Posts Tagged: Barcellona

L’orologiaio. Barcellona/Londra

L’orologiaio (appunti sul tempo e le città) - Barcellona/Londra

Poblenou, Barcelona
East End, London


[…] These fragments I have shored against my ruins [1] […]
T.S. Eliot

Remor de cops d’aixada, no la sents?
Rera les altes tanques de paret.
Sense repòs, però molt lentament,
ennllà de la cleda contínua del temps.
[2] […]

Salvador Espriu


[1] […] Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine […]

[2] Rumore di colpi di zappa, non lo senti?
Dietro gli alti muri di recinzione.
Senza sosta, ma molto lentamente,
oltre il recinto continuo del tempo. […]

Da quando è andato in pensione il signor B.D. [3], ex orologiaio, ha preso casa al Poblenou, a Barcellona. Dice che si trova abbastanza bene, che può sbrigare le sue faccende quotidiane indisturbato, senza troppi intoppi: fa, disfa, prega, pellegrina, fruga nella spazzatura, raccatta di tutto, dirige il traffico, piscia negli angoli di strada.
Visto che gli passano una buona mesata - ha un'ineguagliabile anzianità di servizio - abita in un loft ricavato in un vecchio capannone industriale in disuso, di quelli con scala di ferro esterna, in un vicolo non lontano dal cimitero [4] (e dove, se no?).
A colazione mangia spesso pane e sardine in un bar tenuto da un libanese musulmano - perché lui, il signor B.D., è ecumenico, o per lo meno lo è diventato: da vecchi bisogna sforzarsi di diventare più tolleranti, pena l’abbandono.
La sera, invece, gira intorno alla Casa di Abramo (tempio ecumenico di belle speranze anche lui) incerto sul da farsi: una bella sbronza per dimenticare o una partita a domino sul lungomare per ricordare?

[3] “[…] il Signor B.D. è un ottimo orologiaio. Pallido e acquatico un morto buongiorno ondeggia nell’aria, che triste stagione! […]"
Parafrasi espressionista di testo dadaista di Tristan Tzara (Un cuore a gas).

[4] Il cimitero del Poblenou mi ricorda, a me torinese, quello di san Pietro in Vincoli a Torino, accanto al Cottolengo. Per altro anche il Cottolengo e ancor più il Signor Don Bosco hanno lasciato il loro segno a Barcellona.

In origine il Poblenou era parte del municipio indipendente di Sant Martí dels Provençals; poi, dopo una contestata votazione comunale, divenne quartiere barcellonese dei carrettieri (data l’umidità del luogo, pare che nelle stalle del pianterreno di notte i cavalli venissero appesi al soffitto per scansare i reumatismi); in seguito, nella prima metà del XX secolo fu il luogo delle fabbriche, dei giornali e delle utopie; nel 1992 è poi stato coinvolto nell’epopea moderna della Barcellona olimpica (tanto che un’area del quartiere si chiama ora Vila Olímpica); infine - ma infine solo per ora -, ribattezzato per incanto 22@, è diventato il distretto tecnologico, dell’architettura, del design e della moda.
La toponomastica è spesso crudele. Nasconde ciò che dovrebbe svelare. Eppure, se studiata con cura, è una mappa del tempo che passa. I luoghi cambiano nome e abitudini, eppure mantengono (o almeno ci provano, aggrappandosi con le unghie alle macerie) tracce dei nomi precedenti, del loro passato. Bisogna avere pazienza, scavare un po’ sotto la superficie, domandarsi e domandare, frugare negli archivi e nelle biblioteche, leggere le insegne, i volantini, le scritte sbiadite sui muri, sui lampioni, le targhe seminascoste nei giardini, tra le righe dei piedistalli delle statue…
Parlo con Carlos, figlio naturale del Poblenou, bagatto e scacchista, e mi dice di una chiesa che prima c’era e che ora non c’è:
- Stava vicino a Carrer Doctor Trueta, io la ricordo bene, ma non ne resta traccia. Vieni, ti ci porto, sono nato lì vicino. La fece costruire il proprietario di una fabbrica per evitare che lo costringessero a sgombrare. Non mi è chiaro se fosse un voto o solo speculazione edilizia. Probabilmente entrambe le cose.
- È il gioco delle tre carte: qui c’era una fabbrica, ora la fabbrica dov’è? Non perdere d’occhio le carte: qui c’era una strada, la vedi? Ora, la strada dov’è?

