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Pio Baroja Amores tardíos

La misura del tempo

In questi tempi di resistibili, eppure violente, ascesi di Arturi Ui e Ubu Re, e risibili opposizioni, mi sono felicemente imbattuto in questo breve testo di Pio Baroja (tratto da Gli amori tardivi), che mi è parso una sana descrizione di un anticonformismo istintivo, fisiologico, senza artifici né pose. Un'autonomia del pensiero e del comportamento a cui aggrapparsi. Per misurare a proprio modo, sia pure dolorosamente e in solitudine, il tempo. Non è di un ritorno all'età dell'innocenza che parlo, né di una cieca fiducia nella propria giustezza, ma di un cocciuto coraggio di essere.

La medida del tiempo

En estos tiempos de resistibles, y sin embargo violentas, ascensiones de Arturos Ui y Ubús Reyes, y risibles oposiciones, me he felizmente tropezado con este breve texto de Pio Baroja, (un fragmento de Los amores tardíos), que me parece una sana descripción de un anticonformismo instintivo, fisiológico, sin artificios ni poses. Una autonomía del pensamiento y del comportamiento a la cual agarrarse. Para medir de forma personal, aunque quizás con dolor y en soledad, el tiempo. No hablo de volver a la edad de la inocencia, ni de una ciega confianza en la justitud personal, sino de una obstinada valentía por ser.

- Io sono come quei vecchi orologi che hanno il meccanismo frastornato, non c’è modo di metterlo a posto né di aggiustarlo. Accostati alla parete, con la loro forma di bara, mettono alla prova i migliori orologiai. Nella cassa di quegli orologi ci sono polvere e ragnatele, e tra due pesi di piombo ineguali, appesi a delle corde nere, un pendolo dorato, che è come il cuore del meccanismo che fa tic tac, tic tac, senza stancarsi. Anche se camminano, questi orologi vanno avanti o indietro, e quando arriva il momento di suonare le ore, si lanciano con un rumore terribile in sonori rintocchi, e invece di suonare il quarto d’ora suonano la mezz’ora, e quando devono suonare le dodici suonano l’una.
Questi rintocchi insoliti sembrano stupire l’orologio stesso da cui provengono, e tutto ciò che lo circonda, e i mobili e i quadri pare debbano guardarsi l’un l’altro straniti e sarcastici, e farsi un occhiolino beffardo e confidenziale.

- Yo soy como esos relojes viejos que tienen la maquina trastornada, no hay manera de componerla ni de arreglarla. Arrimados a la pared, con su forma de ataúd, desafían a los mejores relojeros. En la caja de esos relojes hay polvo y telas de araña, y entre dos pesas de plomo desiguales, que cuelgan de cuerdas negras, una péndola dorada, que es como el corazón de la maquina que hace tictac, tictac, sin cansarse. Aunque anden, estos relojes adelantan o atrasan, y cuando llega el momento de dar las horas, se disparan con ruido terrible en sonoras campanadas, y en vez del cuarto dan la media, y cuando tienen que dar las doce dan la una.
Estas campanadas insólitas parecen asombrar al mismo reloj de donde salen, y a todo lo que le rodea, y los muebles y los cuadros se piensa que se han de mirar unos a otros con extrañeza y con sorna, y hacerse un guiño burlón y confidencial.
Intro e trad it: Lino Graz
Texto: Pio Baroja, de Los Amores Tardíos, 1926
Foto: Aix en Provence / Andrate. Autore: Lino Graz

L’orologiaio. Barcellona/Londra

L’orologiaio (appunti sul tempo e le città) - Barcellona/Londra

Poblenou, Barcelona
East End, London


[…] These fragments I have shored against my ruins [1] […]
T.S. Eliot

Remor de cops d’aixada, no la sents?
Rera les altes tanques de paret.
Sense repòs, però molt lentament,
ennllà de la cleda contínua del temps.
[2] […]

Salvador Espriu


[1] […] Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine […]

[2] Rumore di colpi di zappa, non lo senti?
Dietro gli alti muri di recinzione.
Senza sosta, ma molto lentamente,
oltre il recinto continuo del tempo. […]

Da quando è andato in pensione il signor B.D. [3], ex orologiaio, ha preso casa al Poblenou, a Barcellona. Dice che si trova abbastanza bene, che può sbrigare le sue faccende quotidiane indisturbato, senza troppi intoppi: fa, disfa, prega, pellegrina, fruga nella spazzatura, raccatta di tutto, dirige il traffico, piscia negli angoli di strada.
Visto che gli passano una buona mesata - ha un'ineguagliabile anzianità di servizio - abita in un loft ricavato in un vecchio capannone industriale in disuso, di quelli con scala di ferro esterna, in un vicolo non lontano dal cimitero [4] (e dove, se no?).
A colazione mangia spesso pane e sardine in un bar tenuto da un libanese musulmano - perché lui, il signor B.D., è ecumenico, o per lo meno lo è diventato: da vecchi bisogna sforzarsi di diventare più tolleranti, pena l’abbandono.
La sera, invece, gira intorno alla Casa di Abramo (tempio ecumenico di belle speranze anche lui) incerto sul da farsi: una bella sbronza per dimenticare o una partita a domino sul lungomare per ricordare?

