Posts Tagged: Mare

Le barche. In partenza da Barcellona, sulle rotte d’altri tempi

Barche

In partenza da Barcellona, sulle rotte d'altri tempi
Tra il tredicesimo e il quindicesimo secolo le navi che salpavano dal porto di Barcellona, battendo bandiera catalano aragonese, si dirigevano verso il Mediterraneo occidentale o quello orientale e verso i paesi del nord. Come cambiava il commercio col percorso marittimo?
Verso la Sicilia viaggiavano tessuti e armamenti, olio di Mallorca, riso di Valencia e miele di Tortosa, mentre sulla stessa rotta ma in senso contrario venivano trasportati il grano e lo zucchero (caricati a Palermo e a Messina erano destinati a raggiungere più tardi anche i paesi del Nord), la seta, il cotone e il corallo. A Napoli, che era un porto molto importante per gli scambi internazionali, ci si riforniva invece di vino bianco e rosso e di magnifici cavalli e i catalani vi vendevano zafferano, cera e sale di Ibiza.
In Nord Africa, soprattutto a Tunisi e a Algeri, si commerciavano utensili agricoli e stoffe in cambio d’oro e di schiavi, di corallo e di cera.
Anche sulla via del Levante, solcata prevalentemente da quelle grandi potenze marittime che furono Genova e Venezia, le navi catalane si guadagnarono un certo prestigio. Toccavano solitamente i porti di Alghero, Cagliari, Gaeta, Napoli, Palermo, Messina, Siracusa e Rodi e da qui prendevano la rotta che portava o a Beirut o a Alessandria d’Egitto. Il viaggio variava dai tre ai tredici mesi, a seconda degli scali, ma al ritorno, prima di approdare nuovamente a Barcellona, l’ultima tappa era sempre quella che si effettuava sull’isola di Mallorca.
Sulla rotta del Levante, chiamata anche rotta d’Oriente o d’Oltremare, il commercio più importante era indubbiamente quello delle spezie: pepe, incenso, mirra, zenzero, cannella e sandalo venivano scambiati con corallo, olio, nocciole, mandorle, piante aromatiche e zafferano, l’unica spezia esportata dal Mediterraneo occidentale. I preziosi tessuti di Damasco venivano scambiati con panni più economici, con lana e col vino liquoroso di Cipro. Il benessere dei mercanti, degli artigiani e dei contadini della corona catalano aragonese dipendeva prevalentemente dagli affari commerciali della rotta di Siria e Egitto: le entrate che si ricavavano dalla vendita dei prodotti acquistati in Oriente e riesportati in Castiglia, in Provenza e nei paesi del Nord dovevano infatti assicurare il lavoro nelle botteghe artigianali e nei campi dei territori della Corona.
Sulla rotta atlantica le navi che partivano da Barcellona toccavano i porti dell’Almeria, di Malaga, di Siviglia, di Cadice, di Lisbona per poi avventurarsi verso la Manica in direzione dell’Inghilterra o delle Fiandre.
Oltre a tutte le altre mercanzie che giungevano dai paesi del Levante o dalla Sicilia, i prodotti che solcavano queste acque erano prevalentemente alimenti in grado di sopportare il lugno viaggio: fichi secchi, mandorle, pinoli ed infine lo zafferano che nelle Fiandre veniva usato sia come spezia, che come colorante nella tinteggiatura dei tessuti.
Dai paesi del Nord si importavano metalli, in particolar modo il ferro che serviva a fabbricare coltelli e armi, pelli scandinave e russe, cappelli, berretti e piume per riempire i cuscini, stoffe d’ogni genere ed infine il legname.