All’inizio c’erano le maremme, le lagune della vicina foce del fiume Besòs (ne resta il nome di una strada e di una fermata della metro: Llacuna, laguna), poi i primi nuclei abitati del comune di san Martí dels Provençals, fuori le mura barcellonesi, a nord-est del centro città, i campi agricoli, le vie dei trasporti.
La storia del Poblenou, però, è soprattutto legata all’industria, alle fabbriche e alla vita dei lavoratori: capannoni, villaggi industriali, binari ferroviari, ciminiere di cui è ancora possibile scovare i segni qua e là. Ma bisogna fare in fretta.
- Alcune fabbriche sono ancora in funzione, ma niente a che vedere con quello che era…
Seguendo il filo delle trasformazioni, i tic tac irregolari e diacronici della bottega dell’orologiaio, eccoci altrove, a Londra. Cediamo la parola a Danny e al suo East End.

“My East End is Victoria Park, where the new East Londoners jog, while the old ones smoke a spliff on the park benches, and it wasn’t that long ago you wouldn’t go through it after dark.
My East End is the boarded up estates on the Old Ford Road, reminder of the finest hour of the welfare-state that the new rich are desperately trying to sweep under the carpet.
My East End is Pellicci’s, where a third-generation Italian family has become the heart of the cockney community of Bethnal Green.
My East end is Bethnal Green market, Whitechapel Market, and all the other markets, scruffy and selling all sorts, from and for people from the world over.
My East End is Turin Street, a tiny non-descript street off Columbia Road, which symbolically brings together who I am now, and where I once came from…”.

“Il mio East Est è Victoria Park, dove i nuovi residenti fanno jogging, mentre quelli vecchi fumano una canna sulle panchine del parco, e non molto tempo fa non ci si entrava col buio.
Il mio East End sono le vecchie case popolari sigillate, tappate, di Old Ford Road, un souvenir dei bei tempi del welfare che i nuovi ricchi stanno disperatamente cercando di nascondere sotto il tappeto.
Il mio East End è Pellicci’s, dove una famiglia italiana di terza generazione è diventata il cuore della comunità cockney di Bethnal Green.
Il mio East End sono il mercato di Bethnal Green, quello di Whitechapel, e tutti gli altri mercati trasandati dove gente di ogni angolo del mondo vende e compra di tutto.
Il mio East End è Turin Street, una via minuscola e insignificante dietro Columbia Road, che simbolicamente mette insieme chi sono adesso e il posto da dove sono venuto…”
Da Barcellona a Londra: ogni città europea vanta un vecchio quartiere industriale che è stato a poco a poco abbandonato e più tardi “ringiovanito”. Il signor B.D. è andato in pensione e un nuovo orologiaio più preciso (più umano o più disumano?) lo ha sostituito.

“… My East End is the Bangladeshi communities of Shadwell, Spitalfields, Whitechapel, Stepney, and the best curries in the whole world (well, Europe at least).
My East End is the woman who shouts ‘C’mon West Ham’ at my claret and blue shirt as I cycle past her through one of the few remaining estates off Cable Street, in Shadwell.
My East End is the Turner’s Old Star, the last ungentrified pub left in Wapping (shame they support Spurs there), and the Palm Tree, the Marquis of Cornwallis and any other boozer that refuses to yield to the new trendies in town…”

“… Il mio East End sono le comunità bengalesi di Shadwell, Spitalfields, Whitechapel, Stepney e i migliori curry del mondo intero (beh, almeno d’Europa).
Il mio East End è la donna che grida ‘Forza West Ham’ quando le passo accanto in bici con la mia maglia granata e blu davanti a una delle poche vecchie case popolari rimaste dietro Cable Street, a Shadwell.
Il mio East End sono il Turner’s Old Star, l’ultimo pub non messo in tiro rimasto a Wapping (peccato siano del Tottenham), e il Palm Tree, il Marquis of Cornwallis e ogni altra bettola che si rifiuta di cedere ai nuovi trendy calati in città…”
Fieri del proprio quartiere di nascita come Carlos o consapevoli di essere stati in qualche modo parte della gentrification - pre-gentrification un po’ sfigata se vogliamo: tipi bizzarri, stralunati e abbastanza sconsiderati da mandare in avanscoperta, - come Danny e il sottoscritto, gotici o grunge, snob o cialtroni, raccontiamo quello che abbiamo visto o immaginato di vedere, senza troppa paura delle incoerenze, ma senza saltellare d’entusiasmo per un progresso avvizzito e tirato a lucido, il botox urbano dal linguaggio facile, leggero, devastante, privo al contempo di ironia e di storia, quest’eterna infanzia delle moderne parole. Parole vuote, moribonde, in disuso ancor prima d’essere in uso, foglie di fico.

