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L’orologiaio. Barcellona/Londra

L’orologiaio (appunti sul tempo e le città) - Barcellona/Londra

Poblenou, Barcelona
East End, London


[…] These fragments I have shored against my ruins [1] […]
T.S. Eliot

Remor de cops d’aixada, no la sents?
Rera les altes tanques de paret.
Sense repòs, però molt lentament,
ennllà de la cleda contínua del temps.
[2] […]

Salvador Espriu


[1] […] Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine […]

[2] Rumore di colpi di zappa, non lo senti?
Dietro gli alti muri di recinzione.
Senza sosta, ma molto lentamente,
oltre il recinto continuo del tempo. […]

Da quando è andato in pensione il signor B.D. [3], ex orologiaio, ha preso casa al Poblenou, a Barcellona. Dice che si trova abbastanza bene, che può sbrigare le sue faccende quotidiane indisturbato, senza troppi intoppi: fa, disfa, prega, pellegrina, fruga nella spazzatura, raccatta di tutto, dirige il traffico, piscia negli angoli di strada.
Visto che gli passano una buona mesata - ha un'ineguagliabile anzianità di servizio - abita in un loft ricavato in un vecchio capannone industriale in disuso, di quelli con scala di ferro esterna, in un vicolo non lontano dal cimitero [4] (e dove, se no?).
A colazione mangia spesso pane e sardine in un bar tenuto da un libanese musulmano - perché lui, il signor B.D., è ecumenico, o per lo meno lo è diventato: da vecchi bisogna sforzarsi di diventare più tolleranti, pena l’abbandono.
La sera, invece, gira intorno alla Casa di Abramo (tempio ecumenico di belle speranze anche lui) incerto sul da farsi: una bella sbronza per dimenticare o una partita a domino sul lungomare per ricordare?

[3] “[…] il Signor B.D. è un ottimo orologiaio. Pallido e acquatico un morto buongiorno ondeggia nell’aria, che triste stagione! […]"
Parafrasi espressionista di testo dadaista di Tristan Tzara (Un cuore a gas).

[4] Il cimitero del Poblenou mi ricorda, a me torinese, quello di san Pietro in Vincoli a Torino, accanto al Cottolengo. Per altro anche il Cottolengo e ancor più il Signor Don Bosco hanno lasciato il loro segno a Barcellona.

In origine il Poblenou era parte del municipio indipendente di Sant Martí dels Provençals; poi, dopo una contestata votazione comunale, divenne quartiere barcellonese dei carrettieri (data l’umidità del luogo, pare che nelle stalle del pianterreno di notte i cavalli venissero appesi al soffitto per scansare i reumatismi); in seguito, nella prima metà del XX secolo fu il luogo delle fabbriche, dei giornali e delle utopie; nel 1992 è poi stato coinvolto nell’epopea moderna della Barcellona olimpica (tanto che un’area del quartiere si chiama ora Vila Olímpica); infine - ma infine solo per ora -, ribattezzato per incanto 22@, è diventato il distretto tecnologico, dell’architettura, del design e della moda.
La toponomastica è spesso crudele. Nasconde ciò che dovrebbe svelare. Eppure, se studiata con cura, è una mappa del tempo che passa. I luoghi cambiano nome e abitudini, eppure mantengono (o almeno ci provano, aggrappandosi con le unghie alle macerie) tracce dei nomi precedenti, del loro passato. Bisogna avere pazienza, scavare un po’ sotto la superficie, domandarsi e domandare, frugare negli archivi e nelle biblioteche, leggere le insegne, i volantini, le scritte sbiadite sui muri, sui lampioni, le targhe seminascoste nei giardini, tra le righe dei piedistalli delle statue…
Parlo con Carlos, figlio naturale del Poblenou, bagatto e scacchista, e mi dice di una chiesa che prima c’era e che ora non c’è:
- Stava vicino a Carrer Doctor Trueta, io la ricordo bene, ma non ne resta traccia. Vieni, ti ci porto, sono nato lì vicino. La fece costruire il proprietario di una fabbrica per evitare che lo costringessero a sgombrare. Non mi è chiaro se fosse un voto o solo speculazione edilizia. Probabilmente entrambe le cose.
- È il gioco delle tre carte: qui c’era una fabbrica, ora la fabbrica dov’è? Non perdere d’occhio le carte: qui c’era una strada, la vedi? Ora, la strada dov’è?

All’inizio c’erano le maremme, le lagune della vicina foce del fiume Besòs (ne resta il nome di una strada e di una fermata della metro: Llacuna, laguna), poi i primi nuclei abitati del comune di san Martí dels Provençals, fuori le mura barcellonesi, a nord-est del centro città, i campi agricoli, le vie dei trasporti.
La storia del Poblenou, però, è soprattutto legata all’industria, alle fabbriche e alla vita dei lavoratori: capannoni, villaggi industriali, binari ferroviari, ciminiere di cui è ancora possibile scovare i segni qua e là. Ma bisogna fare in fretta.
- Alcune fabbriche sono ancora in funzione, ma niente a che vedere con quello che era…
Seguendo il filo delle trasformazioni, i tic tac irregolari e diacronici della bottega dell’orologiaio, eccoci altrove, a Londra. Cediamo la parola a Danny e al suo East End.

