietro, venne portato con altri giovani ad Alghero per ripopolare la terra. La leggenda racconta che giunto nell’isola, il ragazzino iniziò a lavorare come
pescatore e in una mattina di festa, mentre passeggiava per il paese, all’improvviso vide uscire dalla messa una donna bellissima e se ne innamorò perdutamente. La fanciulla era la figlia del Signore (veguer) d’Alghero ed abitava in un sontuoso palazzo affacciato sul mare. Un giorno il pescatore trovò in fondo al mare un ramo di corallo rosso, lo strappò, tornò a galla e corse a darlo in dono all’amata fanciulla. La figlia del Signore rimase abbagliata dalla generosità del pescatore e dalla preziosità di quel dono e gli chiese di portargliene ancora. Il ragazzo obbedì e per molte notti si aggrappò agli scogli sui quali si ergeva il palazzo dell’innamorata e arrampicatosi fino alla finestra tendeva la mano e le porgeva il corallo. Fin quando in una notte malaugurata, il padre della ragazza, messo al corrente di quegli incontri segreti, lo aspettò; quando il pescatore iniziò a salire per le rocce, l'uomo lo spinse e lo fece cadere giù. Il ragazzo andò a sbattere contro gli scogli e precipitò in mare. Si narra che il suo corpo senza vita venne trasportato fino alle grotte di Nettuno dove nelle notti di mare calmo ancor oggi si vede crescere altissimo sul turchese dell’acqua un ramo di rosso corallo.
Madre, se fossi marinaio,
marinaio di quelli buoni,
me ne andrei in alto mare
solo con la mia barca;
il vento sarebbe un grido di gioia,
la vela, colomba bianca,
il cuore d'un blu come d'incanto
e gli occhi d'un verde di speranza.
Se in quelle notti invece il mare fosse in burrasca, vi potrebbe capitare di avvistare all’orizzonte la Barca dei dormono e cantano e di sentire le voci dei “mori” destinati a una fuga perenne fin dall’epoca in cui Giacomo I° conquistò Mallorca. Pare che durante la notte queste anime in pena arrivino fino alla fine del mondo e che da lì tornino alle nostre acque. Tra i lampi, forse scorgereste le fiamme delle vele del vascello che arde e sentireste l’equipaggio russare o cantare all’infinito.


Text: Baldassar Perruccio © CapGazette
Trad. poesia di Miquel Martí i Pol: Paolo Gravela © CapGazette
Foto: © Renata Scanu
Luglio 2015

Chisciotte 1

Don Quijote de la Mancha

Primero

CAPÍTULO 1

Que trata de la condición y ejercicio del famoso hidalgo D. Quijote de la Mancha.

Página 1

En un lugar de la Mancha, de cuyo nombre no quiero acordarme, no ha mucho tiempo que vivía un hidalgo de los de lanza en astillero, adarga antigua, rocín flaco y galgo corredor. Una olla de algo más vaca que carnero, salpicón las más noches, duelos y quebrantos los sábados, lentejas los viernes, algún palomino de añadidura los domingos, consumían las tres partes de su hacienda. El resto della concluían sayo de velarte, calzas de velludo para las fiestas con sus pantuflos de lo mismo, los días de entre semana se honraba con su vellori de lo más fino. Tenía en su casa una ama que pasaba de los cuarenta, y una sobrina que no llegaba a los veinte, y un mozo de campo y plaza, que así ensillaba el rocín como tomaba la podadera. Frisaba la edad de nuestro hidalgo con los cincuenta años, era de complexión recia, seco de carnes, enjuto de rostro; gran madrugador y amigo de la caza. Quieren decir que tenía el sobrenombre de Quijada o Quesada, que en esto hay alguna diferencia en los autores que deste caso escriben; aunque por conjeturas verosímiles se deja entender que se llama Quijana; pero esto importa poco a nuestro cuento; basta que en la narración dél no se salga un punto de la verdad [...]
Don Chisciotte della Mancia

Primo

CAPITOLO 1

Che tratta della condizione ed esercizio del famoso idalgo D. Chisciotte della Mancia.

Pagina 1

In un paese della Mancia, del cui nome non mi voglio ricordare, non molto tempo fa viveva un nobiluomo di quelli con lance nella rastrelliera, emblema araldico antico, ronzino magro e cane sparviero. Una pentola più di vacca che di montone, trito in salsa il più delle sere, resti e ossa il sabato, lenticchie il venerdì, qualche piccione in aggiunta la domenica, consumavano i tre quarti delle sue rendite. Il resto se ne andava in un saio di panno scuro, calzoni di velluto per le feste con pantofole di velluto anch’esse, mentre nei giorni feriali si agghindava di finissimo albagio. Teneva in casa una domestica di quarant’anni e passa, e una nipote che non ne aveva ancora venti, e un ragazzo buono per la campagna e la piazza, capace di sellare il ronzino e di maneggiare la roncola per potare. Si accostava l’età del nostro idalgo ai cinquant’anni, era di costituzione robusta, di carni secche, asciutto in viso; mattiniero nelle abitudini e amico della caccia. Vogliono alcuni che fosse chiamato Chisciata o Caseata, che su questo vi sono alcune divergenze tra gli autori che di questo caso scrivono; sebbene per congetture verosimili si lasci intendere che si chiamasse Chisciana; ma questo importa poco al nostro racconto; basta che nella sua narrazione non ci si scosti un punto dalla verità [...]
Text: Miguel de Cervantes / Trad ita e foto: Paolo Gravela / ©CapGazette, oct 2014

Le avventure di Epicuro 1

Le avventure di Epicuro

Qui gatta ci cova

a Misu, Last, Alfredo, Gelsomina
e gli altri gatti che mi hanno sopportato.
A Gaetana - Tani - Vergano,
mia professoressa di storia e filosofia al liceo.