[3] “[…] il Signor B.D. è un ottimo orologiaio. Pallido e acquatico un morto buongiorno ondeggia nell’aria, che triste stagione! […]"
Parafrasi espressionista di testo dadaista di Tristan Tzara (Un cuore a gas).

[4] Il cimitero del Poblenou mi ricorda, a me torinese, quello di san Pietro in Vincoli a Torino, accanto al Cottolengo. Per altro anche il Cottolengo e ancor più il Signor Don Bosco hanno lasciato il loro segno a Barcellona.

In origine il Poblenou era parte del municipio indipendente di Sant Martí dels Provençals; poi, dopo una contestata votazione comunale, divenne quartiere barcellonese dei carrettieri (data l’umidità del luogo, pare che nelle stalle del pianterreno di notte i cavalli venissero appesi al soffitto per scansare i reumatismi); in seguito, nella prima metà del XX secolo fu il luogo delle fabbriche, dei giornali e delle utopie; nel 1992 è poi stato coinvolto nell’epopea moderna della Barcellona olimpica (tanto che un’area del quartiere si chiama ora Vila Olímpica); infine - ma infine solo per ora -, ribattezzato per incanto 22@, è diventato il distretto tecnologico, dell’architettura, del design e della moda.
La toponomastica è spesso crudele. Nasconde ciò che dovrebbe svelare. Eppure, se studiata con cura, è una mappa del tempo che passa. I luoghi cambiano nome e abitudini, eppure mantengono (o almeno ci provano, aggrappandosi con le unghie alle macerie) tracce dei nomi precedenti, del loro passato. Bisogna avere pazienza, scavare un po’ sotto la superficie, domandarsi e domandare, frugare negli archivi e nelle biblioteche, leggere le insegne, i volantini, le scritte sbiadite sui muri, sui lampioni, le targhe seminascoste nei giardini, tra le righe dei piedistalli delle statue…
Parlo con Carlos, figlio naturale del Poblenou, bagatto e scacchista, e mi dice di una chiesa che prima c’era e che ora non c’è:
- Stava vicino a Carrer Doctor Trueta, io la ricordo bene, ma non ne resta traccia. Vieni, ti ci porto, sono nato lì vicino. La fece costruire il proprietario di una fabbrica per evitare che lo costringessero a sgombrare. Non mi è chiaro se fosse un voto o solo speculazione edilizia. Probabilmente entrambe le cose.
- È il gioco delle tre carte: qui c’era una fabbrica, ora la fabbrica dov’è? Non perdere d’occhio le carte: qui c’era una strada, la vedi? Ora, la strada dov’è?

All’inizio c’erano le maremme, le lagune della vicina foce del fiume Besòs (ne resta il nome di una strada e di una fermata della metro: Llacuna, laguna), poi i primi nuclei abitati del comune di san Martí dels Provençals, fuori le mura barcellonesi, a nord-est del centro città, i campi agricoli, le vie dei trasporti.
La storia del Poblenou, però, è soprattutto legata all’industria, alle fabbriche e alla vita dei lavoratori: capannoni, villaggi industriali, binari ferroviari, ciminiere di cui è ancora possibile scovare i segni qua e là. Ma bisogna fare in fretta.
- Alcune fabbriche sono ancora in funzione, ma niente a che vedere con quello che era…
Seguendo il filo delle trasformazioni, i tic tac irregolari e diacronici della bottega dell’orologiaio, eccoci altrove, a Londra. Cediamo la parola a Danny e al suo East End.

“My East End is Victoria Park, where the new East Londoners jog, while the old ones smoke a spliff on the park benches, and it wasn’t that long ago you wouldn’t go through it after dark.
My East End is the boarded up estates on the Old Ford Road, reminder of the finest hour of the welfare-state that the new rich are desperately trying to sweep under the carpet.
My East End is Pellicci’s, where a third-generation Italian family has become the heart of the cockney community of Bethnal Green.
My East end is Bethnal Green market, Whitechapel Market, and all the other markets, scruffy and selling all sorts, from and for people from the world over.
My East End is Turin Street, a tiny non-descript street off Columbia Road, which symbolically brings together who I am now, and where I once came from…”.

“Il mio East Est è Victoria Park, dove i nuovi residenti fanno jogging, mentre quelli vecchi fumano una canna sulle panchine del parco, e non molto tempo fa non ci si entrava col buio.
Il mio East End sono le vecchie case popolari sigillate, tappate, di Old Ford Road, un souvenir dei bei tempi del welfare che i nuovi ricchi stanno disperatamente cercando di nascondere sotto il tappeto.
Il mio East End è Pellicci’s, dove una famiglia italiana di terza generazione è diventata il cuore della comunità cockney di Bethnal Green.
Il mio East End sono il mercato di Bethnal Green, quello di Whitechapel, e tutti gli altri mercati trasandati dove gente di ogni angolo del mondo vende e compra di tutto.
Il mio East End è Turin Street, una via minuscola e insignificante dietro Columbia Road, che simbolicamente mette insieme chi sono adesso e il posto da dove sono venuto…”
Da Barcellona a Londra: ogni città europea vanta un vecchio quartiere industriale che è stato a poco a poco abbandonato e più tardi “ringiovanito”. Il signor B.D. è andato in pensione e un nuovo orologiaio più preciso (più umano o più disumano?) lo ha sostituito.