L’orologiaio, vecchio o nuovo che sia, non ha pietà. Noi sì.
Testo narrativo: Lino Graz
Ballata in inglese: Danny Wintringham
Foto Poblenou: Lino Graz
Foto East End: Donia Jud
CapGazette 9/2016

Per il testo completo di Danny Wintringham.
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1623952401174901&id=1623935454509929

Le barche. In partenza da Barcellona, sulle rotte d’altri tempi

Barche

In partenza da Barcellona, sulle rotte d'altri tempi
Tra il tredicesimo e il quindicesimo secolo le navi che salpavano dal porto di Barcellona, battendo bandiera catalano aragonese, si dirigevano verso il Mediterraneo occidentale o quello orientale e verso i paesi del nord. Come cambiava il commercio col percorso marittimo?
Verso la Sicilia viaggiavano tessuti e armamenti, olio di Mallorca, riso di Valencia e miele di Tortosa, mentre sulla stessa rotta ma in senso contrario venivano trasportati il grano e lo zucchero (caricati a Palermo e a Messina erano destinati a raggiungere più tardi anche i paesi del Nord), la seta, il cotone e il corallo. A Napoli, che era un porto molto importante per gli scambi internazionali, ci si riforniva invece di vino bianco e rosso e di magnifici cavalli e i catalani vi vendevano zafferano, cera e sale di Ibiza.
In Nord Africa, soprattutto a Tunisi e a Algeri, si commerciavano utensili agricoli e stoffe in cambio d’oro e di schiavi, di corallo e di cera.
Anche sulla via del Levante, solcata prevalentemente da quelle grandi potenze marittime che furono Genova e Venezia, le navi catalane si guadagnarono un certo prestigio. Toccavano solitamente i porti di Alghero, Cagliari, Gaeta, Napoli, Palermo, Messina, Siracusa e Rodi e da qui prendevano la rotta che portava o a Beirut o a Alessandria d’Egitto. Il viaggio variava dai tre ai tredici mesi, a seconda degli scali, ma al ritorno, prima di approdare nuovamente a Barcellona, l’ultima tappa era sempre quella che si effettuava sull’isola di Mallorca.
Sulla rotta del Levante, chiamata anche rotta d’Oriente o d’Oltremare, il commercio più importante era indubbiamente quello delle spezie: pepe, incenso, mirra, zenzero, cannella e sandalo venivano scambiati con corallo, olio, nocciole, mandorle, piante aromatiche e zafferano, l’unica spezia esportata dal Mediterraneo occidentale. I preziosi tessuti di Damasco venivano scambiati con panni più economici, con lana e col vino liquoroso di Cipro. Il benessere dei mercanti, degli artigiani e dei contadini della corona catalano aragonese dipendeva prevalentemente dagli affari commerciali della rotta di Siria e Egitto: le entrate che si ricavavano dalla vendita dei prodotti acquistati in Oriente e riesportati in Castiglia, in Provenza e nei paesi del Nord dovevano infatti assicurare il lavoro nelle botteghe artigianali e nei campi dei territori della Corona.
Sulla rotta atlantica le navi che partivano da Barcellona toccavano i porti dell’Almeria, di Malaga, di Siviglia, di Cadice, di Lisbona per poi avventurarsi verso la Manica in direzione dell’Inghilterra o delle Fiandre.
Oltre a tutte le altre mercanzie che giungevano dai paesi del Levante o dalla Sicilia, i prodotti che solcavano queste acque erano prevalentemente alimenti in grado di sopportare il lugno viaggio: fichi secchi, mandorle, pinoli ed infine lo zafferano che nelle Fiandre veniva usato sia come spezia, che come colorante nella tinteggiatura dei tessuti.
Dai paesi del Nord si importavano metalli, in particolar modo il ferro che serviva a fabbricare coltelli e armi, pelli scandinave e russe, cappelli, berretti e piume per riempire i cuscini, stoffe d’ogni genere ed infine il legname.
Parliamo di mercanzie ma con loro anche di mercanti, crociati e pellegrini, di soldati alla mercé della corte, di uomini, donne e bambini che venivano trasportati nelle terre conquistate per ripopolarle; umanità in movimento e legami tra terre lontane, di cui ancor oggi rimane traccia nelle lingue e nelle tradizioni popolari, nei tratti somatici e nei caratteri delle persone.
Nel 1490 venne pubblicata a Valencia un’opera dello scrittore Joanot Martorell, dal titolo Tirant lo Blanc, destinato a diventare un classico della letteratura catalana medievale. Il libro narra le avventure cavalleresche di Tirant e del suo amore per Carmesina, la figlia dell’imperatore greco; le terre che l’eroe percorre evocano le rotte marittime commerciali di cui abbiamo parlato: l’Inghilterra, la Sicilia, Rodi, Costantinopoli, il Nord Africa.
Le stesse leggende popolari catalane sono costellate da personaggi che sono i protagonisti, e i testimoni, di una storia densa di avventure per mare; per esempio il Pescatore di Corallo, che è la vicenda di un povero orfano che un giorno, all’epoca del re Pietro, venne portato con altri giovani ad Alghero per ripopolare la terra. La leggenda racconta che giunto nell’isola, il ragazzino iniziò a lavorare come
pescatore e in una mattina di festa, mentre passeggiava per il paese, all’improvviso vide uscire dalla messa una donna bellissima e se ne innamorò perdutamente. La fanciulla era la figlia del Signore (veguer) d’Alghero ed abitava in un sontuoso palazzo affacciato sul mare. Un giorno il pescatore trovò in fondo al mare un ramo di corallo rosso, lo strappò, tornò a galla e corse a darlo in dono all’amata fanciulla. La figlia del Signore rimase abbagliata dalla generosità del pescatore e dalla preziosità di quel dono e gli chiese di portargliene ancora. Il ragazzo obbedì e per molte notti si aggrappò agli scogli sui quali si ergeva il palazzo dell’innamorata e arrampicatosi fino alla finestra tendeva la mano e le porgeva il corallo. Fin quando in una notte malaugurata, il padre della ragazza, messo al corrente di quegli incontri segreti, lo aspettò; quando il pescatore iniziò a salire per le rocce, l'uomo lo spinse e lo fece cadere giù. Il ragazzo andò a sbattere contro gli scogli e precipitò in mare. Si narra che il suo corpo senza vita venne trasportato fino alle grotte di Nettuno dove nelle notti di mare calmo ancor oggi si vede crescere altissimo sul turchese dell’acqua un ramo di rosso corallo.
Madre, se fossi marinaio,
marinaio di quelli buoni,
me ne andrei in alto mare
solo con la mia barca;
il vento sarebbe un grido di gioia,
la vela, colomba bianca,
il cuore d'un blu come d'incanto
e gli occhi d'un verde di speranza.
Se in quelle notti invece il mare fosse in burrasca, vi potrebbe capitare di avvistare all’orizzonte la Barca dei dormono e cantano e di sentire le voci dei “mori” destinati a una fuga perenne fin dall’epoca in cui Giacomo I° conquistò Mallorca. Pare che durante la notte queste anime in pena arrivino fino alla fine del mondo e che da lì tornino alle nostre acque. Tra i lampi, forse scorgereste le fiamme delle vele del vascello che arde e sentireste l’equipaggio russare o cantare all’infinito.