Nessun gatto, perché giovane, indugi a filosofare,
né perché vecchio smetta di filosofare.
(Epicuro, il gatto)


Prologo

Il mio filosofo preferito è il mio gatto, non per niente si chiama Epicuro. Pensa tutto il giorno e non parla mai. Quasi mai: a volte racconta dei suoi amici, i gatti del quartiere con cui va in giro sui tetti, nei giardini e sotto le macchine parcheggiate. Sono tutti filosofi come lui e si chiamano nei modi più strani: Parmenide, Eraclito, Leucippo, Lucrezio, Pitagora... Santagostino, Spinoza, Leibniz, e un certo Nietzsche, un tipo con dei grandi baffi e che si diverte a fare gli agguati ai cani.
A cosa pensa Epicuro quando non parla, cioè quasi sempre? Alle cose. A quali cose? Un po' di tutto: alle crocchette, naturalmente, alle avventure della strada, ai topi, ai cani, ai piccioni, ai pappagalli, ai gabbiani, ai gomitoli di lana, alle ombre, ai tappeti e alle poltrone, alle tende e a molte altre cose ancora della sua vita. Tuttavia, più di tutto pensa alle conversazioni con i suoi amici, per esempio a quello che gli aveva detto Parmenide una notte della settimana scorsa mentre rubavano un pezzo di carne al cane del custode:
- Poverino, era legato e non poteva far altro che abbaiare e tirare la catena come un pazzo...
- Questo ti ha detto Parmenide, Epicuro?
- No, questo è un mio commento sulla triste vita del cane del custode.
- Il cane è un animale per bene, tutto d'un pezzo, Epicuro, mica come te. Ma adesso dimmi che cosa ti ha detto Parmenide.
- Sei curioso, eh? Che cosa mi dai in cambio?
- Interessato!
- Accorto, piuttosto. Vatti tu a fidare degli umani
- Non fare tanto il filosofo e dimmi cosa ti ha detto Parmenide!
- Crocchette al tonno?
- Affare fatto.
- Ecco cosa mi ha detto Parmenide: “Ogni sera la stessa storia, Epicuro, amico mio. Nietzsche che cerca di spaventare i cani e i corvi, Sartre e Russell che inseguono le gattine e noi qui a rubare la carne a questo povero diavolo. Tutto si ripete, con minime variazioni insignificanti: l'equilibrio tra le forze in campo è garantito”.
- Un tipo un po’ triste il tuo amico Parmenide...
- È fatto così. Ma non sai cosa ci è successo dopo.
- Che cosa?
- Cosa mi dai in cambio?
- Di nuovo? Ma...
- Domani salmone?
- Affare fatto.
- Mentre Parmenide parlava, un improvviso spruzzo d'acqua gli è caduto sulla testa, schizzando anche me. Sai quanto odiamo l’acqua noi filosofi: siamo corsi al riparo sotto una macchina parcheggiata.
Nonostante lo spavento, però, non riuscivo a smettere di ridere facendo il verso al mio amico: nulla cambia, caro Parmenide, hahaha, l’equilibrio tra le forze, hahaha, tutte le sere tu chiacchieri ed Eraclito ti sputa l’acqua dal muretto… Smettila di ridere, tu! - Mi ha detto Parmenide - Bell’amico sei! Quel maleducato di Eraclito, se lo prendo...

Eraclito è un gatto triste e solitario. Se ne sta sempre in disparte ad architettare dispetti e tiri mancini. Uno scontroso, irascibile, guastafeste, brontolone, invidioso…
Però è un tipo acquatico, uno dei pochi filosofi che amano l'acqua: ogni giorno si fa la sua nuotata nel fiume e soffia e maledice chiunque passi lungo la riva (tranne Talete, un gatto vecchissimo e un po’ matto che dice che l’acqua è un’invenzione geniale, ma del vecchio Talete parleremo ancora):
- Vigliacco! Codardo! Gatto dei miei stivali!
Grida Eraclito a chi si avvicina al fiume. Dice che nessuno di noi capisce niente (tranne Talete). Afferma, Eraclito, che il fiume è ogni giorno diverso anche se sembra sempre lo stesso e che anche lui stesso, Eraclito, cambia ogni giorno.
In effetti, dopo il bagno quotidiano è un po' meno intrattabile, ma dura poco: un'ora dopo è di nuovo il solito Eraclito, orso e gufo, oltre che gatto.
Parmenide dice che Eraclito avrebbe bisogno di una gatta.
Eraclito dice che Parmenide avrebbe bisogno di una gatta.
Talete dice che l’acqua l’ha inventata lui.
Tutto questo naturalmente lo so in via confidenziale da Epicuro, in cambio delle crocchette al salmone.

Ma quanto sono gli amici di Epicuro? Se lo vuoi sapere esattamente, devi chiedere a Pitagora, il gatto con tre zampe. Conosce tutti i numeri del mondo – vale a dire del quartiere: quanti gatti neri, quante gatte femmine, quanti passeri, merli, gechi e topi. Se gli si chiede quante lucertole sono passate su quel muretto nelle ultime tre ore e dieci minuti, lui lo sa, esattamente, senza ombra di dubbio, con precisione centesimale, millesimale.
Ma non lo dice.
I suoi numeri, precisi come tagliole, sono infatti un segreto accessibile a pochissimi. Fa la faccia di gatto che sa tutto, ma ripete sempre solo che tutti i gatti hanno il muso triangolare, che tutti i becchi dei merli sono triangolari, che tutte le code dei topi sono triangolari e via dicendo con i triangoli: una vera e propria fissa, ad ascoltare lui tutto il mondo – vale a dire il quartiere – è triangolare.
Insomma, come dicevo, il mio filosofo preferito è il mio gatto. È un gatto giovane, ma riflette già molto. Riflette così tanto che è difficile attirare la sua attenzione; uno può agitare cordini, fili, strisce di carta, o pantofole, ma se Epicuro riflette non si accorge di niente, tanto meno dell'assurdo sfregare di pollici e indici accompagnato da schiocchi di lingua con cui noi esseri umani immaginiamo di richiamare i gatti. Epicuro riflette quasi sempre e non parla quasi mai, per questo è molto difficile capire se è di buon umore o invece è triste. Bisogna saperne cogliere gli indizi, i segnali.
Qualche tempo fa, ad esempio, durante un violento temporale capii che Epicuro era preoccupato perché si era nascosto sotto il tappeto:
- Hai dei pensieri Epicuro?
Gli chiesi. Domanda assurda da fare a un filosofo, tanto più se gatto.
Tuttavia, la sua risposta mi lasciò senza parole:
- Spinoza è scomparso.