“… My East End is the Bangladeshi communities of Shadwell, Spitalfields, Whitechapel, Stepney, and the best curries in the whole world (well, Europe at least).
My East End is the woman who shouts ‘C’mon West Ham’ at my claret and blue shirt as I cycle past her through one of the few remaining estates off Cable Street, in Shadwell.
My East End is the Turner’s Old Star, the last ungentrified pub left in Wapping (shame they support Spurs there), and the Palm Tree, the Marquis of Cornwallis and any other boozer that refuses to yield to the new trendies in town…”

“… Il mio East End sono le comunità bengalesi di Shadwell, Spitalfields, Whitechapel, Stepney e i migliori curry del mondo intero (beh, almeno d’Europa).
Il mio East End è la donna che grida ‘Forza West Ham’ quando le passo accanto in bici con la mia maglia granata e blu davanti a una delle poche vecchie case popolari rimaste dietro Cable Street, a Shadwell.
Il mio East End sono il Turner’s Old Star, l’ultimo pub non messo in tiro rimasto a Wapping (peccato siano del Tottenham), e il Palm Tree, il Marquis of Cornwallis e ogni altra bettola che si rifiuta di cedere ai nuovi trendy calati in città…”
Fieri del proprio quartiere di nascita come Carlos o consapevoli di essere stati in qualche modo parte della gentrification - pre-gentrification un po’ sfigata se vogliamo: tipi bizzarri, stralunati e abbastanza sconsiderati da mandare in avanscoperta, - come Danny e il sottoscritto, gotici o grunge, snob o cialtroni, raccontiamo quello che abbiamo visto o immaginato di vedere, senza troppa paura delle incoerenze, ma senza saltellare d’entusiasmo per un progresso avvizzito e tirato a lucido, il botox urbano dal linguaggio facile, leggero, devastante, privo al contempo di ironia e di storia, quest’eterna infanzia delle moderne parole. Parole vuote, moribonde, in disuso ancor prima d’essere in uso, foglie di fico.

L’orologiaio, vecchio o nuovo che sia, non ha pietà. Noi sì.
Testo narrativo: Lino Graz
Ballata in inglese: Danny Wintringham
Foto Poblenou: Lino Graz
Foto East End: Donia Jud
CapGazette 9/2016

Per il testo completo di Danny Wintringham.
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1623952401174901&id=1623935454509929

L’arte di comporre, l’arte di tradurre ● L’art de compondre, l’art de traduir

L'arte di comporre, l'arte di tradurre - L'art de compondre, l'art de traduir


Una poesia di Víctor Verdú e la nostra traduzione in italiano. In omaggio agli equilibri e alle misure tra i suoni e i segni.

Un poema de Víctor Verdú i la nostra traducció a l'italià. En homenatge als equilibris i a les mesures entre els sons i els signes.



aquesta nit
comença el món
la primavera
la carn, el déu
el temps, comences
tu, net, infant
aquesta nit
neix la muntanya
s’esquerda el cant
batega el mar
et converteixes
en rodamón
per fi desprès
de l’enfarfec
de cambres fosques
comença el verb
comença el gest
comença tot
des de l’arrel
fins a l’estel



stanotte
comincia il mondo
la primavera
la carne, il dio
il tempo, cominci
tu, nitido, neonato
stanotte
nasce la montagna
si sfalda il canto
batte il mare
ti trasformi
in giramondo
infine libero
dall’impaccio
di camere buie
comincia il verbo
comincia il gesto
comincia tutto
dalla radice
fino alla stella


Text: Víctor Verdú
Traduzione in italiano: Paolo Gravela
Foto: CapGazette
5/2016

Mercanti italiani a Cordova

José Antonio García Luján, ‘Mercanti italiani a Cordova (1470-1515)’
in memoriam Prof. Alberto Boscolo

Presentiamo qui una selezione di paragrafi del libro, che si può trovare e leggere presso la Biblioteca dell'Istituto Italiano di Cultura di Barcellona, dove si conservano, inoltre, altri curiosi volumi. La traduzione in italiano qui riportata non è che un tentativo di intendere e rendere quell'antica scrittura castigliana


L'archivio notarile cordovese ospita un'ingente quantità e varietà di notizie sulla storia della città di Cordova e della sua provincia da metà del XV secolo – il 1442 per l'esattezza – fino all'inizio del XX secolo.
Il corpus documentale che offriamo è composto da novanta atti notarili relativi a italiani, in gran parte mercanti, che per vari motivi ebbero a che fare con gli uffici degli scrivani cordovesi.

1475, ottobre 12.
Domenego Guasco, fiorentino, tintore di scarlatti, e Fernando, tintore, suo compare, abitanti di San Andrés, stipulano scrittura secondo la quale sono obbligati a dare a Juan García, cenciaiolo, tre panni tinti in color scarlatto, per i 40.000 maravedì che da tale avevano ricevuto.
FONTE: A.P.C., Ufficio 14, protocollo 8, quad. 6, foglio, 12r.


