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A testa alta, parole e palloni

A testa alta, parole e palloni.


A volte i libri nascono da una parola, da una frase o anche da un silenzio, ma in questo caso posso dire che è stata proprio un’immagine a far scatenare la scrittura; lo dice Francesco Luti Mazzolani, pensando a come è nato il suo ‘A testa alta. Il cammino del Sarrià’ (Nicomp L.E., Firenze).
È questo il titolo che assieme alla foto di copertina della nazionale di calcio del 1982 a me, che di calcio per la verità capisco poco, ha riconsegnato una manciata di sere d’estate di 33 anni fa: Italia-Argentina 2 a 1, Italia-Brasile 3 a 2, uno stadio che non c’è più, una città, Barcellona, che ci stava portando fortuna, un paese, la Spagna, non cosí lontanto ma esotico a quei tempi, o forse all’età che avevo. Li ritrovo infatti dentro il libro questi miei ricordi:
«L’Italia la guardavamo a casa in famiglia (...). La televisione a colori era giunta per Natale, il penultimo tutti insieme, una Grundig di finta radica che sarebbe campata vent’anni! (...) Tutta l’Italia dell’anagrafe: tutta stretta nel proprio salotto o al bar».
Va subito detto però che questo lungo racconto non narra solo dell’avventura calcistica dei mondiali di Spagna; vale quindi la pena di andare avanti e, come ci consiglia lo scrittore, di procedere con lui nello scavo della memoria.
Francesco Luti ha terminato circa un anno fa questo suo lavoro che è la stesura di un attraversamento di campo che l’ha portato dalla porta di casa della Firenze di nascita alla porta della Barcellona d’adozione. Attenzione però, di avversari da vincere qui non ce ne sono e le due città rappresentano un passato e un presente, una sorta di botta e risposta alla vita; su quel filo dell’esistenza tirato tra l’una e l’altra quella che si legge è una bella partita, giocata con ottimi compagni di squadra.

Francesco, qual è quell’immagine da cui è sbucato il racconto?
Ero bambino, vivevo proprio accanto allo stadio di Firenze, al quinto piano di un edificio al numero uno di Viale de’ Mille. Da quell’altezza godevamo di una vista privilegiata sulle partite che vi si disputavano, ma quando gli incontri erano tranquilli, ovvero al sicuro da tifoserie troppo aggressive, allora mio padre portava me e i miei fratelli dentro lo stadio. Dall’alto della grata della Maratona, dove noi ci si piazzava, io puntavo lo sguardo sul mio idolo, Giancarlo Antognoni. Quando c’era un calcio d’angolo scendevo giù veloce fino all’inferriata di bordo campo per gridargli: Antonio, Antonio! Poi, dopo il corner, tornavo al mio posto, salendo a fatica con quella falcata da bimbo di dieci anni che ero, e mio padre in quel momento mi domandava: Allora? Cosa ti ha detto? Ti ha sentito? E io gli rispondevo: Sì, sì, forse, mi pare di sì, mi ha guardato...

È col ricordo del padre che l’affetto inizia a pervadere tutto il libro, quel papà che Francesco perderà qualche mese dopo la vittoria dei mondiali dell’82, quand’era davvero ancora troppo piccolo per sopportare quella che: «In inglese si dice injury, e a me piace questa parola anglosassone che offre un ventaglio maggiore, e volendo si può credere perfino che quella frattura sia anche un’ingiuria. Come una sciabolata netta al cuore dell’esistere».
Se poco più di un anno prima gli era già sembrata un’ingiuria, appunto, una ginocchiata in testa che nella partita contro il Genoa aveva messo fuori gioco per mesi il suo Antognoni, ora la vita colpiva quel bambino con un taglio netto. Eppure quel padre continuerà sempre con la sua assenza a fargli compagnia in inseguimenti e appostamenti di vario genere, primi su tutti quelli al bell’Antonio, il grande giocatore della piccola squadra, il campione che fu e la persona per bene che continua a essere.

Così tra un campionato e l’altro, tra un mondiale e l’altro passano gli anni e Francesco sceglie le parole come compagne predilette del suo vagabondare tra paesi, ricordi e palloni.
Ha ormai vent’anni, è su un volo della Panam che lo porta in vacanza a New York insieme alla madre, a un quaderno azzurro e a due penne bic. Proprio al Giants Stadium della Grande Mela, anni prima, Giancarlo Antognoni era stato finalmente coronato migliore giocatore nella partita post mondiale tra Europa e Resto del Mondo, riprendendosi in tal modo quel merito che la sfortuna gli aveva sottratto impedendogli di giocare la finale spagnola.
Dentro quell’aereo i palloni di questa storia traghettano verso la scrittura, complice lo sguardo incoraggiante, attento e distratto di una madre a cui questo libro è dedicato e che era colei che non aveva mai dimenticato il grande amore del figlio per le parole. «Il pallone e le parole queste due Pi a incedere l’esistere, gomito a gomito. […] Frugare nelle sillabe, nelle consonanti e nelle vocali, come un mendicante nella spazzatura del nostro tempo.»
Per il nostro autore il calcio assomiglia alla scrittura anche perché entrambi sono fortemente legati all’improvvisazione, ciò che invece è ben diverso è il rapporto che scrittore e calciatore hanno coi loro rispettivi mestieri, perché se smettere di scrivere per il primo può essere una scelta, smettere di giocare per il secondo è un’imposizione.