Chi è Spinoza? Che domande, non l'ho detto più su? È uno dei migliori amici di Epicuro ed è il gatto più gentile e pacifico del quartiere. Abita in un giardino di tulipani e non se la prende mai con nessuno, nemmeno con le mosche. Non piscia mai sulle piante, non graffia i tappeti, saluta sempre tutti, è vegetariano ed è così saggio e gentile che persino i topi gli chiedono consiglio. Un giorno, persino un avvocato si è rivolto a lui. Un avvocato in pensione, d'accordo, uno di quelli che gettano pane ai piccioni nei parchi, ma pur sempre un avvocato.
Spinoza, il gatto con gli occhiali, è amico di tutti nel quartiere e non potevo credere che qualcuno gli avesse fatto del male. Chiesi a Epicuro altre spiegazioni e in tutta risposta mi passò il suo diario degli ultimi giorni. Vi ho detto che Epicuro tiene un diario dove racconta le sue avventure?

(continua...)
Testo: Lino Graz
Illustrazione: Albert Àlvarez
CapGazette 7/2015

Chisciotte 2

Don Chisciotte e Sancio Panza visti da Albert Àlvarez
Don Chisciotte della Mancia
Secondo

Un anno dopo proponiamo il secondo paragrafo del Don Quijote e la sua corrispondete traduzione in italiano. Abbiamo calcolato che continuando così, saranno sufficienti 1.800 anni per finire di tradurlo, a meno che il traduttore, come si ripromette epicamente di fare, non smetta di fumare, sostituendo il tabacco con la traduzione ossessiva compulsiva. Non disperiamo.
[...] Es, pues, de saber, que este sobredicho hidalgo, los ratos que estaba ocioso - que eran los más del año - se daba a leer libros de caballerías con tanta afición y gusto, que olvidó casi de todo punto el ejercicio de la caza, y aun la administración de su hacienda; y llegó a tanto su curiosidad y desatino en esto, que vendió muchas hanegas de tierra de sembradura para comprar libros de caballerías en que leer; y así llevó a su casa todos cuantos pudo haber dellos; y de todos ningunos le parecían tan bien como los que compuso el famoso Feliciano de Silva: porque la claridad de su prosa, y aquellas intrincadas razones suyas, le parecían de perlas; y más cuando llegaba a leer aquellos requiebros y cartas de desafío, donde en muchas partes hallaba escrito: la razón de la sinrazón que a mi razón se hace, de tal manera mi razón enflaquece, que con razón me quejo de la vuestra fermosura, y también cuando leía: los altos cielos que de vuestra divinidad divinamente con las estrellas se fortifican, y os hacen merecedora del merecimiento que merece la vuestra grandeza.
Con estas razones perdía el pobre caballero el juicio, y desvelábase por entenderlas, y desentrañarles el sentido, que no se lo sacara, ni las entendiera el mismo Aristóteles, si resucitara para sólo ello. No estaba muy bien con las heridas que don Belianís daba y recibía porque se imaginaba que, por grandes maestros que le hubiesen curado, no dejaría de tener el rostro y todo el cuerpo lleno de cicatrices y señales. Pero con todo alababa en su autor aquel acabar su libro con la promesa de aquella inacabable aventura, y muchas veces le vino deseo de tomar la pluma, y darle fin al pie de la letra, como allí se promete; y sin duda alguna lo hiciera, y aun saliera con ello, si otros mayores y continuos pensamientos no se lo estorbaran. Tuvo muchas veces competencia con el cura de su lugar —que era hombre docto, graduado en Cigüenza— sobre cuál había sido mejor caballero: Palmerín de Ingalaterra o Amadís de Gaula; mas maese Nicolás, barbero del mesmo pueblo, decía que ninguno llegaba al Caballero del Febo, y que si alguno se le podía comparar era don Galaor, hermano de Amadís de Gaula, porque tenía muy acomodada condición para todo, que no era caballero melindroso, ni tan llorón como su hermano, y que en lo de la valentía no le iba en zaga [...]
[...] Bisogna, quindi, sapere, che questo suddetto nobiluomo, nei momenti in cui era ozioso - che erano i più dell’anno - si metteva a leggere libri di cavalleria con così tanta passione e gusto, da dimenticare quasi del tutto l’esercizio della caccia, e pure l’amministrazione della sua tenuta; e in ciò giunsero a tanto la sua curiosità e il suo sproposito, che vendette molte giornate di terra da semina per comprare libri di cavalleria da leggere; e così si portò a casa quanti di essi riuscì ad avere; e tra tutti nessuno gli pareva pari a quelli composti dal famoso Feliciano de Silva: poiché la chiarezza della sua prosa, e quei suoi intricati ragionamenti, gli parevano di perle; e più ancora quando arrivava a leggere quelle galanteria e lettere di sfida, nelle quali ovunque trovava scritto: la ragione del torto che alla mia ragione si fa, in tal modo la mia ragione indebolisce, che a ragion veduta lamento la vostra beltà, e anche quando leggeva: gli alti cieli che della vostra divinità divinamente con le stelle si fortificano, e vi fanno meritevole del merito che merita la vostra grandezza.
Con questi ragionamenti perdeva il povero cavaliere il senno, e si tormentava per capirli, e sviscerarne il senso, che non l’avrebbe svelato, né compreso Aristotele stesso, nemmeno resuscitando solo per questo. Non lo convincevano del tutto le ferite che don Belianis dava e buscava poiché immaginava che, per quanto grandi i maestri che l’avevano curato, non avrebbe certo potuto evitare di avere il viso e tutto il corpo pieni di cicatrici e segni. Ciononostante, lodava dell’autore qual suo concludere il libro con la promessa di quella interminabile avventura, e molte volte gli venne voglia di prendere la penna, e finirlo per filo e per segno, come lì si promette; e senza dubbio l’avrebbe fatto, e ci sarebbe riuscito, se altri maggiori e continui pensieri non gliel’avessero impedito. Ebbe molte volte da discutere con il curato del villaggio - che era uomo dotto, diplomato a Sigüenza - su quale fosse stato migliore cavaliere: Palmerino d’Inghilterra o Amadigi di Gaula; ma mastro Nicolás, barbiere dello stesso paese, diceva che nessuno era pari al Cavaliere del Febo, e che se qualcuno gli si poteva paragonare era don Galaorre, fratello di Amadigi di Gaulia, perché disponeva di condizione molto acconcia a tutto; che non era cavaliere sdolcinato, né lagnoso come suo fratello, e in quanto a coraggio non gli era secondo [...]
Texto: Miguel de Cervantes
Traduzione: Paolo Gravela
Disegno: Albert Àlvarez
CapGazette 6/2015