Text: Baldassar Perruccio © CapGazette
Trad. poesia di Miquel Martí i Pol: Paolo Gravela © CapGazette
Foto: © Renata Scanu
Luglio 2015

Le barche. Le Drassanes e il Museu Marítim di Barcellona

Barche

Le Drassanes e il Museu Marítim di Barcellona

Dopo esser passate per il genovese e il veneziano, la ‘casa del mestiere' o la 'fabbrica’, custodite dalla parola araba Dār-ṣinā῾a, sono approdate nell'italiano sotto forma di 'darsena’ e 'arsenale’.
Nella città di Barcellona i più antichi arsenali marittimi, in catalano les drassanes, risalivano all’XI° secolo. Tuttavia, gli unici di cui oggi rimane testimonianza sono quelli che vennero costruiti ai piedi del Montjuïc a partire dalla seconda metà del XIII° secolo, sotto il regno di Pietro il Grande. Nel XIV° secolo, il re Pietro il Cerimonioso diede il via alla costruzione delle navate e l’arsenale assunse l’aspetto che tuttora conserva; si racconta che quell'ampliamento prese dimensioni tali che all'interno vi si potevano costruire contemporaneamente fino a 30 galere.
Quando nel 1369 si innalzò il terzo anello della cinta muraria cittadina, le darsene entrarono definitivamente a far parte del nucleo cittadino. Oggi sono la sede del Museu Marítim di Barcellona. Il centro propone un percorso tra le imbarcazioni che solcarono le acque catalane, mediterranee e oceaniche nel corso dei secoli, facendo rivivere al visitatore sia la storia medievale della potenza marittima catalano-aragonese, che quella delle navi moderne impiegate nella rotta d’oltreoceano. Tra barche da pesca di distinti tipi, navi da guerra e immagini di transatlantici il pezzo forte è senza dubbio la riproduzione de “La Capitana”, la Galera Reale di Giovanni d’Austria che venne costruita qui nel 1568 e che nel 1571 portò i cristiani a vincere i turchi nella battaglia di Lepanto; è lunga 59 metri ed è decorata con preziosi motivi barocchi dai colori rosso ed oro.
Non poteva mancare una riproduzione dell’'Ictineo', il primo sottomarino della storia che proprio nelle acque del porto di Barcellona si immerse nella seconda metà dell’Ottocento. Ci incuriosisce inoltre l'esposizione dei mascarons (mascheroni o polene), quelle figure in legno di uomini e animali selvaggi o mistici che venivano installate sulla prua per allontanare le forze occulte del mare. Qui la Blanca Aurora, il Negre de la Riba, il Ninot non sono altro che versioni ottocentesche dell'occhio protettore di Egizi e Fenici e delle sculture delle navi vichinghe. La scultura del Ninot, che è un ragazzino che porta in una mano un diploma di nautica e nell’altra un berretto da marinaio, è probabilmente la più nota in città grazie al fatto che sulla facciata di uno dei mercati primo novecenteschi più frequentati, chiamato appunto il ‘Mercat del Ninot’, è in bella mostra una sua riproduzione in bronzo.