“My East End is Victoria Park, where the new East Londoners jog, while the old ones smoke a spliff on the park benches, and it wasn’t that long ago you wouldn’t go through it after dark.
My East End is the boarded up estates on the Old Ford Road, reminder of the finest hour of the welfare-state that the new rich are desperately trying to sweep under the carpet.
My East End is Pellicci’s, where a third-generation Italian family has become the heart of the cockney community of Bethnal Green.
My East end is Bethnal Green market, Whitechapel Market, and all the other markets, scruffy and selling all sorts, from and for people from the world over.
My East End is Turin Street, a tiny non-descript street off Columbia Road, which symbolically brings together who I am now, and where I once came from…”.

“Il mio East Est è Victoria Park, dove i nuovi residenti fanno jogging, mentre quelli vecchi fumano una canna sulle panchine del parco, e non molto tempo fa non ci si entrava col buio.
Il mio East End sono le vecchie case popolari sigillate, tappate, di Old Ford Road, un souvenir dei bei tempi del welfare che i nuovi ricchi stanno disperatamente cercando di nascondere sotto il tappeto.
Il mio East End è Pellicci’s, dove una famiglia italiana di terza generazione è diventata il cuore della comunità cockney di Bethnal Green.
Il mio East End sono il mercato di Bethnal Green, quello di Whitechapel, e tutti gli altri mercati trasandati dove gente di ogni angolo del mondo vende e compra di tutto.
Il mio East End è Turin Street, una via minuscola e insignificante dietro Columbia Road, che simbolicamente mette insieme chi sono adesso e il posto da dove sono venuto…”
Da Barcellona a Londra: ogni città europea vanta un vecchio quartiere industriale che è stato a poco a poco abbandonato e più tardi “ringiovanito”. Il signor B.D. è andato in pensione e un nuovo orologiaio più preciso (più umano o più disumano?) lo ha sostituito.

“… My East End is the Bangladeshi communities of Shadwell, Spitalfields, Whitechapel, Stepney, and the best curries in the whole world (well, Europe at least).
My East End is the woman who shouts ‘C’mon West Ham’ at my claret and blue shirt as I cycle past her through one of the few remaining estates off Cable Street, in Shadwell.
My East End is the Turner’s Old Star, the last ungentrified pub left in Wapping (shame they support Spurs there), and the Palm Tree, the Marquis of Cornwallis and any other boozer that refuses to yield to the new trendies in town…”

“… Il mio East End sono le comunità bengalesi di Shadwell, Spitalfields, Whitechapel, Stepney e i migliori curry del mondo intero (beh, almeno d’Europa).
Il mio East End è la donna che grida ‘Forza West Ham’ quando le passo accanto in bici con la mia maglia granata e blu davanti a una delle poche vecchie case popolari rimaste dietro Cable Street, a Shadwell.
Il mio East End sono il Turner’s Old Star, l’ultimo pub non messo in tiro rimasto a Wapping (peccato siano del Tottenham), e il Palm Tree, il Marquis of Cornwallis e ogni altra bettola che si rifiuta di cedere ai nuovi trendy calati in città…”
Fieri del proprio quartiere di nascita come Carlos o consapevoli di essere stati in qualche modo parte della gentrification - pre-gentrification un po’ sfigata se vogliamo: tipi bizzarri, stralunati e abbastanza sconsiderati da mandare in avanscoperta, - come Danny e il sottoscritto, gotici o grunge, snob o cialtroni, raccontiamo quello che abbiamo visto o immaginato di vedere, senza troppa paura delle incoerenze, ma senza saltellare d’entusiasmo per un progresso avvizzito e tirato a lucido, il botox urbano dal linguaggio facile, leggero, devastante, privo al contempo di ironia e di storia, quest’eterna infanzia delle moderne parole. Parole vuote, moribonde, in disuso ancor prima d’essere in uso, foglie di fico.

L’orologiaio, vecchio o nuovo che sia, non ha pietà. Noi sì.
Testo narrativo: Lino Graz
Ballata in inglese: Danny Wintringham
Foto Poblenou: Lino Graz
Foto East End: Donia Jud
CapGazette 9/2016

Per il testo completo di Danny Wintringham.
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1623952401174901&id=1623935454509929