Parliamo di mercanzie ma con loro anche di mercanti, crociati e pellegrini, di soldati alla mercé della corte, di uomini, donne e bambini che venivano trasportati nelle terre conquistate per ripopolarle; umanità in movimento e legami tra terre lontane, di cui ancor oggi rimane traccia nelle lingue e nelle tradizioni popolari, nei tratti somatici e nei caratteri delle persone.
Nel 1490 venne pubblicata a Valencia un’opera dello scrittore Joanot Martorell, dal titolo Tirant lo Blanc, destinato a diventare un classico della letteratura catalana medievale. Il libro narra le avventure cavalleresche di Tirant e del suo amore per Carmesina, la figlia dell’imperatore greco; le terre che l’eroe percorre evocano le rotte marittime commerciali di cui abbiamo parlato: l’Inghilterra, la Sicilia, Rodi, Costantinopoli, il Nord Africa.
Le stesse leggende popolari catalane sono costellate da personaggi che sono i protagonisti, e i testimoni, di una storia densa di avventure per mare; per esempio il Pescatore di Corallo, che è la vicenda di un povero orfano che un giorno, all’epoca del re Pietro, venne portato con altri giovani ad Alghero per ripopolare la terra. La leggenda racconta che giunto nell’isola, il ragazzino iniziò a lavorare come
pescatore e in una mattina di festa, mentre passeggiava per il paese, all’improvviso vide uscire dalla messa una donna bellissima e se ne innamorò perdutamente. La fanciulla era la figlia del Signore (veguer) d’Alghero ed abitava in un sontuoso palazzo affacciato sul mare. Un giorno il pescatore trovò in fondo al mare un ramo di corallo rosso, lo strappò, tornò a galla e corse a darlo in dono all’amata fanciulla. La figlia del Signore rimase abbagliata dalla generosità del pescatore e dalla preziosità di quel dono e gli chiese di portargliene ancora. Il ragazzo obbedì e per molte notti si aggrappò agli scogli sui quali si ergeva il palazzo dell’innamorata e arrampicatosi fino alla finestra tendeva la mano e le porgeva il corallo. Fin quando in una notte malaugurata, il padre della ragazza, messo al corrente di quegli incontri segreti, lo aspettò; quando il pescatore iniziò a salire per le rocce, l'uomo lo spinse e lo fece cadere giù. Il ragazzo andò a sbattere contro gli scogli e precipitò in mare. Si narra che il suo corpo senza vita venne trasportato fino alle grotte di Nettuno dove nelle notti di mare calmo ancor oggi si vede crescere altissimo sul turchese dell’acqua un ramo di rosso corallo.
Madre, se fossi marinaio,
marinaio di quelli buoni,
me ne andrei in alto mare
solo con la mia barca;
il vento sarebbe un grido di gioia,
la vela, colomba bianca,
il cuore d'un blu come d'incanto
e gli occhi d'un verde di speranza.
Se in quelle notti invece il mare fosse in burrasca, vi potrebbe capitare di avvistare all’orizzonte la Barca dei dormono e cantano e di sentire le voci dei “mori” destinati a una fuga perenne fin dall’epoca in cui Giacomo I° conquistò Mallorca. Pare che durante la notte queste anime in pena arrivino fino alla fine del mondo e che da lì tornino alle nostre acque. Tra i lampi, forse scorgereste le fiamme delle vele del vascello che arde e sentireste l’equipaggio russare o cantare all’infinito.