R-esistenze 4

R-esistenze 4 / Snodicomunicazione



Mi chiamo Butterfly e vengo dalla Costa d'Avorio. Ho 21 anni e sono qui a Torino, in Italia da due. Sono per strada perché ho litigato con mio padre. Lui ha una compagna, mia madre non so dov'è. È lì, lui con i miei 6 fratelli, e abbiamo litigato. L'ho mandato a fan culo e me ne sono andato. Poi ho perso le chiavi, il telefonino e ora sono in dormitorio, in corso Tazzoli. Ora parlo con mio zio, sai lui fa il sindacalista alla CGIL e penso che possa parlare meglio lui con mio padre. Sai tante sono le cose che dobbiamo dirci e io non riesco per ora a parlare con mio padre. Ieri sono andato da mio zio ma aveva una riunione, oggi ci riprovo. Mi ha detto che dopo le sei c'è. Intanto mi sono rotto un piede, mi fa male e non riesco ad appoggiarlo. All'ospedale me l'hanno fasciato ma poi la sera in dormitorio volevo farmi la doccia e ho tolto la fascia. Mi fa male pero!
Ciao e grazie.

Ho 80 anni e ho fatto il marinaio. Su un mercantile norvegese. In tutto il mondo sono stato io. Per primo sono stato a Baltimora, poi a Niuiorc, a Broccolino. Sai avevo dei parenti là. Poi sono ripartito. Per sei anni ho fatto tutto il mondo, sotto, nella nave, facevo il motorista. Poi a Genova una volta, son dovuto venire a Torino e l'ho sposata, sai per coprire la vergogna. Ora non so dov'è. Né lei né i figli. 4 ne abbiamo avuti. E poi sempre a Porta Nuova sono stato. Facevo il commerciante. Compravo e vendevo. Pure in prigione sono stato. Sai cose di ragazzi, coltellate, rapine, scippi. Eppure l'altro giorno un ragazzino mi ha preso il portafoglio. Poi è tornato e me l'ha restituito, per i documenti, sai. E ancora non ho capito come ha fatto. Sai io sono … me ne intendo, sono del mestiere. Ma non ho ancora capito come ha fatto. Va bo, ora sono in giro, c'ho la mia pensione e non la do a nessuno. È mia e solo io la tengo. Me la spendo come voglio io. Nessuno mi dice niente. Io non dico niente a nessuno. Non voglio storie, solo un ciao se vedo qualcuno. Poi mi piace star da solo. Vado a mangiare dove so io. Si mangia bene e non si paga niente. Un bel bicchiere di vino e basta. Non mi piace quelli che bevono sempre. Io solo un bel whisky dopo pranzo. E basta. Io così so vivere. Così ho sempre vissuto insomma. Io di Porto Empedocle sono. Esci da Agrigento e lì c'è il mare. Per quello ho fatto il marinaio. Se no mica ...

È passato un anno da quando non mi trovo più a dormire nelle 'Strutture di Prima Accoglienza della Città di Torino'.
Già... è passato un anno da quando è iniziata la mia ospitalità nella parrocchia, grazie ad un progetto della Diocesi.
Mi trovo all'interno di un sistema, io, piccolo uomo senza nulla in un ambiente dove si elogia il benessere e l'agio.
Caspita! Mi sento un pesce fuor d'acqua!
Ho una sensazione di inferiorità; ho proprio sbagliato tutto.
Invece di credere nei valori anche qui c'è proprio un sistema gerarchico. Mi spiace dirlo ma è proprio così. A volte penso che mi trovavo più a mio agio nei dormitori!
Non voglio chiedere la carità a nessuno e provo a uscirne con le mie gambe. Ci riuscirò?

La strada è il mio posto.
Ho provato tre anni fa a 'prendermi cura di me', come mi proponevano i servizi.
Sì, mi sono convinto che non potevo continuare a stare fuori e così sono entrato in una 'struttura di reinserimento', in provincia di Torino.
Uff: gli altri ospiti, gli operatori, le regole: tutto un po' obbligato. Certo ero al caldo, un letto, cibo.
Insomma una vita normale, ma quanto è stato duro reggere. Sentivo che stavo scoppiando, tenevo tenevo dentro e parlavo poco. Poi basta, ho fatto le valigie, non ho ascoltato nulla e nessuno e via … ritorno in città, in corso Matteotti, Porta Susa che conosco bene. Respiro aria, ci sono io e i miei bagagli. Leggo molto, cammino molto e riprendo la vita che per ora mi fa star bene.
Coperte, angoli, freddo.
Questa è la mia scelta!