Secondo la leggenda si tratterebbe di un mascaró appartenuto ad una nave di trasporto di schiavi naufragata nella costa barcellonese; si racconta che il capitano si salvò dal naufragio aggrappandosi al Ninot per raggiungere la città.
Appena messosi in salvo, il capitano festeggiò così di gusto e di bevute che quella notte dimenticò il mascherone in una taverna che si trovava di fianco ad un mercato, ancora senza nome...
Stando invece a un'altra versione, il Ninot sarebbe appartenuto ad una nave di bandiera italiana che in una notte di tempesta approdò nel quartiere della Barceloneta; una ragazza che passeggiava in riva al mare col fidanzato e i suoceri, vedendo arrivare la nave, mise alla prova il promesso sposo, chiedendogli di recuperare la polena della nave.
E l’innamorato così fece, la ragazza se ne tornò a casa col suo Ninot e il giorno dopo il padre, pure lui fiero della prodezza del genero, lo appese nella taverna che gestiva vicino ad un mercato.
L’edificio delle drassanes di Barcellona è uno splendido esempio di gotico civile catalano con una parte centrale formata da otto navi parallele ad archi semicircolari sostenuti da pilastri di sei metri. Anche se pare che dell’originario edificio rimanga solo la facciata marittima risalente al XIV° secolo, nel corso delle modifiche apportate successivamente si adottò la stessa tipologia costruttiva della struttura originaria; continuano dunque a risaltare alcuni elementi gotici tipicamente catalani e assenti nell'architettura dello stesso stile diffusasi nel resto d’Europa: gli archi semicircolari non delimitano un lungo corridoio slanciato verso il cielo, bensì grandi sale quadrangolari, che danno la sensazione di un unico ed ampio spazio e oltre alla pietra, materiale più rappresentativo del gotico europeo, si è fatto uso anche del legno.

Gli arsenali passarono sotto il controllo della corona di Castiglia a metà del XVII° sec., dopo la guerra dei Segadors (1640-1659) e con Filippo Vº furono destinati ad arsenale militare; solo nel 1935 l’esercito li cedette alla città di Barcellona.
Tra la prima metà del XIII° sec. e il XV°, in epoca d’espansione della marina catalano-aragonese, negli arsenali di Barcellona si costruirono imbarcazioni di tutti i tipi, dalle barche più piccole fino alle grandi navi commerciali che percorrevano le rotte verso il Levante e verso i paesi del Nord Europa. Il legno utilizzato proveniva prevalentemente dai boschi dei Pirenei, ma anche da quelli della Croazia e delle Fiandre. Al suo interno lavoravano i costruttori di corde (corders) e di remi (remolers) , i tessitori di vele (velers), i fabbri (ferrers) e i maestri d'ascia ovvero i falegnami marittimi (mestres d’aixa). Terminata e preparata la nave, i proprietari la affidavano al capitano (patrò). Con lui avrebbero viaggiato due scrivani-contabili, uno con il compito di controllare e segnare su un registro tutte le spese e le entrate del viaggio e l’altro responsabile della mercanzia lasciata a bordo al momento della partenza. Oltre a mozzi e marinai, non sarebbe mancato un barbiere, che all'occorrenza sarebbe diventato chirurgo, i trombettieri per gli ordini da trasmettere all’equipaggio, il maestro d'ascia e una persona che si sarebbe occupata dei salari.