Text: Baldassar Perruccio © CapGazette
Trad. poesia di Miquel Martí i Pol: Paolo Gravela © CapGazette
Foto: © Renata Scanu
Luglio 2015

Le barche. Le Drassanes e il Museu Marítim di Barcellona

Barche

Le Drassanes e il Museu Marítim di Barcellona

Dopo esser passate per il genovese e il veneziano, la ‘casa del mestiere' o la 'fabbrica’, custodite dalla parola araba Dār-ṣinā῾a, sono approdate nell'italiano sotto forma di 'darsena’ e 'arsenale’.
Nella città di Barcellona i più antichi arsenali marittimi, in catalano les drassanes, risalivano all’XI° secolo. Tuttavia, gli unici di cui oggi rimane testimonianza sono quelli che vennero costruiti ai piedi del Montjuïc a partire dalla seconda metà del XIII° secolo, sotto il regno di Pietro il Grande. Nel XIV° secolo, il re Pietro il Cerimonioso diede il via alla costruzione delle navate e l’arsenale assunse l’aspetto che tuttora conserva; si racconta che quell'ampliamento prese dimensioni tali che all'interno vi si potevano costruire contemporaneamente fino a 30 galere.
Quando nel 1369 si innalzò il terzo anello della cinta muraria cittadina, le darsene entrarono definitivamente a far parte del nucleo cittadino. Oggi sono la sede del Museu Marítim di Barcellona. Il centro propone un percorso tra le imbarcazioni che solcarono le acque catalane, mediterranee e oceaniche nel corso dei secoli, facendo rivivere al visitatore sia la storia medievale della potenza marittima catalano-aragonese, che quella delle navi moderne impiegate nella rotta d’oltreoceano. Tra barche da pesca di distinti tipi, navi da guerra e immagini di transatlantici il pezzo forte è senza dubbio la riproduzione de “La Capitana”, la Galera Reale di Giovanni d’Austria che venne costruita qui nel 1568 e che nel 1571 portò i cristiani a vincere i turchi nella battaglia di Lepanto; è lunga 59 metri ed è decorata con preziosi motivi barocchi dai colori rosso ed oro.
Non poteva mancare una riproduzione dell’'Ictineo', il primo sottomarino della storia che proprio nelle acque del porto di Barcellona si immerse nella seconda metà dell’Ottocento. Ci incuriosisce inoltre l'esposizione dei mascarons (mascheroni o polene), quelle figure in legno di uomini e animali selvaggi o mistici che venivano installate sulla prua per allontanare le forze occulte del mare. Qui la Blanca Aurora, il Negre de la Riba, il Ninot non sono altro che versioni ottocentesche dell'occhio protettore di Egizi e Fenici e delle sculture delle navi vichinghe. La scultura del Ninot, che è un ragazzino che porta in una mano un diploma di nautica e nell’altra un berretto da marinaio, è probabilmente la più nota in città grazie al fatto che sulla facciata di uno dei mercati primo novecenteschi più frequentati, chiamato appunto il ‘Mercat del Ninot’, è in bella mostra una sua riproduzione in bronzo.


Secondo la leggenda si tratterebbe di un mascaró appartenuto ad una nave di trasporto di schiavi naufragata nella costa barcellonese; si racconta che il capitano si salvò dal naufragio aggrappandosi al Ninot per raggiungere la città.
Appena messosi in salvo, il capitano festeggiò così di gusto e di bevute che quella notte dimenticò il mascherone in una taverna che si trovava di fianco ad un mercato, ancora senza nome...
Stando invece a un'altra versione, il Ninot sarebbe appartenuto ad una nave di bandiera italiana che in una notte di tempesta approdò nel quartiere della Barceloneta; una ragazza che passeggiava in riva al mare col fidanzato e i suoceri, vedendo arrivare la nave, mise alla prova il promesso sposo, chiedendogli di recuperare la polena della nave.
E l’innamorato così fece, la ragazza se ne tornò a casa col suo Ninot e il giorno dopo il padre, pure lui fiero della prodezza del genero, lo appese nella taverna che gestiva vicino ad un mercato.
L’edificio delle drassanes di Barcellona è uno splendido esempio di gotico civile catalano con una parte centrale formata da otto navi parallele ad archi semicircolari sostenuti da pilastri di sei metri. Anche se pare che dell’originario edificio rimanga solo la facciata marittima risalente al XIV° secolo, nel corso delle modifiche apportate successivamente si adottò la stessa tipologia costruttiva della struttura originaria; continuano dunque a risaltare alcuni elementi gotici tipicamente catalani e assenti nell'architettura dello stesso stile diffusasi nel resto d’Europa: gli archi semicircolari non delimitano un lungo corridoio slanciato verso il cielo, bensì grandi sale quadrangolari, che danno la sensazione di un unico ed ampio spazio e oltre alla pietra, materiale più rappresentativo del gotico europeo, si è fatto uso anche del legno.