Le barche. In partenza da Barcellona, sulle rotte d’altri tempi

Barche

In partenza da Barcellona, sulle rotte d'altri tempi
Tra il tredicesimo e il quindicesimo secolo le navi che salpavano dal porto di Barcellona, battendo bandiera catalano aragonese, si dirigevano verso il Mediterraneo occidentale o quello orientale e verso i paesi del nord. Come cambiava il commercio col percorso marittimo?
Verso la Sicilia viaggiavano tessuti e armamenti, olio di Mallorca, riso di Valencia e miele di Tortosa, mentre sulla stessa rotta ma in senso contrario venivano trasportati il grano e lo zucchero (caricati a Palermo e a Messina erano destinati a raggiungere più tardi anche i paesi del Nord), la seta, il cotone e il corallo. A Napoli, che era un porto molto importante per gli scambi internazionali, ci si riforniva invece di vino bianco e rosso e di magnifici cavalli e i catalani vi vendevano zafferano, cera e sale di Ibiza.
In Nord Africa, soprattutto a Tunisi e a Algeri, si commerciavano utensili agricoli e stoffe in cambio d’oro e di schiavi, di corallo e di cera.
Anche sulla via del Levante, solcata prevalentemente da quelle grandi potenze marittime che furono Genova e Venezia, le navi catalane si guadagnarono un certo prestigio. Toccavano solitamente i porti di Alghero, Cagliari, Gaeta, Napoli, Palermo, Messina, Siracusa e Rodi e da qui prendevano la rotta che portava o a Beirut o a Alessandria d’Egitto. Il viaggio variava dai tre ai tredici mesi, a seconda degli scali, ma al ritorno, prima di approdare nuovamente a Barcellona, l’ultima tappa era sempre quella che si effettuava sull’isola di Mallorca.
Sulla rotta del Levante, chiamata anche rotta d’Oriente o d’Oltremare, il commercio più importante era indubbiamente quello delle spezie: pepe, incenso, mirra, zenzero, cannella e sandalo venivano scambiati con corallo, olio, nocciole, mandorle, piante aromatiche e zafferano, l’unica spezia esportata dal Mediterraneo occidentale. I preziosi tessuti di Damasco venivano scambiati con panni più economici, con lana e col vino liquoroso di Cipro. Il benessere dei mercanti, degli artigiani e dei contadini della corona catalano aragonese dipendeva prevalentemente dagli affari commerciali della rotta di Siria e Egitto: le entrate che si ricavavano dalla vendita dei prodotti acquistati in Oriente e riesportati in Castiglia, in Provenza e nei paesi del Nord dovevano infatti assicurare il lavoro nelle botteghe artigianali e nei campi dei territori della Corona.
Sulla rotta atlantica le navi che partivano da Barcellona toccavano i porti dell’Almeria, di Malaga, di Siviglia, di Cadice, di Lisbona per poi avventurarsi verso la Manica in direzione dell’Inghilterra o delle Fiandre.
Oltre a tutte le altre mercanzie che giungevano dai paesi del Levante o dalla Sicilia, i prodotti che solcavano queste acque erano prevalentemente alimenti in grado di sopportare il lugno viaggio: fichi secchi, mandorle, pinoli ed infine lo zafferano che nelle Fiandre veniva usato sia come spezia, che come colorante nella tinteggiatura dei tessuti.
Dai paesi del Nord si importavano metalli, in particolar modo il ferro che serviva a fabbricare coltelli e armi, pelli scandinave e russe, cappelli, berretti e piume per riempire i cuscini, stoffe d’ogni genere ed infine il legname.
Parliamo di mercanzie ma con loro anche di mercanti, crociati e pellegrini, di soldati alla mercé della corte, di uomini, donne e bambini che venivano trasportati nelle terre conquistate per ripopolarle; umanità in movimento e legami tra terre lontane, di cui ancor oggi rimane traccia nelle lingue e nelle tradizioni popolari, nei tratti somatici e nei caratteri delle persone.
Nel 1490 venne pubblicata a Valencia un’opera dello scrittore Joanot Martorell, dal titolo Tirant lo Blanc, destinato a diventare un classico della letteratura catalana medievale. Il libro narra le avventure cavalleresche di Tirant e del suo amore per Carmesina, la figlia dell’imperatore greco; le terre che l’eroe percorre evocano le rotte marittime commerciali di cui abbiamo parlato: l’Inghilterra, la Sicilia, Rodi, Costantinopoli, il Nord Africa.
Le stesse leggende popolari catalane sono costellate da personaggi che sono i protagonisti, e i testimoni, di una storia densa di avventure per mare; per esempio il Pescatore di Corallo, che è la vicenda di un povero orfano che un giorno, all’epoca del re Pietro, venne portato con altri giovani ad Alghero per ripopolare la terra. La leggenda racconta che giunto nell’isola, il ragazzino iniziò a lavorare come
pescatore e in una mattina di festa, mentre passeggiava per il paese, all’improvviso vide uscire dalla messa una donna bellissima e se ne innamorò perdutamente. La fanciulla era la figlia del Signore (veguer) d’Alghero ed abitava in un sontuoso palazzo affacciato sul mare. Un giorno il pescatore trovò in fondo al mare un ramo di corallo rosso, lo strappò, tornò a galla e corse a darlo in dono all’amata fanciulla. La figlia del Signore rimase abbagliata dalla generosità del pescatore e dalla preziosità di quel dono e gli chiese di portargliene ancora. Il ragazzo obbedì e per molte notti si aggrappò agli scogli sui quali si ergeva il palazzo dell’innamorata e arrampicatosi fino alla finestra tendeva la mano e le porgeva il corallo. Fin quando in una notte malaugurata, il padre della ragazza, messo al corrente di quegli incontri segreti, lo aspettò; quando il pescatore iniziò a salire per le rocce, l'uomo lo spinse e lo fece cadere giù. Il ragazzo andò a sbattere contro gli scogli e precipitò in mare. Si narra che il suo corpo senza vita venne trasportato fino alle grotte di Nettuno dove nelle notti di mare calmo ancor oggi si vede crescere altissimo sul turchese dell’acqua un ramo di rosso corallo.
Madre, se fossi marinaio,
marinaio di quelli buoni,
me ne andrei in alto mare
solo con la mia barca;
il vento sarebbe un grido di gioia,
la vela, colomba bianca,
il cuore d'un blu come d'incanto
e gli occhi d'un verde di speranza.
Se in quelle notti invece il mare fosse in burrasca, vi potrebbe capitare di avvistare all’orizzonte la Barca dei dormono e cantano e di sentire le voci dei “mori” destinati a una fuga perenne fin dall’epoca in cui Giacomo I° conquistò Mallorca. Pare che durante la notte queste anime in pena arrivino fino alla fine del mondo e che da lì tornino alle nostre acque. Tra i lampi, forse scorgereste le fiamme delle vele del vascello che arde e sentireste l’equipaggio russare o cantare all’infinito.