Text: Nicoletta De Boni © CapGazette
Foto: © Renata Scanu
Maggio 2105

Berlino-Barcellona, una conversazione con Lucia Chiarla

Berlino-Barcellona, una conversazione con Lucia Chiarla
L’ultima volta che ho visto Lucia Chiarla c’era un incendio. Era la sera dell’11 aprile 1997 e a Torino bruciavano Palazzo Reale e la cupola del Guarini. Come molti altri curiosi, anche noi eravamo in Piazza Castello e osservavamo il fumo, le fiamme e il via vai dei pompieri. Correvano voci disparate su cause e danni del fuoco, lodi all’eroismo dei pompieri che, si diceva, venivano fin da Alessandria e Milano. Da allora non ho più visto Lucia, ma un giorno, circa dieci anni fa, ero a radio Contrabanda di Barcellona per il programma in italiano Zibaldone quando Roberto Fenocchio, che dirigeva la trasmissione, ha dato notizia dell’uscita del film 'Bye Bye Berlusconi' di Lucia Chiarla e ...
- Chi? - Ho domandato.
- Lucia Chiarla e ….
- Lucia? La conosco!
Adesso che abbiamo un’età in cui si tirano alcune somme e si cerca di far quadrare comunque conti un po’ bislacchi*, ho lungamente conversato con Lucia via mail tra Berlino, Barcellona, Genova e Torino. Ecco il risultato di più di tre mesi di domande, risposte, considerazioni strappate alla foga della routine.

*[Bislacco, dice il vocabolario Treccani, viene forse dal veneto bislaco, soprannome che si dava ai Veneti del Friuli e agli Slavi dell’Istria, dallo sloveno bezjak «sciocco»].
Una definizione di Lucia Chiarla di teatro.
Il teatro è un gioco. Un gioco serio. L’obiettivo è dirsi la verità. Non ci sono vincitori e vinti. Solo buon teatro o cattivo teatro. Qualunque storia può raccontare una verità, se l’attore regala qualcosa di personale, e se il pubblico esce di casa per mettersi alla ricerca di sé, o degli altri. Lo spirito di ricerca è fondamentale. Gli attori possono essere aperti e generosi, ma se il pubblico non si è seduto con l’intento di ascoltare, allora non c’è dialogo. Un buon pubblico è importante quanto dei buoni attori.
Il teatro è azione e reazione. Non accontentarsi, né di sé né degli altri, non nascondersi dietro a estetismi o narcisismi mette lo scambio tra persone che indagano la vita al centro del teatro. Diciamo che è un gioco che non vuole ridursi a un passatempo. Quando si esce da teatro ci si potrebbe chiedere: ho trovato una chiave che non avevo? Ho capito qualcuno che non avevo mai capito, ho provato qualcosa che avevo paura di provare? E un attore che entra in scena si dovrebbe chiedere: dove sono io in questa storia? Sono disposto a spogliarmi per regalare qualcosa a chi mi ascolta?
Non so se questa è una definizione di Teatro, ma è il teatro che mi piace.
Come è nato in te l’amore per il teatro? Da piccola, da adolescente? Cosa ti ha portato al teatro?
Ho scoperto il teatro per solitudine. Da adolescente, credendomi diversa dagli altri e circondata da amici che si sentivano diversi dagli altri, oscillavo tra sentimenti di inadeguatezza e desiderio di esprimere la mia unicità. Dovevo innanzitutto capire in cosa consistesse la mia unicità!, e questa ricerca mi ha aperto le porte dell’ ”io”. L’ansia di trovarmi non si placava facilmente e per lo più restava insoddisfatta o si traduceva in amori infelici, desiderio di giustizia per tutti, rabbia verso ogni cosa mostrasse un equilibrio. Questi pensieri diventavano insopportabili la domenica pomeriggio e a quindici anni, per salvarmi dalla noia di quei lunghi pomeriggi inconsistenti a camminare avanti e indietro sul lungomare, ho cominciato ad andare a teatro, con le mie sorelle. In sala le luci si spegnevano lentamente e io scoprivo così, seduta tra donne imbellettate e profumate, la magia del teatro. I soli nemici di quei momenti erano i colpi di tosse di signore distratte che sfasciando caramelle mi riportavano alla realtà (fortunatamente non c’erano ancora i telefonini!).
Quell’anno ho cominciato a frequentare un corso di teatro. Ero l’unica tra i miei amici ad avere un simile passatempo e questo mi rendeva poco cool, ma finalmente molto unica!, e per andarci dovevo prendere il treno che dalla provincia del ponente di Genova mi portava in centro città, passare tra i carruggi, percorrere salite sconosciute e parlare con persone stravaganti, che parlavano solo di teatro. Questo era solo l’inizio di un’avventura che si concludeva ogni volta nella lettura di poche battute. La ripetizione all’infinito di una frase e l’emozione che portava con sé calmava, anche se solo per pochi istanti, l’ansia di trovare delle risposte ai tanti "perché". Qualche anno dopo ho preso un treno che mi ha portata a Milano e lí sono rimasta per studiare teatro alla scuola d’arte drammatica fondata da Paolo Grassi. Poi ho continuato a cercare la stessa magia in altri teatri, in altri luoghi, salendo su altri treni.