Gli arsenali passarono sotto il controllo della corona di Castiglia a metà del XVII° sec., dopo la guerra dei Segadors (1640-1659) e con Filippo Vº furono destinati ad arsenale militare; solo nel 1935 l’esercito li cedette alla città di Barcellona.
Tra la prima metà del XIII° sec. e il XV°, in epoca d’espansione della marina catalano-aragonese, negli arsenali di Barcellona si costruirono imbarcazioni di tutti i tipi, dalle barche più piccole fino alle grandi navi commerciali che percorrevano le rotte verso il Levante e verso i paesi del Nord Europa. Il legno utilizzato proveniva prevalentemente dai boschi dei Pirenei, ma anche da quelli della Croazia e delle Fiandre. Al suo interno lavoravano i costruttori di corde (corders) e di remi (remolers) , i tessitori di vele (velers), i fabbri (ferrers) e i maestri d'ascia ovvero i falegnami marittimi (mestres d’aixa). Terminata e preparata la nave, i proprietari la affidavano al capitano (patrò). Con lui avrebbero viaggiato due scrivani-contabili, uno con il compito di controllare e segnare su un registro tutte le spese e le entrate del viaggio e l’altro responsabile della mercanzia lasciata a bordo al momento della partenza. Oltre a mozzi e marinai, non sarebbe mancato un barbiere, che all'occorrenza sarebbe diventato chirurgo, i trombettieri per gli ordini da trasmettere all’equipaggio, il maestro d'ascia e una persona che si sarebbe occupata dei salari.


Text: Nicoletta De Boni © CapGazette
Foto: © Renata Scanu
Maggio 2105

Da una nave russa a unaphotoalgiorno. Chiacchierata sulla fotografia con Graziano Paiella


Da una nave russa a unaphotoalgiorno.
Chiacchierata sulla fotografia con Graziano Paiella


Martedì 8 febbraio 2011 tira poco vento a Roma, il clima è mite e un anticiclone proveniente dalle Isole Azzorre rende la giornata umida e soleggiata. Mentre le temperature ondeggiano tra un minimo di 4 e un massimo di 16 gradi e qualche nuvola bassa si muove a traffico moderato sopra il Mar Mediterraneo e il Tirreno, Graziano Paiella prende di spalle Castel Sant’Angelo, ritraendolo oltre una finestra sporca. Gli aloni del vetro diventano sbavature dei raggi del sole e si confondono con la chioma cascante di un albero.
È in quel momento che egli decide che ogni giorno avrà la sua foto.
Siamo nella primavera del 2015 e la storia di unaphotoalgiorno è oramai una lunga storia, che continua. Quattro anni di fotografie scattate quotidianamente in Italia, ma qualche volta anche oltre confine, quotidianamente condivise nel suo profilo facebook e custodite nel sito www.grazianopaiella.com.
Di questa storia e d'altro abbiamo parlato con Graziano Paiella.