In Cordova in questo detto dì dodicesimo del detto mese di ottobre del detto anno / settanta e cinque, stipulano Domenego Guasco, fiorentino, tintore di scarlatti / e Ferrando, tintore, figlio di Bartolomé Sanches, tintore, compagni, abitanti in Santo Andres, / che devono dare in pagamento a Juan Garçia, cenciaiolo, figlio di Alonso Garçia, legnaiolo, che Dio l'abbia, abitante / in Santo Pedro, che è presente, tre panni, venti dozzine, tinti in color scarlatto, / colorati, fini, tali che si devon dare e prendere […]

1487, giugno 19.
Accordo di apprendistato di Rodrigo di Cordova con il maestro Polo, genovese, berrettaio, entrambi abitanti nella parrocchia di San Nicolás del Ajerquía, per tempo un anno e obbligo di questo di dargli da mangiare, letto e calzatura.
FONTE: A.P.C., Ufficio 18. Protocollo 1, fogli. 732v.-733r.


In Cordova, in questo detto dì, stipulò Rodrigo di Cordova, figlio di Alfonso / Mexía, che Dio l'abbia, abitante residente in questa città nella / parrocchia di Santo Nicolas de Axarquía, che entra come apprendista con maestro Polo , genovese, berrettaio, abitante nella detta /parrocchia, che è presente, affinché lo avvezzi e insegni il detto suo / mestiere di berrettaio da oggi fini a un anno primo che verrà, / e che gli dia nel detto tempo da mangiare e bere e letto in cui dormire / e le calzature di cui avesse bisogno e vita ragionevole che lo / possa trascorrere e che gli mostri a tingere in scarlatto e scuro. […]

1496, luglio 20.
Vicenzo di Venezia, fabbricante d'organi, stipula aver ricevuto da fra' García Durán, priore, e da fra' Alonso de Vico, vicario del monastero di San Paolo di Cordova, 25.000 maravedì fino al giorno della data e in acconto di quei che dovrebbe ricevere per la fattura di degli organi per il citato monastero.
FONTE: A.P.C., Ufficio 14, protocollo 30, quad. 20, foglio. 28r.-v.


Ricevuta di maravedì.
In Cordova ventesimo dì di luglio del novanta / e sei anni, Viçenzo di Venezia, organaio, / stipula che ha in suo possesso ricevuto dal / reverendo padre fra' Garçia Duran, priore di / San Paolo di Cordova, e da fra' Alonso de Vico, vica- / rio del detto monastero, e di altro per loro, / venticinque mila maravedì fino a oggi, detto dì della / data, come acconto e pagamento dei maravedì che egli /deve avere per la fattura degli organi che a- / desso fa in detto monastero; […]

1500, luglio 8.
Juan de Villalpando stipula scrittura di perdono a favore della sua sposa Catalina de Pineda, che aveva commesso adulterio con Onorato de Spíndora, Luis de Godoy e altre varie persone, a condizione che gli dia carta di separazione nel termine di due mesi.
FONTE: A.P.C., Ufficio 18, protocollo 7, fogli. 335v.-339r.


Perdono di corna.
Nel nome della Santissima Trinità, Padre e Figlio / Spirito Santo, tre persone e un solo Dio vero, / che vive e regna per sempre senza fine, e della / beata Vergine Gloriosa Nostra Signora / Santa Maria, sua madre, e di tutti i / santi e sante della corte e regno celestiale. / Poiché la debolezza umana fa gli uomini // (foglio 336r.) brevemente errare e dagli errori nascono imbrogli e / contende e inimicizie e grandi disaccordi, [...] Per tanto in conformità con il Santo Vangelo, tramite questa presente carta voglio che sappiano / quanti questa carta di perdono vedano che io, / Juan de Villalpando, figlio di Juan Rodrigues de Villa- / alpando, che Dio l'abbia, abitante della città / di Siviglia e abitante che soleva essere della molto / nobile e molto leale città di Cordova, conosco e / accordo a voi, Catalina de Pineda, mia legit- / tima sposa, figlia di Bartolome Ruis d’Escanno, / e a voi Onorado d’Espíndola, genovese, e a voi, / Luis de Godoy, figlio di Juan de Godoy, venti / e quattro di Cordova, e dico che per quanto a- /desso saranno forse due anni, poco più o poco meno / di tempo, che io essendo assente da questa città, / nel detto tempo, voi, la detta Catalina de Pineda, mia (sposa) // (fogli 336v.) in vituperio e disonore mio e del mio onore aveste commesso e commetteste adulteri / con i detti [...]

1502, aprile 20.
Cristóbal de Avila, abitante nella parrocchia di Santa Maria, stipula scrittura di caparra a favore di Simón Ruiz, fiorentino, abitante di El Carpio, e di Francisco, orologiai, che dovevano fare un orologio per la città di Ecija per il valore di 10.000 maravedì.
FONTE: A.P.C., Uficio 14, protocollo 5, quad. 23, foglio. 2r


Caparra. Orologio
In Cordua in questo detto dì si obbligò Christoual de Auila, contadino, / abitante in Santa María, e disse che in quanto Ximon Ruys, fiorentino, abitante di / Carpio, e Françisco, orologiai, sono obbligati a fare un orologio / per la città di Eçija per dieci mila maravedì in certo termine, / a tal scopo, stipulano che lo faranno secondo i termini e secondo che / sono obbligati a vista di maestri, e se non lo facessero, / che pagheranno i maravedì che avessero ricevuto [...].