Vent’anni dopo, ovvero oggi.
Oggi, vent’anni dopo, mi definisco un’attrice strana. Anzi, mi definisco un’osservatrice. Vivo a Berlino, dove si parla un’altra lingua, dove per il pubblico sono innanzitutto straniera. Questa condizione “strana” di “straniera” mi ha portato a ricercare da capo il senso della mia professione. Come se fossi rinata, o mi fosse data una nuova occasione per uscire dall’automatismo e riflettere.  Nella ricerca mi sono accorta che la mia necessità è parlare di temi su cui ho urgenza di indagare, partendo dalla pura osservazione. E il mio modo immediato per elaborare questi temi è raccontando delle storie. A Berlino mi sono ritrovata a confrontarmi spesso con il tema del “vivere altrove” che è diventato anche titolo di uno spettacolo teatrale realizzato con il Teatro Instabile Berlino, con cui collaboro dal 2007. Poi ho sperimentato il racconto attraverso la canzone, insieme all'istituto di cultura italiano di Berlino, in uno spettacolo pensato per raccontare la cultura italiana attraverso la musica. Il titolo “d’Amore e d’Anarchia” cita un film di Lina Wertmüller. L’elemento amoroso e quello anarchico diventavano nel mio lavoro il filo d’Arianna per condurre lo spettatore tedesco - per il breve tempo di un’ora e mezza - lontano dai cliché sulla cultura italiana. E poi c’è il cinema, altro strumento di racconto che amo. Il mio primo film, "Bye Bye Berlusconi", di cui sono sceneggiatrice e interprete, presentato al festival di Berlino nel 2006, era un film che in forma di satira politica affrontava una tematica vicina a “I giusti” di Camus, in cui i personaggi  si interrogano sul senso dei loro atti di giustizia e di morte. Della mia seconda sceneggiatura, a cui lavoro da diversi anni, in lingua tedesca, e che rappresenta il progetto più importante, vorrei raccontare poco. Una sceneggiatura, fino a quando non diventa un film non esiste per il pubblico. E come diceva Calvino nel Barone Rampante: “Le imprese che si basano su di una tenacia interiore devono essere mute e oscure; per poco uno le dichiari o se ne glori, tutto appare fatuo, senza senso o addirittura meschino.”!
Berlin
Kreuzberg
Faccio tesoro della tua citazione di Calvino e non indago oltre sulle “imprese”, in attesa della loro realizzazione. Buon lavoro, dunque. Come ti scrivevo, conosco bene la sensazione di spaesamento, “stranezza”, dici tu, forse straniamento, della vita all’estero. L'argomento è spinoso e forse anche in questo sarebbe opportuno dare retta a Calvino per evitare di sembrare presuntuosi e/o toccare "suscettibilità nazionali" e altre piaghe sensibili degli uni e degli altri. Ogni mio tentativo di spiegarmi, a quelli di qui e a quelli di là, come italiano a Barcellona finisce quasi sempre in una battaglia don chisciottesca. Tuttavia, se vuoi, possiamo fare l'ennesimo tentativo di spiegare le ragioni e le situazioni dell'espatrio, gli aspetti ricorrenti e quelli individuali. O cercarne il lato comico.
D'altro canto mi piacerebbe che ci parlassi degli spettacoli di teatro a cui hai assistito come spettatrice e che più ti hanno cambiata.
Ho provato a legare le due domande, ovvero io come straniera e lo spettacolo che in questo mi ha lasciato un segno.
Del “vivere altrove” ci sarebbe troppo da dire, e credo di essere ancora nella fase in cui questo troppo mi confonde. Quindi diciamo che è ancora presto per parlarne. Ad essere stranieri ci si abitua, come a tutto del resto, e mi consola pensare che anche quando vivevo nella mia città non mi sentivo mai completamente appartenente. Inizio a chiedermi se non sia una condizione del mio essere che con grande talento sono riuscita a rendere reale col mio trasferimento da ricordarmene perennemente, anche andando a fare la spesa. A questo proposito c'è uno spettacolo che ho visto e che mi accompagna in questa nuova fase della vita.  Uno dei primi spettacoli visto a Berlino, in lingua tedesca: “Murx den Europäer! Murx ihn! Murx ihn! Murx ihn! Murx ihn ab!” di Christoph Marthaler. Uno spettacolo cult in Germania che ho avuto la fortuna di vedere nella sua ultima rappresentazione, il febbraio 2006. Mi ero trasferita nel 2005, quindi ancora capivo molto poco di tedesco e della cultura tedesca. Lo spettacolo raccontava lo stato d’animo della popolazione della DDR poco prima della caduta del muro. Le parole non erano poi così importanti per la comprensione dell’opera. Quello che passava la messa in scena era un perenne sentimento di non appartenenza. I protagonisti, vittime di burocrazia, attese e assurdità, conservavano però un’ironia che diventava un collante salvifico. Ad ogni quadro si alzavano e intonavano insieme una canzoncina, molto nota in Germania : “Danke, für diesen guten Morgen”. Ovvero: “grazie, per questa buona mattinata! grazie”. Riscritta su una canzone da chiesa, con un testo pungente. Anch'io oggi, quando passo delle giornate a muovermi tra carte e faccende quotidiane, immersa nell’anonimato del sistema, con il mio numero di identificazione sotto mano per ogni cosa, canticchio quel motivetto e penso che l’ironia è l’unica salvezza.
Conversazione: Lucia Chiarla, Paolo Gravela
Foto: Paolo Gravela, Lucia Chiarla.
CapGazette, Mar. 2015