Sono un signore rumeno, in Italia da molti anni e mi sono sempre arrabattato per vivacchiare in modo dignitoso.
Ho sempre lavoricchiato in nero grazie a conoscenti connazionali e italiani ai mercati. La fortuna però non mi accompagna. Lo stato della salute è peggiorato, ho il diabete che porta un problema serio all'arto inferiore. Il cuore fa scherzetti e così tra ricoveri e dormitori sento la difficoltà e la pesantezza nell'affrontare la quotidianità. Ho mantenuto relazioni informali che mi danno la forza e l'aiuto per seguire le prassi burocratiche e a gestire l'attesa.
Attesa: la parola più frequente in questo ambito. Ma a volte è difficile. Esce la voglia di mandare all'aria tutto. Però poi si deve ricominciare da zero e allora, per ora, provo a tener duro.
Texts: Andrea Gravela / Micky Summer - ©Snodicomunicazione.it
Foto: Andrea Gravela
CapGazette 6/2015

Un síndrome literario

Un síndrome literario, por Luis Soravilla

Lo que más me fastidia de Stendhal es la hache: nunca sé si se escribe Stendhal o Stendahl y siempre me equivoco. Pero, por lo demás, es uno de mis autores favoritos, con los que más me divierto, a los que más admiro.
Escribió como vivió, de modo impetuoso, apasionado y despreocupado.
La primera vez que estuvo en Italia vestía el uniforme de dragones del ejército francés. Lo empleó en el campo de batalla y en el teatro de la ópera, y fue en Italia donde comenzó a escribir. Luego abandonó el ejército, pero a las órdenes de la administración bonapartista viajó por toda Europa y fue testigo directo de la campaña de Rusia. Roma, Nápoles y Florencia (1817) comienza con el recuerdo de esa cruel derrota. Stendhal se dice incapaz de apreciar la belleza de un paisaje nevado desde que vivió la Gran Retirada. De refilón, recuerda cuando tapiaban las ventanas de un hospital de campaña con los miembros amputados a los heridos, siniestros ladrillos que evitaron la muerte por congelación de los que ahí se habían refugiado de la tormenta.
Así, con esa imagen aterradora, Stendhal deja atrás la nieve y el hielo y se adentra en la que sería su patria de adopción, Italia, en el relato de su primer gran viaje a Italia. Deja atrás el frío del norte y se adentra en el cálido sur.
En Roma, Nápoles y Florencia se muestra locuaz y divertido, encantado de conocerse, felicísimo de estar ahí. Cuando no acierta a rescatar de la memoria tal o cual suceso, no tiene reparos en inventárselo y nos contagia su alegría. Por eso, siempre, siempre, recomiendo comparar este texto con los diarios del viaje a Italia de Goethe. El alemán es sutil, bello, elegante, intelectual, mientras Stendhal es vital, sensual, de ninguna manera contemplativo. Tan próximos, tan diferentes.
Con todo, es Stendhal el afortunado a la hora de bautizar el síndrome más poético de los desórdenes psicológicos pasajeros, el famoso y reconocido síndrome de Stendhal.
El síndrome fue descrito por vez primera por una psiquiatra florentina, Graziella Margherini. Es una crisis de ansiedad que desemboca en un episodio depresivo. Suele ser pasajero. La contemplación de tanta belleza en personas sensibles y predispuestas a ello parece ser la causa y en Florencia no faltan bellezas que contemplar.
La doctora Margherini tuvo a bien inspirarse en un fragmento de Roma, Nápoles y Florencia, el que describe el agotamiento de Stendhal después de visitar la Santa Croce.
Traducido por Elisabeth Falomir, el fragmento dice así:
«Estaba ya en una suerte de éxtasis ante la idea de estar en Florencia y por la cercanía de los grandes hombres cuyas tumbas acababa de ver. Absorto en la contemplación de la belleza sublime, la veía de cerca, la tocaba, por así decir. Había alcanzado ese punto de emoción en el que se encuentran las sensaciones celestes inspiradas por las bellas artes y los sentimientos apasionados. Saliendo de la Santa Croce, me latía con fuerza el corazón; sentía aquello que en Berlín denominan nervios; la vida se había agotado en mí y caminaba temeroso de caerme.»
La editorial Gadir publicó El síndrome del viajero (Diario de Florencia), un fragmento de Roma, Nápoles y Florencia, del que he copiado el párrafo anterior. Como es un libro pequeñito, me lo llevé conmigo la última vez que estuve en Florencia y tan pronto salí de la Santa Croce, en una suerte de éxtasis, me senté en un banco frente a la iglesia, abrí el librito y leí. También sentí que la vida se había agotado en mí y caminaba temeroso de caerme.
Pero tengo que añadir que ya llevaba varios días en la ciudad y pocas veces había caminado tanto en mi vida. Aunque fue un momento emocionante ¡y vaya si lo fue!, tengo que señalar que la mayor parte de las veces se confunde el síndrome de Stendhal con puro agotamiento, insolación o deshidratación, y siento restarle emoción al cuento. Aunque la emoción la pone cada uno a lo que siente, por qué no. Si bien es cierto que casos clínicos de tan particular ansiedad se dan pocas veces al año en Florencia, se dan, y si un turista como un servidor de ustedes se emociona y confunde que no puede con su alma físicamente con una sobrecarga emocional de su espíritu y le hace ilusión, bendita sea su inocencia si con ello es feliz. Es posible que existan otros síndromes literarios. Sin ir más lejos, Freud nos propone el complejo de Edipo y detrás de ése, tantos otros. Pero el síndrome de Stendhal es el más apasionado, inofensivo y bello de todos, al menos en su forma más leve, y procura divertimento y solaz a tantos turistas agotados por su peregrinación de monumento en monumento. La ocurrencia de la doctora Margherini merece un aplauso.
Ajeno a la fortuna que tendría su descripción de la emoción y el agotamiento que sintió después de visitar la Santa Croce, Stendhal siguió viajando y escribiendo. Regresó a Italia tiempo después, y viajo por la península varias veces antes de morir, finalmente, mientras aseguraba que él era más italiano que francés, algo que los franceses atribuyeron a su excentricidad, al puro capricho de un tipo voluble y singular.
El epitafio de su tumba está escrito en italiano. Dice:
«Arrigo Beyle, milanese. Scrisse, amò, visse Ann. LIX M. II. Morì il XXIII marzo MDCCCXLII»
El amigo Beyle, milanés. Escribió, amó, vivió.
Texto: ©Luis Soravilla
CapGazette, junio 2015