Perché il titolo ‘A testa alta. Il cammino del Sarrià’?
Ho voluto rendere omaggio da un lato al gioco elegante di Antognoni che procedeva guardando le stelle e dall’altro anche alle mie scelte, quella di fare lo scrittore, nonostante le difficoltà che si affrontano, per esempio riuscire a sbarcare il lunario... e quella di farlo in un paese che non è il mio: a stare lontani se ne guadagna senz’altro in termini di una gradevole nostalgia, ma c’è anche il sacrificio di separarsi da chi non ti accompagna nel viaggio. Il cammino dai gradoni dello stadio di Firenze fino al Sarrià è anche il mio cammino personale.
Si legge nel libro: «E l’eco della nostalgia te lo offre bene l’altrove. Invidio la nostalgia dell’esiliato […]. Come l’ama l’esiliato la terra d’origine, non l’ama nessuno. È consistente il bagaglio che ci si porta addosso quando si è lontani, e c’è senz’altro dell’epico in colui che se la gioca fuori casa.»

Francesco tifoso, Francesco figlio e bambino, Francesco scrittore, Francesco giocatore e viaggiatore, ma anche Francesco investigatore, detective:
Sì, in una presentazione del libro mi è stato detto che a volte leggendo queste pagine si ha quasi l’impressione di seguire il lavoro di un investigatore che va a caccia di prove, ci si riferiva in particolare a due incontri di cui parlo nel libro: uno con Tonino Fernández, il custode del Sarrià nei giorni del mondiale, che oggi è in pensione e porta l’orologio sul polso destro come Antognoni. Un quiet man alla John Wayne, che alle 7 del mattino del 5 luglio dell’’82, il giorno di Italia-Brasile, aprì il cancello dello stadio del Sarrià in compagnia di Isidro, l’artista tagliaerba, Carmelo, l’aiutante elettricista e Manolo, carpentiere responsable dei sanitari. L’altro incontro invece è avvenuto in Brasile, a Cabo Frio dove andai a cercare Leandro, il giocatore che alla fine di quella partita del 5 luglio era corso a scambiarsi la maglia con Antognoni. Poi c’è anche una gita all’Hotel Castillo di Sant Boi de Llobregat, dove alloggiò la Nazionale nelle sue giornate barcellonesi e dove ho incontrato José Márquez il maître dell’hotel nell’ ’82.
Che bella è l’immagine di Tonino Fernández e Francesco Luti seduti a un bar della Carretera de Sants, tutti intenti a ricordare la giornata e lo stadio che furono davanti a due succhi d’arancia, poi il ricordo dei paesaggi brasiliani che si sovrappongono fuori dal finestrino del pullman che va da Rio a Cabo Frio e infine quell’attendere Leandro, dentro la pousada di sua proprietà.

I divagabondaggi, come li chiama Francesco Luti, finiscono e ricominciano, dentro e fuori il libro, in Spagna, quel paese del quale per primo gli aveva parlato proprio il padre mentre gli mostrava le fotografie di un suo viaggio in vespa alla fine degli anni Cinquanta, ma finiscono e ricominciano anche nell’amicizia con Giancarlo Antognoni e nell’intera, coraggiosa squadra che grazie e queste pagine l’autore ha rimesso insieme.

Ma a Giancarlo, che ora è un amico, hai domandato se allora ti sentiva quando scendevi i gradoni e gli gridavi Antonio, Antonio?
Sì, gliel’ho chiesto, gliel’ho chiesto eccome, mi ha risposto maaah, sai, in quei momenti là... Ma come?! E io che ho pure il taglio di capelli all’Antognoni! Comunque io credo che anche se non riescono a distinguere le voci durante la partita, poi io mi immagino che i cori, che quelle frasi possano ritornare nella testa dei calciatori, magari anni e anni dopo, quando non giocano più, quando quell’altra vita è ormai solo un ricordo, quando devono reinventarsi e forse sono lì come pipistrelli senza riferimenti, ecco forse quelle grida, quel tifo di un bambino servono a restituirgli la loro storia proprio in quei momenti lì.


Cap Gazette ringrazia Francesco Luti Mazzolani e tutti i suoi compagni di squadra.



Intervista a Francesco Luti Mazzolani: Nicoletta De Boni © Cap Gazette
Nella foto l'autore con 'A testa alta. Il cammino del Sarrià' e il taglio all'Antognoni.
Febbraio 2015