Text: Baldassar Perruccio © CapGazette
Trad. poesia di Miquel Martí i Pol: Paolo Gravela © CapGazette
Foto: © Renata Scanu
Luglio 2015

Le barche. Le Drassanes e il Museu Marítim di Barcellona

Barche

Le Drassanes e il Museu Marítim di Barcellona

Dopo esser passate per il genovese e il veneziano, la ‘casa del mestiere' o la 'fabbrica’, custodite dalla parola araba Dār-ṣinā῾a, sono approdate nell'italiano sotto forma di 'darsena’ e 'arsenale’.
Nella città di Barcellona i più antichi arsenali marittimi, in catalano les drassanes, risalivano all’XI° secolo. Tuttavia, gli unici di cui oggi rimane testimonianza sono quelli che vennero costruiti ai piedi del Montjuïc a partire dalla seconda metà del XIII° secolo, sotto il regno di Pietro il Grande. Nel XIV° secolo, il re Pietro il Cerimonioso diede il via alla costruzione delle navate e l’arsenale assunse l’aspetto che tuttora conserva; si racconta che quell'ampliamento prese dimensioni tali che all'interno vi si potevano costruire contemporaneamente fino a 30 galere.
Quando nel 1369 si innalzò il terzo anello della cinta muraria cittadina, le darsene entrarono definitivamente a far parte del nucleo cittadino. Oggi sono la sede del Museu Marítim di Barcellona. Il centro propone un percorso tra le imbarcazioni che solcarono le acque catalane, mediterranee e oceaniche nel corso dei secoli, facendo rivivere al visitatore sia la storia medievale della potenza marittima catalano-aragonese, che quella delle navi moderne impiegate nella rotta d’oltreoceano. Tra barche da pesca di distinti tipi, navi da guerra e immagini di transatlantici il pezzo forte è senza dubbio la riproduzione de “La Capitana”, la Galera Reale di Giovanni d’Austria che venne costruita qui nel 1568 e che nel 1571 portò i cristiani a vincere i turchi nella battaglia di Lepanto; è lunga 59 metri ed è decorata con preziosi motivi barocchi dai colori rosso ed oro.
Non poteva mancare una riproduzione dell’'Ictineo', il primo sottomarino della storia che proprio nelle acque del porto di Barcellona si immerse nella seconda metà dell’Ottocento. Ci incuriosisce inoltre l'esposizione dei mascarons (mascheroni o polene), quelle figure in legno di uomini e animali selvaggi o mistici che venivano installate sulla prua per allontanare le forze occulte del mare. Qui la Blanca Aurora, il Negre de la Riba, il Ninot non sono altro che versioni ottocentesche dell'occhio protettore di Egizi e Fenici e delle sculture delle navi vichinghe. La scultura del Ninot, che è un ragazzino che porta in una mano un diploma di nautica e nell’altra un berretto da marinaio, è probabilmente la più nota in città grazie al fatto che sulla facciata di uno dei mercati primo novecenteschi più frequentati, chiamato appunto il ‘Mercat del Ninot’, è in bella mostra una sua riproduzione in bronzo.


Secondo la leggenda si tratterebbe di un mascaró appartenuto ad una nave di trasporto di schiavi naufragata nella costa barcellonese; si racconta che il capitano si salvò dal naufragio aggrappandosi al Ninot per raggiungere la città.
Appena messosi in salvo, il capitano festeggiò così di gusto e di bevute che quella notte dimenticò il mascherone in una taverna che si trovava di fianco ad un mercato, ancora senza nome...
Stando invece a un'altra versione, il Ninot sarebbe appartenuto ad una nave di bandiera italiana che in una notte di tempesta approdò nel quartiere della Barceloneta; una ragazza che passeggiava in riva al mare col fidanzato e i suoceri, vedendo arrivare la nave, mise alla prova il promesso sposo, chiedendogli di recuperare la polena della nave.
E l’innamorato così fece, la ragazza se ne tornò a casa col suo Ninot e il giorno dopo il padre, pure lui fiero della prodezza del genero, lo appese nella taverna che gestiva vicino ad un mercato.
L’edificio delle drassanes di Barcellona è uno splendido esempio di gotico civile catalano con una parte centrale formata da otto navi parallele ad archi semicircolari sostenuti da pilastri di sei metri. Anche se pare che dell’originario edificio rimanga solo la facciata marittima risalente al XIV° secolo, nel corso delle modifiche apportate successivamente si adottò la stessa tipologia costruttiva della struttura originaria; continuano dunque a risaltare alcuni elementi gotici tipicamente catalani e assenti nell'architettura dello stesso stile diffusasi nel resto d’Europa: gli archi semicircolari non delimitano un lungo corridoio slanciato verso il cielo, bensì grandi sale quadrangolari, che danno la sensazione di un unico ed ampio spazio e oltre alla pietra, materiale più rappresentativo del gotico europeo, si è fatto uso anche del legno.

