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Pio Baroja Amores tardíos

La misura del tempo

In questi tempi di resistibili, eppure violente, ascesi di Arturi Ui e Ubu Re, e risibili opposizioni, mi sono felicemente imbattuto in questo breve testo di Pio Baroja (tratto da Gli amori tardivi), che mi è parso una sana descrizione di un anticonformismo istintivo, fisiologico, senza artifici né pose. Un'autonomia del pensiero e del comportamento a cui aggrapparsi. Per misurare a proprio modo, sia pure dolorosamente e in solitudine, il tempo. Non è di un ritorno all'età dell'innocenza che parlo, né di una cieca fiducia nella propria giustezza, ma di un cocciuto coraggio di essere.

La medida del tiempo

En estos tiempos de resistibles, y sin embargo violentas, ascensiones de Arturos Ui y Ubús Reyes, y risibles oposiciones, me he felizmente tropezado con este breve texto de Pio Baroja, (un fragmento de Los amores tardíos), que me parece una sana descripción de un anticonformismo instintivo, fisiológico, sin artificios ni poses. Una autonomía del pensamiento y del comportamiento a la cual agarrarse. Para medir de forma personal, aunque quizás con dolor y en soledad, el tiempo. No hablo de volver a la edad de la inocencia, ni de una ciega confianza en la justitud personal, sino de una obstinada valentía por ser.

- Io sono come quei vecchi orologi che hanno il meccanismo frastornato, non c’è modo di metterlo a posto né di aggiustarlo. Accostati alla parete, con la loro forma di bara, mettono alla prova i migliori orologiai. Nella cassa di quegli orologi ci sono polvere e ragnatele, e tra due pesi di piombo ineguali, appesi a delle corde nere, un pendolo dorato, che è come il cuore del meccanismo che fa tic tac, tic tac, senza stancarsi. Anche se camminano, questi orologi vanno avanti o indietro, e quando arriva il momento di suonare le ore, si lanciano con un rumore terribile in sonori rintocchi, e invece di suonare il quarto d’ora suonano la mezz’ora, e quando devono suonare le dodici suonano l’una.
Questi rintocchi insoliti sembrano stupire l’orologio stesso da cui provengono, e tutto ciò che lo circonda, e i mobili e i quadri pare debbano guardarsi l’un l’altro straniti e sarcastici, e farsi un occhiolino beffardo e confidenziale.

- Yo soy como esos relojes viejos que tienen la maquina trastornada, no hay manera de componerla ni de arreglarla. Arrimados a la pared, con su forma de ataúd, desafían a los mejores relojeros. En la caja de esos relojes hay polvo y telas de araña, y entre dos pesas de plomo desiguales, que cuelgan de cuerdas negras, una péndola dorada, que es como el corazón de la maquina que hace tictac, tictac, sin cansarse. Aunque anden, estos relojes adelantan o atrasan, y cuando llega el momento de dar las horas, se disparan con ruido terrible en sonoras campanadas, y en vez del cuarto dan la media, y cuando tienen que dar las doce dan la una.
Estas campanadas insólitas parecen asombrar al mismo reloj de donde salen, y a todo lo que le rodea, y los muebles y los cuadros se piensa que se han de mirar unos a otros con extrañeza y con sorna, y hacerse un guiño burlón y confidencial.
Intro e trad it: Lino Graz
Texto: Pio Baroja, de Los Amores Tardíos, 1926
Foto: Aix en Provence / Andrate. Autore: Lino Graz

L’orologiaio. Barcellona/Londra

L’orologiaio (appunti sul tempo e le città) - Barcellona/Londra

Poblenou, Barcelona
East End, London


[…] These fragments I have shored against my ruins [1] […]
T.S. Eliot

Remor de cops d’aixada, no la sents?
Rera les altes tanques de paret.
Sense repòs, però molt lentament,
ennllà de la cleda contínua del temps.
[2] […]

Salvador Espriu


[1] […] Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine […]

[2] Rumore di colpi di zappa, non lo senti?
Dietro gli alti muri di recinzione.
Senza sosta, ma molto lentamente,
oltre il recinto continuo del tempo. […]

Da quando è andato in pensione il signor B.D. [3], ex orologiaio, ha preso casa al Poblenou, a Barcellona. Dice che si trova abbastanza bene, che può sbrigare le sue faccende quotidiane indisturbato, senza troppi intoppi: fa, disfa, prega, pellegrina, fruga nella spazzatura, raccatta di tutto, dirige il traffico, piscia negli angoli di strada.
Visto che gli passano una buona mesata - ha un'ineguagliabile anzianità di servizio - abita in un loft ricavato in un vecchio capannone industriale in disuso, di quelli con scala di ferro esterna, in un vicolo non lontano dal cimitero [4] (e dove, se no?).
A colazione mangia spesso pane e sardine in un bar tenuto da un libanese musulmano - perché lui, il signor B.D., è ecumenico, o per lo meno lo è diventato: da vecchi bisogna sforzarsi di diventare più tolleranti, pena l’abbandono.
La sera, invece, gira intorno alla Casa di Abramo (tempio ecumenico di belle speranze anche lui) incerto sul da farsi: una bella sbronza per dimenticare o una partita a domino sul lungomare per ricordare?