José Antonio García Luján, ‘Mercaderes italianos en Córdoba (1470-1515)’, © Nuova Casa Editrice L. Cappelli, Bologna, 1988.
Foto: Vista di Cordova, Anónimo italiano del secolo XVI, Biblioteca Digital Hispánica.
Junio 2014
Traduzioni dei frammenti: Paolo Gravela

El carretero

El carretero
(o un sueño exótico en tiempos crueles y desencantados)



No muy lejos de la casa de Lucas, en Sartamea, vivían unos chicos extranjeros “en busca de buena suerte”. Lucas fumaba a menudo con ellos. Una tarde de primavera, casi verano, después de cenar, se quedaron delante de la puerta de su bajo cerca del mar, en el barrio de los pescadores y los traficantes. La noche era fresca, las conversaciones se habían esfumado en el anochecer, quedaban frases cortadas y caladas de humo. Se había hablado de proyectos, intenciones.
- Dicen los chinos que delante de los ojos tenemos el pasado, y detrás del culo el futuro; el futuro es transparencia, pura transparencia: un cristal mate, una cortina de agua.
Antes de irse a dormir, Lucas dio una vuelta hasta la playa. Silencio. Oscuridad. Mar. Los pensamientos parecían dilatados, distraídos, se apoyaban suaves en los pasos lentos. En el cielo negro las nubes eran barbas blancas y filósofas, rostros y bustos de algodón a la luz de la luna.
- Vosotras, barbas blancas en el cielo, afirmaciones, gestos de aire, camuflajes, tiovivos de soplos, ¿de dónde venís? ¿Adónde vais?
Aquel que a Lucas le pareció que increpaba, o interpelaba, el murmurar del cielo, a las tres de la noche, era un anciano carretero. Inclinado hacia adelante, apoyado en un bastón, el andar inestable, arrastraba su carreta en la noche sartamina como recién llegado de la luna.
En cambio, no. No venía de la luna. Ante los ojos sorprendidos de Lucas, las nubes dibujaron en el cielo el mapa de una posible ruta, nombres evocativos, antiguos caminos de mercaderes: en primer lugar un barrio de chabolas de Phnom Penh; luego Imfal, Agra, Jammu y Samarcanda; más tarde Bamiyán, Mazar-e Sarif, Herat, Teherán; finalmente Alepo, Esmirna y Estambul.
El carretero llevaba objetos perdidos, signos mudos, de un idioma lejano; los pies sucios de un camino hecho andando y de distancias medidas en metros.
Estaba bien, hizo un gesto para decir que estaba bien. Tenía mil años y a pesar de todo seguía caminando, con pasos pequeños, por esta ciudad extranjera. Los bigotes de gato, la perilla de punta. Lucas estuvo a punto de preguntarle por Marco Polo, Vasco de Gama. Vaya ideas de… marinero. Al fondo, esbelto encima de una columna, Cristóbal Colón señalaba el mar.
[sin]
[fa]
[ra]
O de verdad había venido andando, pensó Lucas, o bien cerca de Bagdad alguien le habría prestado una alfombra voladora o algo por el estilo, diciéndole:
- ¿Adónde va, Señor?
- A Europa, donde mi hijo.
- ¡Hombre! ¡Está lejos esto!
- ¿Y qué más da?
- Bueno, pues tome esto, para su viaje. Se lo presto. A la vuelta me lo devolverá.
El viejo habría sonreído, bajo la luna de Bagdad - porque es famosa la luna de Bagdad -, luego habría cargado la alfombra en su carro y se lo habría agradecido: shukran yasilan.
- ¡Pero no, señor! es la carreta la que tiene que cargar encima de la alfombra, ¡No al revés!
Estos árabes, habría pensado el carretero, son muy amables, pero cabezones como mulas. Entonces, por educación, una antigua educación, el carretero se habría subido a la alfombra con su carreta: sólo unos kilómetros, habría pensado, luego bajo.
Efectivamente luego se había bajado, porque aprender a volar a cierta edad es una impertinencia:
- Yo camino en el suelo, joven hombre, el cielo se lo dejo a la luna y a las nubes barbudas.
Y las nubes, para agradecérselo, le habían indicado el camino para Sartamea.


Text: Lino Graz (cuentos de Sartamea)
Fotos (Letras árabes sin, fa, ra, raíces del campo semántico del "viaje"): Lino Graz
CapGazette 4/2016

Il carrettiere

Il carrettiere
(o un sogno esotico in tempi crudeli e disincantati)