Gli arsenali passarono sotto il controllo della corona di Castiglia a metà del XVII° sec., dopo la guerra dei Segadors (1640-1659) e con Filippo Vº furono destinati ad arsenale militare; solo nel 1935 l’esercito li cedette alla città di Barcellona.
Tra la prima metà del XIII° sec. e il XV°, in epoca d’espansione della marina catalano-aragonese, negli arsenali di Barcellona si costruirono imbarcazioni di tutti i tipi, dalle barche più piccole fino alle grandi navi commerciali che percorrevano le rotte verso il Levante e verso i paesi del Nord Europa. Il legno utilizzato proveniva prevalentemente dai boschi dei Pirenei, ma anche da quelli della Croazia e delle Fiandre. Al suo interno lavoravano i costruttori di corde (corders) e di remi (remolers) , i tessitori di vele (velers), i fabbri (ferrers) e i maestri d'ascia ovvero i falegnami marittimi (mestres d’aixa). Terminata e preparata la nave, i proprietari la affidavano al capitano (patrò). Con lui avrebbero viaggiato due scrivani-contabili, uno con il compito di controllare e segnare su un registro tutte le spese e le entrate del viaggio e l’altro responsabile della mercanzia lasciata a bordo al momento della partenza. Oltre a mozzi e marinai, non sarebbe mancato un barbiere, che all'occorrenza sarebbe diventato chirurgo, i trombettieri per gli ordini da trasmettere all’equipaggio, il maestro d'ascia e una persona che si sarebbe occupata dei salari.


Text: Nicoletta De Boni © CapGazette
Foto: © Renata Scanu
Maggio 2105

Gli sguardi di Mercis Rossetti Caral

La giraffa che fa le pernacchie - Gli sguardi di Mercis Rossetti Caral
“La realtà è soggettiva. Le situazioni vissute che tratteniamo portano con sé un determinato peso emotivo. Ognuno ha il proprio modo di gestire tale peso emotivo e nel mio caso è tramite l’arte o l’umore grottesco”.

Mercis Rossetti è un’artista visuale residente a Barcelona. Diplomata in Belle Arti presso l’Università di Barcellona, ha poi frequentato il master ufficiale in 'Creazione artistica: realismi e ambienti', per il quale ha realizzato un progetto sull’autoritratto e la ricerca dell’identità. L’anno successivo ha frequentato il master in 'Gestione delle Industrie Creative e Culturali' presso l’ Università Pompeu Fabra di Barcellona. Ha partecipato a varie mostre collettive e vanta già alcune esposizioni individuali.
Da dove nasce il tuo interesse per l’arte?
Fin da piccola ricordo di aver sempre disegnato, quindi non saprei dire da dove è nato il mio interesse. È qualcosa che ho sempre dato per scontato. Sí, ricordo che cercavo di fare dei ritratti o che mi ossessionavo disegnando sguardi. Forse posso dire che allora è nata la mia ricerca di uno strumento per cogliere e capire la realtà che mi circondava.

Che cos’è per te l’arte?
Dedizione, sacrificio, estetica, emozione, curiosità, comprensione, disciplina e passione.

Che tipo di tecniche e materiali usi di solito?
Di solito lavoro su tela di medio e grande formato. Ho scoperto “tardi” la pittura anche se adesso mi risulta difficile liberarmene. A volte mi dedico al disegno a china, ma in genere uso olio e acrilico. Tuttavia, è senz’altro l’olio a darmi più libertà nel dipingere. Non mi chiudo tanto sulla perfezione dell’immagine, ma indago più sul concetto e su quanto si può poi leggere nell’opera.


“Le immagini posso sembrare surrealiste, ma in fondo non sono che una reinterpretazione della realtà in cui ciò che conta è il linguaggio simbolico. Soprattutto nei quadri di grande formato, le dimensioni aiutano lo spettatore a far parte come invitato delle scene. Il formato è classico senza però rinunciare a un linguaggio contemporaneo. La quotidianità delle persone e delle immagini viene corrotta da un ambiente torbido, creando l’inquietudine delle immagini”.

Che metodologia segui nei tuoi lavori?
Mi piace indagare su tutto quello che dipingo. Conoscere particolari e curiosare. Se lavoro partendo da fotografie le scatto io stessa, accompagnando sempre il processo con un’intervista mirata al tema dell’opera. In questo modo riesco anche a indurre un determinato stato d’animo nel soggetto dell’opera.
Nel caso degli animali (si tratta della mia ultima serie), cerco informazioni e ho bisogno di leggere sul loro comportamento sociale, se è il caso, o indagare sugli aspetti più importanti e sulle curiosità di ciascuno.
Poi seleziono le immagini che considero adatte. Creo bozze, ridisegno, e pianifico l’opera. Alla fine non mi resta che lottare con il quadro finché non vedo i risultati che aspetto.
Chi sono i tuoi soggetti?
Normalmente, per non dire sempre, cerco la gente che ho intorno. Familiari, amici o me stessa. Dipingo quello che cerco di capire e che mi circonda, cerco di parlare di quello che conosco e di ricercare nella mia realtà. Fare altrimenti non avrebbe senso, soprattutto visto che l’identità è una delle mie priorità quando si tratta di pittura.