Mi incuriosisce innanzitutto sapere cosa ci fosse prima della sfida di quel martedì e quali foto prima di quella che ha dato il via a unaphotoalgiorno
Direi che la mia passione per la fotografia nasce con il regalo della mia prima macchinetta fotografica, una MINICOMET Bencini, un piccolo apparecchio anni '60. Con quello, a circa 7 anni, ho scattato le mie prime foto. Mi ricordo ancora quando i miei genitori ritirarono le stampe e mi dissero che alcune erano venute male, con strane inquadrature, io però le avevo scattate così apposta...
Poi un viaggio a Venezia, all’età di 17 anni, contribuì in modo determinante a consolidare questo amore. Ricordo una foto in particolare: era il 1977, una nave russa entrava nel canale con la sua falce e martello sulla ciminiera, io mi affrettai a scattare e solo dopo, con la stampa, mi accorsi che era entrato nell’inquadratura un gabbiano in volo, leggermente mosso. Mi conquistò. Credo che nella fotografia, come in tutte le arti, per un buon risultato debbano fondersi una serie di elementi, dalla tecnica, alla luce, al soggetto e qualche volta interviene il caso che rende il tutto più interessante. Non che nei miei lavori l'elemento casuale sia indispensabile, ma a volte può diventare un valore aggiunto, imprevedibile, e in quella foto di Venezia fu determinante. La scattai con un vecchio apparecchio a soffietto, una Kodak Retinette. Era di mio padre. 


Tutte le immagini di unaphotoalgiorno, sono davvero tante, sono scattate con uno smartphone?

Sì, le immagini ad oggi sono circa 1500, è un po’ una follia, ma l’impegno quotidiano mi diverte e mi tiene allenato l'occhio. Da circa 5 anni le mie foto sono scattate quasi esclusivamente con lo smartphone. È un oggetto versatile, ma soprattutto è sempre con me.
La qualità non è alta, ma la velocità e l’immediatezza possono essere a volte molto utili. Mi basta vedere un luogo, un taglio di luce o qualcos’altro che attira il mio sguardo e sono pronto a fissarlo in un file. Tutto all’istante e un attimo dopo, posso condividere lo scatto con centinaia di persone. Tutto ciò è affascinante per uno come me che viene dalla fotografia analogica, fatta di tempi lunghi ed attese per lo sviluppo e per la stampa. Senza nulla togliere a quel meraviglioso mondo della fotografia su pellicola, alla quale io sono molto affezionato.
Da quel che dici, capisco dunque che l'immediatezza con cui si può fruire delle immagini non ti sembra un limite, anzi, tutt'altro. Forse il fatto che si tratti di una foto al giorno, quindi di una storia che sappiamo che avrà un seguito, ci aiuta a non logorarle? È la costanza del tuo discorso fotografico a frenare un po' la velocità della fruizione?

Il ritmo incessante dello scorrere delle immagini al quale oggi siamo sottoposti è impressionante, ne siamo bombardati costantemente. Da quando ero bambino, dagli anni 70 ad oggi c’è stata un’immensa accelerazione del nostro rapporto con le immagini, sia con quelle in movimento, di cinema e televisione, che con quelle fisse. Questa sovraesposizione ha spinto inevitabilmente il video e la fotografia a progredire nel loro linguaggio e a sviluppare nuovi modi di vedere. Oggi, con la diffusione degli smartphone, siamo tutti fotografi o videomakers, tutti siamo in grado di leggere una buona fotografia. Facebook è un canale nel quale scorrono quotidianamente un illimitato flusso di parole ed immagini, sia video che fotografiche, e sono proprio queste ultime che moltiplicandosi in maniera esponenziale con la condivisione, lo rendono il social network più attraente. Ecco, a me piace immergere le mie foto in questo fiume, e quando il mio scatto condiviso blocca lo sguardo di qualcuno che clicca poi sul like, credo di essere riuscito a trasmettere qualcosa. Per me Facebook è una bacheca sulla quale posso fissare le mie fotografie, i momenti che vedo, come fossero post it con i miei appunti attaccati a una parete.
Di questo tuo lungo reportage fotografico, oltre alla quotidianità, vorresti evidenziare altre costanti?