Non molto lontano dalla casa di Lucas, a Sartamea, abitavano dei ragazzi stranieri “in cerca di buona fortuna”. Lucas fumava spesso con loro. Una sera di primavera, quasi estate, dopo cena, si attardarono sulla porta del loro piano terra vicino al mare, nel quartiere dei pescatori e dei trafficanti. La notte era fresca, le chiacchiere erano calate col buio, restavano frasi mozze e boccate di fumo. Si era parlato di progetti, di intenzioni.
- Dicono i cinesi che davanti agli occhi abbiamo il passato, e dietro il culo il futuro; il futuro è trasparenza, pura trasparenza: un vetro smerigliato, una cortina d'acqua.
Prima di dormire Lucas fece due passi fino alla spiaggia. Silenzio. Buio. Mare. I pensieri parevano dilatati, distratti, poggiavano ovattati sui passi lenti. Nel cielo nero le nuvole erano barbe bianche e filosofe, visi e busti di cotone alla luce della luna.
- Voi, barbe bianche in cielo, affermazioni, gesti d'aria, camuffamenti, giostre di sbuffi, da dove venite? Dove andate?
Colui che a Lucas sembrò apostrofare, o interpellare, il borbottare del cielo alle tre di notte era un anziano carrettiere. Inclinato in avanti, poggiato su un bastone, il passo instabile, tremulo, trascinava il suo carretto nella notte sartamina come arrivato dalla luna.
Invece no. Non veniva dalla luna. Davanti agli occhi stupiti di Lucas, le nuvole disegnarono in cielo la mappa di un possibile percorso, nomi evocativi, strade di commerci antichi: prima un quartiere di baracche di Phnom Penh; poi Imphal, Agra, Jammu e Samarcanda; poi ancora Bamiyan, Mazar-i Sharif, Herat, Teheran; infine Aleppo, Smirne e Istanbul.
Il carrettiere portava oggetti smarriti, segni muti, di una lingua ormai lontana; i piedi sporchi di una strada fatta camminando e di distanze misurate in metri.
Stava bene, fece segno che stava bene. Aveva mille anni e tutto sommato ancora camminava, a piccoli passi, in questa città straniera. I baffi irti del gatto, il pizzo a punta. A Lucas venne da chiedergli di Marco Polo, di Vasco da Gama. Che diavolo di idee da… marinaio. Sullo sfondo, slanciato su una colonna, Cristoforo Colombo indicava il mare.
[sin]
[fa]
[ra]
O davvero era venuto a piedi, pensò Lucas, oppure dalle parti di Bagdad qualcuno gli deve aver prestato un tappeto volante o roba del genere, dicendogli:
- Dove andate, signore?
- In Europa, da mio figlio.
- Ma guardi che è lontana!
- Che importa?
- Tenete, allora, per il vostro viaggio. Ve lo presto. Al ritorno, me lo renderete
Il vecchio avrà sicuramente sorriso, sotto la luna di Bagdad - perché è famosa la luna di Bagdad -, poi avrà caricato il tappeto sul suo carretto e ringraziato: shukran jasilan.
- Ma no, signore! È il carretto che dovete caricare sul tappeto, non il contrario!
Questi arabi, aveva certo pensato il carrettiere, sono davvero gentili, ma testardi come muli.
Allora, per educazione, un’antica educazione, il carrettiere sarà salito sul tappeto col suo carretto: giusto per qualche chilometro, avrà pensato, poi scendo.
Poi infatti era sceso, perché imparare a volare a una certa età è un'impertinenza:
- Io cammino per terra, giovane uomo, il cielo lo lascio alla luna e alle nuvole barbute.
E le nuvole barbute, per ringraziarlo, gli avevano indicato la strada per Sartamea.


Text: Lino Graz (racconti di Sartamea)
Foto (Lettere arabe sin, fa, ra, radici del campo semantico del "viaggio"): Lino Graz
CapGazette 4/2016

Jesuïtes al Paraguai

Jesuïtes al Paraguai

Diuen que només hi ha tres coses que Déu no sap:
1- Quants són els ordres monastics femenins.
2- Quantes escoles han fundat els salesians.
3- Què pensa un jesuïta.
Jo n’afegiria una quarta, potser menys enginyosa però un pèl apocalítpica:
4- Quants llibres han escrit els seus fills, aquells del Gènesi i capitols següents, nines dels seus ulls.
Així doncs, m’imagino un Déu en pijama, oblidat per tothom i ell mateix oblidós de la sort de les esmentates nines, còmodament assegut a l’Univers (que té forma de biblioteca, infinita), els peus al caliu d’un parell de galàxies, toves com mitjons, immers, a la feble llum d’una làmpada de nit en format quasar, en la lectura de tot allò que s’ha escrit en papir, pergamí i paper, o en pdf, en sumeri, sanscrit, etrusc (poca cosa), arameu, grec, llatí, guaraní, àrab, bantu i saxó pels segles dels segles. Déu n’hi do! Exclama de tant en tant, sorprès per tant d’enginy que ell mateix no es pensava d’haver creat…

Al nostre petit univers de butxaca, una nova immersió dins les coves submarines de la biblioteca de l’Institut Italià de Cultura de Barcelona han donat nous fruits: El cristianisme feliç a les missions dels pares de la Companyia de Jesús al Paraguai, de Ludovico Antonio Muratori, arviver, bibliotecari (ell també!), pare de la historiografia italiana, editat per primer cop al 1743 i a partir d’aleshores diverses vegades, fins l’edició de Sellerio del 1985 que va acabar a la xarxa de pescar de CapGazette.
El llibre explica amb molta cura l’estada dels Jesuïts al Paraguai, les seves obres, les seves dificultats, els seus errors, els seus descobriments, la seva presumpció i la seva humilitat, els conflictes amb els Indis, amb les administracions colonials espanyola i portuguesa i amb els malparits “Mammalucchi”, caçadors d’esclaus sense escrúpols que venien als propietaris de les plantacions brasileres.