“A parte la serie sugli animali, il lavoro è fondato sull’autoritratto e sulla famiglia. I visi e la rappresentazione delle figure umane non indagano solo negli aspetti anatomici ma nella psiche di chi viene rappresentato. Per questo sono importanti sia la tecnica sia la creazione di un ambiente e l’espressività”.
Texts & images: Mercis Rossetti Caral ©Mercis Rossetti Caral
Ed. e trad italiano: Paolo Gravela ©CapGazette
Mar 2015

A testa alta, parole e palloni

A testa alta, parole e palloni.


A volte i libri nascono da una parola, da una frase o anche da un silenzio, ma in questo caso posso dire che è stata proprio un’immagine a far scatenare la scrittura; lo dice Francesco Luti Mazzolani, pensando a come è nato il suo ‘A testa alta. Il cammino del Sarrià’ (Nicomp L.E., Firenze).
È questo il titolo che assieme alla foto di copertina della nazionale di calcio del 1982 a me, che di calcio per la verità capisco poco, ha riconsegnato una manciata di sere d’estate di 33 anni fa: Italia-Argentina 2 a 1, Italia-Brasile 3 a 2, uno stadio che non c’è più, una città, Barcellona, che ci stava portando fortuna, un paese, la Spagna, non cosí lontanto ma esotico a quei tempi, o forse all’età che avevo. Li ritrovo infatti dentro il libro questi miei ricordi:
«L’Italia la guardavamo a casa in famiglia (...). La televisione a colori era giunta per Natale, il penultimo tutti insieme, una Grundig di finta radica che sarebbe campata vent’anni! (...) Tutta l’Italia dell’anagrafe: tutta stretta nel proprio salotto o al bar».
Va subito detto però che questo lungo racconto non narra solo dell’avventura calcistica dei mondiali di Spagna; vale quindi la pena di andare avanti e, come ci consiglia lo scrittore, di procedere con lui nello scavo della memoria.
Francesco Luti ha terminato circa un anno fa questo suo lavoro che è la stesura di un attraversamento di campo che l’ha portato dalla porta di casa della Firenze di nascita alla porta della Barcellona d’adozione. Attenzione però, di avversari da vincere qui non ce ne sono e le due città rappresentano un passato e un presente, una sorta di botta e risposta alla vita; su quel filo dell’esistenza tirato tra l’una e l’altra quella che si legge è una bella partita, giocata con ottimi compagni di squadra.

Francesco, qual è quell’immagine da cui è sbucato il racconto?
Ero bambino, vivevo proprio accanto allo stadio di Firenze, al quinto piano di un edificio al numero uno di Viale de’ Mille. Da quell’altezza godevamo di una vista privilegiata sulle partite che vi si disputavano, ma quando gli incontri erano tranquilli, ovvero al sicuro da tifoserie troppo aggressive, allora mio padre portava me e i miei fratelli dentro lo stadio. Dall’alto della grata della Maratona, dove noi ci si piazzava, io puntavo lo sguardo sul mio idolo, Giancarlo Antognoni. Quando c’era un calcio d’angolo scendevo giù veloce fino all’inferriata di bordo campo per gridargli: Antonio, Antonio! Poi, dopo il corner, tornavo al mio posto, salendo a fatica con quella falcata da bimbo di dieci anni che ero, e mio padre in quel momento mi domandava: Allora? Cosa ti ha detto? Ti ha sentito? E io gli rispondevo: Sì, sì, forse, mi pare di sì, mi ha guardato...

È col ricordo del padre che l’affetto inizia a pervadere tutto il libro, quel papà che Francesco perderà qualche mese dopo la vittoria dei mondiali dell’82, quand’era davvero ancora troppo piccolo per sopportare quella che: «In inglese si dice injury, e a me piace questa parola anglosassone che offre un ventaglio maggiore, e volendo si può credere perfino che quella frattura sia anche un’ingiuria. Come una sciabolata netta al cuore dell’esistere».
Se poco più di un anno prima gli era già sembrata un’ingiuria, appunto, una ginocchiata in testa che nella partita contro il Genoa aveva messo fuori gioco per mesi il suo Antognoni, ora la vita colpiva quel bambino con un taglio netto. Eppure quel padre continuerà sempre con la sua assenza a fargli compagnia in inseguimenti e appostamenti di vario genere, primi su tutti quelli al bell’Antonio, il grande giocatore della piccola squadra, il campione che fu e la persona per bene che continua a essere.

Così tra un campionato e l’altro, tra un mondiale e l’altro passano gli anni e Francesco sceglie le parole come compagne predilette del suo vagabondare tra paesi, ricordi e palloni.
Ha ormai vent’anni, è su un volo della Panam che lo porta in vacanza a New York insieme alla madre, a un quaderno azzurro e a due penne bic. Proprio al Giants Stadium della Grande Mela, anni prima, Giancarlo Antognoni era stato finalmente coronato migliore giocatore nella partita post mondiale tra Europa e Resto del Mondo, riprendendosi in tal modo quel merito che la sfortuna gli aveva sottratto impedendogli di giocare la finale spagnola.
Dentro quell’aereo i palloni di questa storia traghettano verso la scrittura, complice lo sguardo incoraggiante, attento e distratto di una madre a cui questo libro è dedicato e che era colei che non aveva mai dimenticato il grande amore del figlio per le parole. «Il pallone e le parole queste due Pi a incedere l’esistere, gomito a gomito. […] Frugare nelle sillabe, nelle consonanti e nelle vocali, come un mendicante nella spazzatura del nostro tempo.»
Per il nostro autore il calcio assomiglia alla scrittura anche perché entrambi sono fortemente legati all’improvvisazione, ciò che invece è ben diverso è il rapporto che scrittore e calciatore hanno coi loro rispettivi mestieri, perché se smettere di scrivere per il primo può essere una scelta, smettere di giocare per il secondo è un’imposizione.