Altra costante è la parola ricerca, la ricerca nel quotidiano di immagini che riassumano un emozione o per isolare delle immagini dal fluire troppo veloce del nostro vedere, una ricerca per soffermarsi a guardare. Mi capita spesso di ricevere apprezzamenti per unaphotoalgiorno, anche da persone che non incontro abitualmente ma fruitori di Fb.
Alcune di loro mi raccontano che, seguendo il filo del mio discorso, sono state attratte e condizionate dal mio punto di vista ed hanno cambiato modo di fotografare. Ciò mi colpisce e, devo ammettere, mi gratifica molto.
 Suggerire uno sguardo attraverso un’immagine credo sia una delle cose più affascinanti e anche più difficili per un fotografo. Vuol dire che l’immagine è stata recepita e si è fissata nella memoria e può aiutare nel tempo a vedere e guardare in modo diverso. Un po’ come il ritornello di una canzone che ci si ritrova a fischiettare inconsapevolmente. Per me la fotografia è una musica per gli occhi.

Le persone sono spesso assenti nelle tue foto, eppure quando io le guardo mi capita spesso di aspettare che qualcuno ritorni; voglio dire che gli spazi che ritrai mi sembrano luoghi momentaneamente, solo momentaneamente, abbandonati. Come se ci fosse sempre una voce in lontananza, che fa compagnia.

È bello quello che dici, grazie, rimanda ad un mio modo di essere. È vero, le persone spesso sono assenti, ma a volte entrano da sole in certe immagini, come il gabbiano. Arrivano improvvisamente e io le lascio lì! Sono volute entrare e io le lascio dentro! Le chiamo comparse.
Tornando al tema del guardare, hai già parlato di "soglie" in occasione di una tua mostra a San Francisco.

La mostra del 2014 a San Francisco è stata una grande conferma dopo tanti anni di fotografie, finalmente la mia prima vera mostra fotografica. Titolo “Soglia”, “Treshold”. Il tema mi è stato suggerito dalla lettura di Lezioni di fotografia, bellissimo libro del maestro Luigi Ghirri. Per lui: «Fotografare vuol dire escludere, e questo si fa con l’inquadratura che è, appunto una soglia.
[…] L’inquadratura non è solo bordo, ma una 'soglia': un punto nello spazio in cui si fronteggiano il mondo interiore del fotografo, io-pelle con occhio abnorme, e l’ammasso inerte e silente che sta fuori». Da queste parole ho tratto spunto per la mia mostra . La mia ricerca fotografica sulla soglia è stata una sfida nel trovare ulteriori soglie da inserire nell’inquadratura del paesaggio marino, con l’intento di portare lo sguardo dell’osservatore su un solo punto: l’orizzonte del mare. E allora nelle mie immagini appaiono elementi casuali atti a concentrare l’attenzione sulla linea di confine tra cielo e mare, elementi trovati sulle spiagge o sulle strade lungomare del Tirreno, Adriatico e Jonio. Vedere queste fotografie del paesaggio italiano nel contesto di una città come San Francisco è stato per me motivo di grande soddisfazione.

Oltre al tuo lavoro di regista e a Luigi Ghirri, chi o che cos'altro ritieni che ti abbia insegnato uno sguardo?

Ogni fotografo ci insegna a guardare le cose in modo nuovo, ma Luigi Ghirri per me è stato colui che ha condizionato ed emozionato con più forza le origini della mia fotografia. Poi ho scoperto Gabriele Basilico che ha influenzato il mio modo di vedere la città. Infine Hiroshi Sugimoto che ha sintetizzato il linguaggio fotografico con le sue foto dedicate al mare, cancellando il superfluo e riducendo la fotografia a una linea: l'orizzonte, il cielo sopra e sotto il mare, fotografato in diversi luoghi ed in diverse ore sulla terra.


CapGazette ringrazia Graziano Paiella e le sue fotografie


Clicca sulle immagini per entrare nel sito fotografico www.grazianopaiella.com
Chiacchiere: Graziano Paiella e Nicoletta De Boni © CapGazette
Foto: Immagini tratte dalla mostra 'Soglia' e 'Altare della patria', Roma 1967 © Graziano Paiella
Maggio 2015