És possible que algú recordi una pel·licula del 1986, The Mission, amb en Rober De Niro i en Jeremy Irons, sobre el mateix tema.
Traduïm aquí un breu fragment del llibre, en el cual Muratori ens parla del talent musical dels Indis, que no era inferior al d’Ennio Morricone, autor de la banda sonora de la pel·licula.
Sobre la música dels Indis del Paraguai

És digna d’ésser aquí registrada una altra invenció de gran valor amb la finalitat d’alimentar i fer crèixer la devoció dels nous fidels americans, i també per atreure els infidels a la veritable religió i unir-se als altres Indis dins les Reduccions ja fundades. Aquesta invenció consisteix en la música, sobre la qual aquells industriosos missionaris tenen sovint prou coneiximent i algú en sap fins i tot a la perfecció. És increible la inclinació natural que aquells pobles poseeixen en l’harmonia […] a més de l’esmentada inclinació, en ells es troba una admirable habilitat per la musicalitat de les veus i dels instruments musicals, és a dir, una predisposició per aprendre tot allò que es refereix al cant i al so. Tenen veus excel·lents, i esdevenen així, i fins i tot més harmonioses que en altres països, gràcies a les aigues dels rius Paranà i Uruguai, perquè no beuen res més que aigua sana i pura […]. Allò que és més admirable és que a Europa no hi ha, potser, instrument musical que no s’hagi introduït i que no es toqui entre aquests bons Indis, com l’orgue, la guitarra, l’arpa, l’espineta, el llaüt, el violí, el violoncel, el trombó, el cornetto, l’oboè i d’altres semblants. I aquests instruments, no només els fan servir delicadament, si no que fins i tot els fabriquen amb les seves mateixes mans […].

Fragment de Ludovico Antonio Muratori (1672-1750):
El cristianisme feliç a les missions dels pares de la Companyia de Jesús al Paraguai.



Intro: Paolo Gravela
Il·lustracions àngel estilita i àngel en vol: Albert Àlvarez
Foto (Piverone, Gesiun, detall): Lino Graz
CapGazette 3/2016

Gesuiti in Paraguai

Gesuiti in Paraguai

Dicono che ci siano solo tre cose che Dio non sa:
1- Quanto sono gli ordini monastici femminili.
2- Quante scuole hanno fondato i salesiani.
3- Che cosa pensa un gesuita.
A queste ne aggiungerei una quarta, forse meno spiritosa ma un briciolo apocalittica:
4- Quanti libri sono stati scritti dai figlioli suoi, quelli della Genesi e capitoli successivi, pupille dei suoi occhi.


Mi immagino allora un Dio in pigiama, ormai dimenticato da tutti e lui stesso dimentico delle sorti delle suddette pupille, comodamente seduto sull’Universo (che ha forma di biblioteca, infinita), i piedi al caldo in un paio di galassie morbide come calzettoni, immerso, alla fioca luce di una quasar-abatjour, nella lettura di tutto quello che è stato scritto su papiro, pergamena e carta, o in pdf, in sumero, sanscrito, etrusco (poca roba), aramaico, greco, latino, guaranì, arabo, bantù e sassone nei secoli dei secoli. Dio mio! Esclama ogni tanto, sorpreso da tanto ingegno che non credeva d’aver creato…

Nel nostro piccolo universo tascabile, una nuova immersione nelle grotte sottomarine della biblioteca dell’Istituto Italiano di Cultura di Barcellona ha dato nuovi frutti: Il cristianesimo felice nelle missioni dei padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai, di Ludovico Antonio Muratori, archivista, bibliotecario (anche lui!), padre della storiografia italiana, pubblicato per la prima volta nel 1743 e poi successivamente molte altre volte fino all’edizione di Sellerio del 1985 che è finita nelle rete da pesca di CapGazette.
Il libro racconta con molta attenzione della stagione dei Gesuiti in Paraguai, le loro imprese, le loro difficoltà, i loro errori, le loro scoperte, la loro presunzione e la loro umiltà, i conflitti con gli Indios, con le amministrazioni coloniali spagnola e portoghese e con i famigerati Mammalucchi, feroci cacciatori di schiavi da vendere a proprietari delle piantagioni brasiliane.

Qualcuno forse ricorderà un film del 1986, The Mission, con Rober De Niro e Jeremy Irons, sullo stesso tema. Riportiamo qui un breve passo del libro in cui il Muratori narra del talento musicale degli Indios, non inferiore a quello di Ennio Morricone, autore della colonna sonora del film.