Le barche. Le Drassanes e il Museu Marítim di Barcellona

Barche

Le Drassanes e il Museu Marítim di Barcellona

Dopo esser passate per il genovese e il veneziano, la ‘casa del mestiere' o la 'fabbrica’, custodite dalla parola araba Dār-ṣinā῾a, sono approdate nell'italiano sotto forma di 'darsena’ e 'arsenale’.
Nella città di Barcellona i più antichi arsenali marittimi, in catalano les drassanes, risalivano all’XI° secolo. Tuttavia, gli unici di cui oggi rimane testimonianza sono quelli che vennero costruiti ai piedi del Montjuïc a partire dalla seconda metà del XIII° secolo, sotto il regno di Pietro il Grande. Nel XIV° secolo, il re Pietro il Cerimonioso diede il via alla costruzione delle navate e l’arsenale assunse l’aspetto che tuttora conserva; si racconta che quell'ampliamento prese dimensioni tali che all'interno vi si potevano costruire contemporaneamente fino a 30 galere.
Quando nel 1369 si innalzò il terzo anello della cinta muraria cittadina, le darsene entrarono definitivamente a far parte del nucleo cittadino. Oggi sono la sede del Museu Marítim di Barcellona. Il centro propone un percorso tra le imbarcazioni che solcarono le acque catalane, mediterranee e oceaniche nel corso dei secoli, facendo rivivere al visitatore sia la storia medievale della potenza marittima catalano-aragonese, che quella delle navi moderne impiegate nella rotta d’oltreoceano. Tra barche da pesca di distinti tipi, navi da guerra e immagini di transatlantici il pezzo forte è senza dubbio la riproduzione de “La Capitana”, la Galera Reale di Giovanni d’Austria che venne costruita qui nel 1568 e che nel 1571 portò i cristiani a vincere i turchi nella battaglia di Lepanto; è lunga 59 metri ed è decorata con preziosi motivi barocchi dai colori rosso ed oro.
Non poteva mancare una riproduzione dell’'Ictineo', il primo sottomarino della storia che proprio nelle acque del porto di Barcellona si immerse nella seconda metà dell’Ottocento. Ci incuriosisce inoltre l'esposizione dei mascarons (mascheroni o polene), quelle figure in legno di uomini e animali selvaggi o mistici che venivano installate sulla prua per allontanare le forze occulte del mare. Qui la Blanca Aurora, il Negre de la Riba, il Ninot non sono altro che versioni ottocentesche dell'occhio protettore di Egizi e Fenici e delle sculture delle navi vichinghe. La scultura del Ninot, che è un ragazzino che porta in una mano un diploma di nautica e nell’altra un berretto da marinaio, è probabilmente la più nota in città grazie al fatto che sulla facciata di uno dei mercati primo novecenteschi più frequentati, chiamato appunto il ‘Mercat del Ninot’, è in bella mostra una sua riproduzione in bronzo.


Secondo la leggenda si tratterebbe di un mascaró appartenuto ad una nave di trasporto di schiavi naufragata nella costa barcellonese; si racconta che il capitano si salvò dal naufragio aggrappandosi al Ninot per raggiungere la città.
Appena messosi in salvo, il capitano festeggiò così di gusto e di bevute che quella notte dimenticò il mascherone in una taverna che si trovava di fianco ad un mercato, ancora senza nome...
Stando invece a un'altra versione, il Ninot sarebbe appartenuto ad una nave di bandiera italiana che in una notte di tempesta approdò nel quartiere della Barceloneta; una ragazza che passeggiava in riva al mare col fidanzato e i suoceri, vedendo arrivare la nave, mise alla prova il promesso sposo, chiedendogli di recuperare la polena della nave.
E l’innamorato così fece, la ragazza se ne tornò a casa col suo Ninot e il giorno dopo il padre, pure lui fiero della prodezza del genero, lo appese nella taverna che gestiva vicino ad un mercato.
L’edificio delle drassanes di Barcellona è uno splendido esempio di gotico civile catalano con una parte centrale formata da otto navi parallele ad archi semicircolari sostenuti da pilastri di sei metri. Anche se pare che dell’originario edificio rimanga solo la facciata marittima risalente al XIV° secolo, nel corso delle modifiche apportate successivamente si adottò la stessa tipologia costruttiva della struttura originaria; continuano dunque a risaltare alcuni elementi gotici tipicamente catalani e assenti nell'architettura dello stesso stile diffusasi nel resto d’Europa: gli archi semicircolari non delimitano un lungo corridoio slanciato verso il cielo, bensì grandi sale quadrangolari, che danno la sensazione di un unico ed ampio spazio e oltre alla pietra, materiale più rappresentativo del gotico europeo, si è fatto uso anche del legno.