Perché il titolo ‘A testa alta. Il cammino del Sarrià’?
Ho voluto rendere omaggio da un lato al gioco elegante di Antognoni che procedeva guardando le stelle e dall’altro anche alle mie scelte, quella di fare lo scrittore, nonostante le difficoltà che si affrontano, per esempio riuscire a sbarcare il lunario... e quella di farlo in un paese che non è il mio: a stare lontani se ne guadagna senz’altro in termini di una gradevole nostalgia, ma c’è anche il sacrificio di separarsi da chi non ti accompagna nel viaggio. Il cammino dai gradoni dello stadio di Firenze fino al Sarrià è anche il mio cammino personale.
Si legge nel libro: «E l’eco della nostalgia te lo offre bene l’altrove. Invidio la nostalgia dell’esiliato […]. Come l’ama l’esiliato la terra d’origine, non l’ama nessuno. È consistente il bagaglio che ci si porta addosso quando si è lontani, e c’è senz’altro dell’epico in colui che se la gioca fuori casa.»

Francesco tifoso, Francesco figlio e bambino, Francesco scrittore, Francesco giocatore e viaggiatore, ma anche Francesco investigatore, detective:
Sì, in una presentazione del libro mi è stato detto che a volte leggendo queste pagine si ha quasi l’impressione di seguire il lavoro di un investigatore che va a caccia di prove, ci si riferiva in particolare a due incontri di cui parlo nel libro: uno con Tonino Fernández, il custode del Sarrià nei giorni del mondiale, che oggi è in pensione e porta l’orologio sul polso destro come Antognoni. Un quiet man alla John Wayne, che alle 7 del mattino del 5 luglio dell’’82, il giorno di Italia-Brasile, aprì il cancello dello stadio del Sarrià in compagnia di Isidro, l’artista tagliaerba, Carmelo, l’aiutante elettricista e Manolo, carpentiere responsable dei sanitari. L’altro incontro invece è avvenuto in Brasile, a Cabo Frio dove andai a cercare Leandro, il giocatore che alla fine di quella partita del 5 luglio era corso a scambiarsi la maglia con Antognoni. Poi c’è anche una gita all’Hotel Castillo di Sant Boi de Llobregat, dove alloggiò la Nazionale nelle sue giornate barcellonesi e dove ho incontrato José Márquez il maître dell’hotel nell’ ’82.
Che bella è l’immagine di Tonino Fernández e Francesco Luti seduti a un bar della Carretera de Sants, tutti intenti a ricordare la giornata e lo stadio che furono davanti a due succhi d’arancia, poi il ricordo dei paesaggi brasiliani che si sovrappongono fuori dal finestrino del pullman che va da Rio a Cabo Frio e infine quell’attendere Leandro, dentro la pousada di sua proprietà.

I divagabondaggi, come li chiama Francesco Luti, finiscono e ricominciano, dentro e fuori il libro, in Spagna, quel paese del quale per primo gli aveva parlato proprio il padre mentre gli mostrava le fotografie di un suo viaggio in vespa alla fine degli anni Cinquanta, ma finiscono e ricominciano anche nell’amicizia con Giancarlo Antognoni e nell’intera, coraggiosa squadra che grazie e queste pagine l’autore ha rimesso insieme.

Ma a Giancarlo, che ora è un amico, hai domandato se allora ti sentiva quando scendevi i gradoni e gli gridavi Antonio, Antonio?
Sì, gliel’ho chiesto, gliel’ho chiesto eccome, mi ha risposto maaah, sai, in quei momenti là... Ma come?! E io che ho pure il taglio di capelli all’Antognoni! Comunque io credo che anche se non riescono a distinguere le voci durante la partita, poi io mi immagino che i cori, che quelle frasi possano ritornare nella testa dei calciatori, magari anni e anni dopo, quando non giocano più, quando quell’altra vita è ormai solo un ricordo, quando devono reinventarsi e forse sono lì come pipistrelli senza riferimenti, ecco forse quelle grida, quel tifo di un bambino servono a restituirgli la loro storia proprio in quei momenti lì.


Cap Gazette ringrazia Francesco Luti Mazzolani e tutti i suoi compagni di squadra.



Intervista a Francesco Luti Mazzolani: Nicoletta De Boni © Cap Gazette
Nella foto l'autore con 'A testa alta. Il cammino del Sarrià' e il taglio all'Antognoni.
Febbraio 2015