Gli sguardi di Mercis Rossetti Caral

La giraffa che fa le pernacchie - Gli sguardi di Mercis Rossetti Caral
“La realtà è soggettiva. Le situazioni vissute che tratteniamo portano con sé un determinato peso emotivo. Ognuno ha il proprio modo di gestire tale peso emotivo e nel mio caso è tramite l’arte o l’umore grottesco”.

Mercis Rossetti è un’artista visuale residente a Barcelona. Diplomata in Belle Arti presso l’Università di Barcellona, ha poi frequentato il master ufficiale in 'Creazione artistica: realismi e ambienti', per il quale ha realizzato un progetto sull’autoritratto e la ricerca dell’identità. L’anno successivo ha frequentato il master in 'Gestione delle Industrie Creative e Culturali' presso l’ Università Pompeu Fabra di Barcellona. Ha partecipato a varie mostre collettive e vanta già alcune esposizioni individuali.
Da dove nasce il tuo interesse per l’arte?
Fin da piccola ricordo di aver sempre disegnato, quindi non saprei dire da dove è nato il mio interesse. È qualcosa che ho sempre dato per scontato. Sí, ricordo che cercavo di fare dei ritratti o che mi ossessionavo disegnando sguardi. Forse posso dire che allora è nata la mia ricerca di uno strumento per cogliere e capire la realtà che mi circondava.

Che cos’è per te l’arte?
Dedizione, sacrificio, estetica, emozione, curiosità, comprensione, disciplina e passione.

Che tipo di tecniche e materiali usi di solito?
Di solito lavoro su tela di medio e grande formato. Ho scoperto “tardi” la pittura anche se adesso mi risulta difficile liberarmene. A volte mi dedico al disegno a china, ma in genere uso olio e acrilico. Tuttavia, è senz’altro l’olio a darmi più libertà nel dipingere. Non mi chiudo tanto sulla perfezione dell’immagine, ma indago più sul concetto e su quanto si può poi leggere nell’opera.


“Le immagini posso sembrare surrealiste, ma in fondo non sono che una reinterpretazione della realtà in cui ciò che conta è il linguaggio simbolico. Soprattutto nei quadri di grande formato, le dimensioni aiutano lo spettatore a far parte come invitato delle scene. Il formato è classico senza però rinunciare a un linguaggio contemporaneo. La quotidianità delle persone e delle immagini viene corrotta da un ambiente torbido, creando l’inquietudine delle immagini”.

Che metodologia segui nei tuoi lavori?
Mi piace indagare su tutto quello che dipingo. Conoscere particolari e curiosare. Se lavoro partendo da fotografie le scatto io stessa, accompagnando sempre il processo con un’intervista mirata al tema dell’opera. In questo modo riesco anche a indurre un determinato stato d’animo nel soggetto dell’opera.
Nel caso degli animali (si tratta della mia ultima serie), cerco informazioni e ho bisogno di leggere sul loro comportamento sociale, se è il caso, o indagare sugli aspetti più importanti e sulle curiosità di ciascuno.
Poi seleziono le immagini che considero adatte. Creo bozze, ridisegno, e pianifico l’opera. Alla fine non mi resta che lottare con il quadro finché non vedo i risultati che aspetto.
Chi sono i tuoi soggetti?
Normalmente, per non dire sempre, cerco la gente che ho intorno. Familiari, amici o me stessa. Dipingo quello che cerco di capire e che mi circonda, cerco di parlare di quello che conosco e di ricercare nella mia realtà. Fare altrimenti non avrebbe senso, soprattutto visto che l’identità è una delle mie priorità quando si tratta di pittura.

“A parte la serie sugli animali, il lavoro è fondato sull’autoritratto e sulla famiglia. I visi e la rappresentazione delle figure umane non indagano solo negli aspetti anatomici ma nella psiche di chi viene rappresentato. Per questo sono importanti sia la tecnica sia la creazione di un ambiente e l’espressività”.
Texts & images: Mercis Rossetti Caral ©Mercis Rossetti Caral
Ed. e trad italiano: Paolo Gravela ©CapGazette
Mar 2015