Gli arsenali passarono sotto il controllo della corona di Castiglia a metà del XVII° sec., dopo la guerra dei Segadors (1640-1659) e con Filippo Vº furono destinati ad arsenale militare; solo nel 1935 l’esercito li cedette alla città di Barcellona.
Tra la prima metà del XIII° sec. e il XV°, in epoca d’espansione della marina catalano-aragonese, negli arsenali di Barcellona si costruirono imbarcazioni di tutti i tipi, dalle barche più piccole fino alle grandi navi commerciali che percorrevano le rotte verso il Levante e verso i paesi del Nord Europa. Il legno utilizzato proveniva prevalentemente dai boschi dei Pirenei, ma anche da quelli della Croazia e delle Fiandre. Al suo interno lavoravano i costruttori di corde (corders) e di remi (remolers) , i tessitori di vele (velers), i fabbri (ferrers) e i maestri d'ascia ovvero i falegnami marittimi (mestres d’aixa). Terminata e preparata la nave, i proprietari la affidavano al capitano (patrò). Con lui avrebbero viaggiato due scrivani-contabili, uno con il compito di controllare e segnare su un registro tutte le spese e le entrate del viaggio e l’altro responsabile della mercanzia lasciata a bordo al momento della partenza. Oltre a mozzi e marinai, non sarebbe mancato un barbiere, che all'occorrenza sarebbe diventato chirurgo, i trombettieri per gli ordini da trasmettere all’equipaggio, il maestro d'ascia e una persona che si sarebbe occupata dei salari.


Text: Nicoletta De Boni © CapGazette
Foto: © Renata Scanu
Maggio 2105

Da una nave russa a unaphotoalgiorno. Chiacchierata sulla fotografia con Graziano Paiella


Da una nave russa a unaphotoalgiorno.
Chiacchierata sulla fotografia con Graziano Paiella


Martedì 8 febbraio 2011 tira poco vento a Roma, il clima è mite e un anticiclone proveniente dalle Isole Azzorre rende la giornata umida e soleggiata. Mentre le temperature ondeggiano tra un minimo di 4 e un massimo di 16 gradi e qualche nuvola bassa si muove a traffico moderato sopra il Mar Mediterraneo e il Tirreno, Graziano Paiella prende di spalle Castel Sant’Angelo, ritraendolo oltre una finestra sporca. Gli aloni del vetro diventano sbavature dei raggi del sole e si confondono con la chioma cascante di un albero.
È in quel momento che egli decide che ogni giorno avrà la sua foto.
Siamo nella primavera del 2015 e la storia di unaphotoalgiorno è oramai una lunga storia, che continua. Quattro anni di fotografie scattate quotidianamente in Italia, ma qualche volta anche oltre confine, quotidianamente condivise nel suo profilo facebook e custodite nel sito www.grazianopaiella.com.
Di questa storia e d'altro abbiamo parlato con Graziano Paiella.

Mi incuriosisce innanzitutto sapere cosa ci fosse prima della sfida di quel martedì e quali foto prima di quella che ha dato il via a unaphotoalgiorno
Direi che la mia passione per la fotografia nasce con il regalo della mia prima macchinetta fotografica, una MINICOMET Bencini, un piccolo apparecchio anni '60. Con quello, a circa 7 anni, ho scattato le mie prime foto. Mi ricordo ancora quando i miei genitori ritirarono le stampe e mi dissero che alcune erano venute male, con strane inquadrature, io però le avevo scattate così apposta...
Poi un viaggio a Venezia, all’età di 17 anni, contribuì in modo determinante a consolidare questo amore. Ricordo una foto in particolare: era il 1977, una nave russa entrava nel canale con la sua falce e martello sulla ciminiera, io mi affrettai a scattare e solo dopo, con la stampa, mi accorsi che era entrato nell’inquadratura un gabbiano in volo, leggermente mosso. Mi conquistò. Credo che nella fotografia, come in tutte le arti, per un buon risultato debbano fondersi una serie di elementi, dalla tecnica, alla luce, al soggetto e qualche volta interviene il caso che rende il tutto più interessante. Non che nei miei lavori l'elemento casuale sia indispensabile, ma a volte può diventare un valore aggiunto, imprevedibile, e in quella foto di Venezia fu determinante. La scattai con un vecchio apparecchio a soffietto, una Kodak Retinette. Era di mio padre. 


Tutte le immagini di unaphotoalgiorno, sono davvero tante, sono scattate con uno smartphone?

Sì, le immagini ad oggi sono circa 1500, è un po’ una follia, ma l’impegno quotidiano mi diverte e mi tiene allenato l'occhio. Da circa 5 anni le mie foto sono scattate quasi esclusivamente con lo smartphone. È un oggetto versatile, ma soprattutto è sempre con me.
La qualità non è alta, ma la velocità e l’immediatezza possono essere a volte molto utili. Mi basta vedere un luogo, un taglio di luce o qualcos’altro che attira il mio sguardo e sono pronto a fissarlo in un file. Tutto all’istante e un attimo dopo, posso condividere lo scatto con centinaia di persone. Tutto ciò è affascinante per uno come me che viene dalla fotografia analogica, fatta di tempi lunghi ed attese per lo sviluppo e per la stampa. Senza nulla togliere a quel meraviglioso mondo della fotografia su pellicola, alla quale io sono molto affezionato.
Da quel che dici, capisco dunque che l'immediatezza con cui si può fruire delle immagini non ti sembra un limite, anzi, tutt'altro. Forse il fatto che si tratti di una foto al giorno, quindi di una storia che sappiamo che avrà un seguito, ci aiuta a non logorarle? È la costanza del tuo discorso fotografico a frenare un po' la velocità della fruizione?