Della musica degli Indiani del Paraguai

È degna di essere qui registrata un’altra invenzione di gran riguardo per nutrire ed accrescere la devozione dei nuovi fedeli americani, ed anche per attirare gli infedeli alla vera religione e a unirsi agli altri nelle Riduzioni già fondate. Questa invenzione consiste nella musica, di cui quegli industriosi missionari hanno spesso sufficiente cognizione e taluno ne sa anche a perfezione. È incredibile l’inclinazione naturale che quei popoli posseggono nell’armonia […] oltre alla suddetta inclinazione, in essi si trova una mirabile abilità per la musica delle voci e degli strumenti musicali, cioè una predisposizione per apprendere tutto ciò che spetta al canto e al suono. Hanno ottime voci, e a renderle tali, e anche più armoniose che in altri paesi, concorrono le acque del fiume Paranà e Uruguai, perché non bevono altro che acqua sana e pura […]. Quello che è più mirabile è che in Europa non vi è forse strumento musicale che non sia stato introdotto e che non si suoni tra questi buoni Indiani, come l’organo, la chitarra, l’arpa, la spinetta, il liuto, il violino, il violoncello, il trombone, il cornetto, l’oboe e altri simili. E tali strumenti non solo vengono da essi usati delicatamente, ma addirittura fabbricati dalle loro stesse mani […].

Frammento da Ludovico Antonio Muratori (1672-1750):
Il cristianesimo felice nelle missioni dei padri della Compagnia di Gesù in Paraguai.



Intro: Paolo Gravela
Illustrazioni angelo stilita e angelo in volo: Albert Àlvarez
Foto (Piverone, Gesiun, particolare): Lino Graz
CapGazette 3/2016

Breve appunto portoghese (o l’arte della digressione)

 
Breve appunto portoghese (o l’arte della digressione)

Sto leggendo Gonçalo M. Tavares, scrittore duro - non indulgente ma tutto sommato, e forse paradossalmente, clemente - di luoghi indeterminati e lingua precisa.

Lingua di precisione la sua, lingua di precisione il portoghese; ne siano esempi:
1- l’uso ancora vivo del futuro del congiuntivo, sfumatura in disuso in spagnolo e a cui altre lingue hanno rinunciato in partenza: falarei a verdade, doa a quem doer.
2 - l’infinito personale, vale a dire coniugato a seconda della persona: eu cantei uma canção para a menina dormir / para as meninas dormirem.

Decifratore, Tavares, delle malattie dei nostri tempi - anzi, delle malattie e basta: bella e triste la metafora della flor negra che troviamo per la strada e di cui non riusciamo più a liberarci.

Mentre leggo, torno col pensiero per libera associazione ad alcuni miei personali “segni portoghesi”: uno spaventapasseri quasi sul confine spagnolo, ironico segnale di frontiera, poco dopo Valencia de Alcántara; l’improvviso tacere (rispetto alla chiassosa Spagna, ma questo meriterebbe - e un giorno meriterà - un articolo a parte); le case bianche e la fabbrica del sughero di Portalegre; l’indimenticabile arrivo “trionfale” in bici a Lisbona di qualche anno fa, con Albert Àlvarez, amico illustratore (sue le illustrazioni in bianco e nero), dopo un lungo, sereno e poetico viaggio che da Madrid ci portò ad attraversare parte della Castiglia, dell’Extremadura e dell’Alentejo portoghese; l’orto botanico di Lisbona: a estufa quente e a estufa fria; una vista verticale del Tago dall’alto del Miradouro de Santa Catarina grazie a Rita Tojal, amica lisboeta che ha viaggiato più di Vasco da Gama; una pensione degna dei Ricordi della Casa Gialla (Recordações da Casa Amarela) film di João Cesar Monteiro. Poi il meandro del Douro a Oporto; il Museo delle Marionette, sempre a Oporto; la cortesia un po’ ingessata dei portoghesi, la loro cura del silenzio…

Di Gonçalo M. Tavares ho letto e consiglio vivamente Jerusalem e Aprender a rezar na Era da Técnica, Imparare a pregare nell’Era della Tecnica, che già solo il titolo vale anni di filosofie.

Tra “oggetti” personali, intimi, coperti di polvere antica, e inevitabili cliché da diario di viaggio, ritrovo naturalmente anche Fernando António Nogueira Pessoa e il suo poeta, artigiano e fingitore, di cui riporto sotto la versione originale portoghese e la mia zoppa traduzione italiana.

Autopsicografia

O poeta é um fingidor
Finge tão completamente
Que chega a fingir que é dor
A dor que deveras sente.

E os que lêem o que escreve,
Na dor lida sentem bem,
Não as duas que ele teve,
Mas só a que eles não têm.

E assim nas calhas de roda
Gira, a entreter a razão,
Esse comboio de corda
Que se chama coração.

(Fernando Pessoa, 1888/1935)
Autopsicografia
Il poeta è un fingitore / Finge così completamente / Che arriva a fingere che è dolore / Il dolore che davvero sente.
E quelli che leggono ciò che scrive / Nel dolore letto sentono bene, / Non quei due che egli ebbe, / Ma solo quello che essi non hanno.
E così nei solchi in tondo / Gira, intrattenendo la ragione, / Questo treno a molla / Che si chiama cuore.


Intro e trad: Paolo Gravela
Illustrazioni: Albert Àlvarez
Foto (Profilo a Oporto e Personaggi sui muri di Oporto): Lino Graz
CapGazette 1/2016

PROiNFANTS

PROiNFANTS • CAPGAZETTE


CapGazette e PROiNFANTS augurano a tutti Buone Feste


CapGazette y PROiNFANTS os desean Felices Fiestas


CapGazette i PROiNFANTS desitgen Bones Festes a tothom