El viaje de Nino y Carla

El viaje de Nino y Carla

 
“Carla y yo nos casamos en 1963. Para el viaje de novios, en aquellos años, todo el mundo aconsejaba ir a España, porque era un lugar bonito y barato. Concretamente, en la oficina, me habían hablado de Castelldefels, una localidad de la costa, un poco más al sur de Barcelona.
Ostras, le digo a Carla, ¡vayamos allí!
Como muchos italianos de entonces, yo también tenía un FIAT 600 con las puertas a contraviento; es decir, que se abrían al revés. En inglés les llamaban “suicide doors”, sin embargo, a nosotros, afortunadamente, nunca nos pasó nada. Nada grave, por lo menos.
Desde Génova hasta Barcelona, por las carreteras estatales sería un viaje largo e incómodo. Le hablo del tema a un amigo que había comprado el nuevo 600 y muy amablemente me ofrece su asiento. Sí, el asiento; entonces se podían intercambiar con facilidad, quitarlos y montarlos en otro coche. Su asiento tenía una ventaja incuestionable: estaba equipado con un respaldo reclinable, óptimo para el descanso. Finalmente salimos con el viejo 600, con puertas a contraviento, asiento extraconfort y el entusiasmo de aquella época.
La primera noche dormimos en Francia, en Niza. Recuerdo también una deliciosa comida en Marsella y la llegada nocturna en Perpiñán donde, agotado ya, encuentro una pensión. Se trata más bien de un hotelito de mala muerte, donde se alojan principalmente argelinos y Blouson Noir.
Nos proponen una habitación en el entresuelo y, para el 600, el pasillo; imagínese lo contenta que está Carla. Como si esto no bastara, a lo largo de la noche, nos despierta de repente un gran trasiego: ¡es el rápido nocturno y pasa justo detrás de nosotros!
Yo trato de tranquilizarla: “Nada grave, Carla, todo va bien”.
El día después, entramos en España y nos paramos a comer en un pueblo de la costa con un puerto bastante grande y activo, Pálamos o Palamós, si no me equivoco, donde comemos la famosa paella. ¡Buenísima! Al final de la tarde, cuando entramos en Barcelona, nuestro mítico 600 con puertas contraviento es flanqueado por un grupo de chicos en moto. ¿Comité de acogida para turistas extranjeros? No recuerdo exactamente que intenciones tenían, pero cuando les pido indicaciones para Castelldefels, me las proporcionan con gran cortesía.
“Todo va bien, Carla, falta poco.”
Superamos Barcelona y allí estamos: destino alcanzado. No me da tiempo a parar el coche que oigo a alguien llamarme: “Oh, belin, scè l’è de Zena?” - “Ostras, ¿usted es de Génova?” - (sin duda había leído en la matrícula ‘GE’). Sí, le contesto. Él también es de Génova. Puede ser que fuese un fascista huido años antes de algún apuro y llegado, quien sabe como, hasta aquel pueblo.
Total, que como buenos paisanos que se reencuentran en el exterior, celebramos con abrazos y sonrisas nuestro encuentro. Me dice que es el propietario de un hotel recién construido y nos ofrece una habitación muy grande, con teléfono y sistema de depuración de agua, característica esta última que le enorgullece mucho. Para nosotros, recién casados, una perfecta y agradable solución.
Aquella misma noche yo bajo a la playa, mientras Carla descansa en el hotel con un gran dolor de cabeza. Paseando, conozco a don Antonio, dueño de un chiringuito en la playa. Es un encuentro alegre y, según mi visión, providencial, dado que, además del clásico Fundador, me ofrece interesantes informaciones sobre Barcelona y nos consigue entradas para Barça-Santos y la corrida.
Los días siguientes visitamos las colinas que rodean la ciudad, el castillo, el Tibidabo, la Sagrada Familia y subimos también a Montserrat, siempre con el 600, sus puertas a contraviento y el asiento abatible. Recuerdo que vimos las carreras de perros: un circuito delimitado por un carril donde una liebre artificial corre como loca, y tras ella, los perros.
Gracias a las informaciones del hotelero genovés, nos enteramos que en el aeropuerto tienen una máquina de café Cimbali, que prepara el café al estilo italiano; cada día entonces, ¡una escala en el aeropuerto!
Del Barça-Santos recuerdo muy poco, en cambio la corrida sí que la recuerdo bien. Según don Antonio, el torero tenía que ser nada menos que El Cordobés, famoso en aquella época también fuera de España. ¡Una ocasión imperdible! Pero aquella vez, el gran torero, no logra matar el toro, belin, no hay manera: lo intenta una, dos, tres veces y al final lo mata entre los silbidos indignados del público.
Parece “Sangre y arena”. La pobre Carla, afectada por el espectáculo, se pone muy pálida, está a punto de marearse. Una señora que nota su sufrimiento, le ofrece en seguida un chupito de licor de anís, un verdadero sanalotodo.
No hay problema, todo va bien Carla, excepto el dolor de cabeza, claro.
Ya de regreso en Génova, busco a mi amigo para devolverle el asiento y lo encuentro preocupado.
- ¿Qué te pasa? – Le pregunto.
- Nino, ¿no has encontrado nada debajo del asiento que te dejé?
- ¿Debajo del asiento? – contesto.
- Sí, dentro del bolsillo del asiento.
- No, ¿qué había?
Voy, lo miro y ¡encuentro el permiso de circulación de su 600!
El pobre hombre estaba esperando con ansiedad que regresáramos para volver a usar su coche. En aquellos años, habría sido demasiado arriesgado circular sin documentación: si lo hubieran pillado, ¿qué policía se creería nuestra historia de intercambio de asientos?”.

Esto es, más o menos, lo que nos ha contado Nino Sanna, una noche de verano en un pueblo de montaña.
Aquellos fabulosos años 60, para nosotros, irremediablemente, en blanco y negro.


Entrevista a Nino Sanna: Paolo Gravela © CapGazette
Foto: © Carla e Nino Sanna
Traducción al castellano de Nicoletta De Boni.