Il ritmo incessante dello scorrere delle immagini al quale oggi siamo sottoposti è impressionante, ne siamo bombardati costantemente. Da quando ero bambino, dagli anni 70 ad oggi c’è stata un’immensa accelerazione del nostro rapporto con le immagini, sia con quelle in movimento, di cinema e televisione, che con quelle fisse. Questa sovraesposizione ha spinto inevitabilmente il video e la fotografia a progredire nel loro linguaggio e a sviluppare nuovi modi di vedere. Oggi, con la diffusione degli smartphone, siamo tutti fotografi o videomakers, tutti siamo in grado di leggere una buona fotografia. Facebook è un canale nel quale scorrono quotidianamente un illimitato flusso di parole ed immagini, sia video che fotografiche, e sono proprio queste ultime che moltiplicandosi in maniera esponenziale con la condivisione, lo rendono il social network più attraente. Ecco, a me piace immergere le mie foto in questo fiume, e quando il mio scatto condiviso blocca lo sguardo di qualcuno che clicca poi sul like, credo di essere riuscito a trasmettere qualcosa. Per me Facebook è una bacheca sulla quale posso fissare le mie fotografie, i momenti che vedo, come fossero post it con i miei appunti attaccati a una parete.
Di questo tuo lungo reportage fotografico, oltre alla quotidianità, vorresti evidenziare altre costanti?

Altra costante è la parola ricerca, la ricerca nel quotidiano di immagini che riassumano un emozione o per isolare delle immagini dal fluire troppo veloce del nostro vedere, una ricerca per soffermarsi a guardare. Mi capita spesso di ricevere apprezzamenti per unaphotoalgiorno, anche da persone che non incontro abitualmente ma fruitori di Fb.
Alcune di loro mi raccontano che, seguendo il filo del mio discorso, sono state attratte e condizionate dal mio punto di vista ed hanno cambiato modo di fotografare. Ciò mi colpisce e, devo ammettere, mi gratifica molto.
 Suggerire uno sguardo attraverso un’immagine credo sia una delle cose più affascinanti e anche più difficili per un fotografo. Vuol dire che l’immagine è stata recepita e si è fissata nella memoria e può aiutare nel tempo a vedere e guardare in modo diverso. Un po’ come il ritornello di una canzone che ci si ritrova a fischiettare inconsapevolmente. Per me la fotografia è una musica per gli occhi.

Le persone sono spesso assenti nelle tue foto, eppure quando io le guardo mi capita spesso di aspettare che qualcuno ritorni; voglio dire che gli spazi che ritrai mi sembrano luoghi momentaneamente, solo momentaneamente, abbandonati. Come se ci fosse sempre una voce in lontananza, che fa compagnia.

È bello quello che dici, grazie, rimanda ad un mio modo di essere. È vero, le persone spesso sono assenti, ma a volte entrano da sole in certe immagini, come il gabbiano. Arrivano improvvisamente e io le lascio lì! Sono volute entrare e io le lascio dentro! Le chiamo comparse.
Tornando al tema del guardare, hai già parlato di "soglie" in occasione di una tua mostra a San Francisco.

La mostra del 2014 a San Francisco è stata una grande conferma dopo tanti anni di fotografie, finalmente la mia prima vera mostra fotografica. Titolo “Soglia”, “Treshold”. Il tema mi è stato suggerito dalla lettura di Lezioni di fotografia, bellissimo libro del maestro Luigi Ghirri. Per lui: «Fotografare vuol dire escludere, e questo si fa con l’inquadratura che è, appunto una soglia.
[…] L’inquadratura non è solo bordo, ma una 'soglia': un punto nello spazio in cui si fronteggiano il mondo interiore del fotografo, io-pelle con occhio abnorme, e l’ammasso inerte e silente che sta fuori». Da queste parole ho tratto spunto per la mia mostra . La mia ricerca fotografica sulla soglia è stata una sfida nel trovare ulteriori soglie da inserire nell’inquadratura del paesaggio marino, con l’intento di portare lo sguardo dell’osservatore su un solo punto: l’orizzonte del mare. E allora nelle mie immagini appaiono elementi casuali atti a concentrare l’attenzione sulla linea di confine tra cielo e mare, elementi trovati sulle spiagge o sulle strade lungomare del Tirreno, Adriatico e Jonio. Vedere queste fotografie del paesaggio italiano nel contesto di una città come San Francisco è stato per me motivo di grande soddisfazione.

Oltre al tuo lavoro di regista e a Luigi Ghirri, chi o che cos'altro ritieni che ti abbia insegnato uno sguardo?

Ogni fotografo ci insegna a guardare le cose in modo nuovo, ma Luigi Ghirri per me è stato colui che ha condizionato ed emozionato con più forza le origini della mia fotografia. Poi ho scoperto Gabriele Basilico che ha influenzato il mio modo di vedere la città. Infine Hiroshi Sugimoto che ha sintetizzato il linguaggio fotografico con le sue foto dedicate al mare, cancellando il superfluo e riducendo la fotografia a una linea: l'orizzonte, il cielo sopra e sotto il mare, fotografato in diversi luoghi ed in diverse ore sulla terra.


CapGazette ringrazia Graziano Paiella e le sue fotografie


Clicca sulle immagini per entrare nel sito fotografico www.grazianopaiella.com
Chiacchiere: Graziano Paiella e Nicoletta De Boni © CapGazette
Foto: Immagini tratte dalla mostra 'Soglia' e 'Altare della patria', Roma 1967 © Graziano Paiella
Maggio 2015

Las madres

Las Madres

Las madres nos dan amor, cariño y esperanza;
ellas nos dan la vida, una familia y una casa.
Las madres nos alimentan día y noche;
y nos llevan a pasear en el más lindo coche.
Las madres son como ángeles caídos del cielo;
especializados para quitar todos nuestros miedos.
Ellas nos dejan cumplir nuestras necesidades;
y a veces nos dejan hacer extravagantes actividades.

A mí me encanta jugar con ella;
ella siempre juega conmigo y con las estrellas.
Yo la amo con todo mi corazón,
y ella no tiene comparación.
Texto y dibujos: Bruno Ancona Sala
CapGazette, mayo 2015