[3] “[…] il Signor B.D. è un ottimo orologiaio. Pallido e acquatico un morto buongiorno ondeggia nell’aria, che triste stagione! […]"
Parafrasi espressionista di testo dadaista di Tristan Tzara (Un cuore a gas).

[4] Il cimitero del Poblenou mi ricorda, a me torinese, quello di san Pietro in Vincoli a Torino, accanto al Cottolengo. Per altro anche il Cottolengo e ancor più il Signor Don Bosco hanno lasciato il loro segno a Barcellona.

In origine il Poblenou era parte del municipio indipendente di Sant Martí dels Provençals; poi, dopo una contestata votazione comunale, divenne quartiere barcellonese dei carrettieri (data l’umidità del luogo, pare che nelle stalle del pianterreno di notte i cavalli venissero appesi al soffitto per scansare i reumatismi); in seguito, nella prima metà del XX secolo fu il luogo delle fabbriche, dei giornali e delle utopie; nel 1992 è poi stato coinvolto nell’epopea moderna della Barcellona olimpica (tanto che un’area del quartiere si chiama ora Vila Olímpica); infine - ma infine solo per ora -, ribattezzato per incanto 22@, è diventato il distretto tecnologico, dell’architettura, del design e della moda.
La toponomastica è spesso crudele. Nasconde ciò che dovrebbe svelare. Eppure, se studiata con cura, è una mappa del tempo che passa. I luoghi cambiano nome e abitudini, eppure mantengono (o almeno ci provano, aggrappandosi con le unghie alle macerie) tracce dei nomi precedenti, del loro passato. Bisogna avere pazienza, scavare un po’ sotto la superficie, domandarsi e domandare, frugare negli archivi e nelle biblioteche, leggere le insegne, i volantini, le scritte sbiadite sui muri, sui lampioni, le targhe seminascoste nei giardini, tra le righe dei piedistalli delle statue…
Parlo con Carlos, figlio naturale del Poblenou, bagatto e scacchista, e mi dice di una chiesa che prima c’era e che ora non c’è:
- Stava vicino a Carrer Doctor Trueta, io la ricordo bene, ma non ne resta traccia. Vieni, ti ci porto, sono nato lì vicino. La fece costruire il proprietario di una fabbrica per evitare che lo costringessero a sgombrare. Non mi è chiaro se fosse un voto o solo speculazione edilizia. Probabilmente entrambe le cose.
- È il gioco delle tre carte: qui c’era una fabbrica, ora la fabbrica dov’è? Non perdere d’occhio le carte: qui c’era una strada, la vedi? Ora, la strada dov’è?

All’inizio c’erano le maremme, le lagune della vicina foce del fiume Besòs (ne resta il nome di una strada e di una fermata della metro: Llacuna, laguna), poi i primi nuclei abitati del comune di san Martí dels Provençals, fuori le mura barcellonesi, a nord-est del centro città, i campi agricoli, le vie dei trasporti.
La storia del Poblenou, però, è soprattutto legata all’industria, alle fabbriche e alla vita dei lavoratori: capannoni, villaggi industriali, binari ferroviari, ciminiere di cui è ancora possibile scovare i segni qua e là. Ma bisogna fare in fretta.
- Alcune fabbriche sono ancora in funzione, ma niente a che vedere con quello che era…
Seguendo il filo delle trasformazioni, i tic tac irregolari e diacronici della bottega dell’orologiaio, eccoci altrove, a Londra. Cediamo la parola a Danny e al suo East End.

“My East End is Victoria Park, where the new East Londoners jog, while the old ones smoke a spliff on the park benches, and it wasn’t that long ago you wouldn’t go through it after dark.
My East End is the boarded up estates on the Old Ford Road, reminder of the finest hour of the welfare-state that the new rich are desperately trying to sweep under the carpet.
My East End is Pellicci’s, where a third-generation Italian family has become the heart of the cockney community of Bethnal Green.
My East end is Bethnal Green market, Whitechapel Market, and all the other markets, scruffy and selling all sorts, from and for people from the world over.
My East End is Turin Street, a tiny non-descript street off Columbia Road, which symbolically brings together who I am now, and where I once came from…”.

“Il mio East Est è Victoria Park, dove i nuovi residenti fanno jogging, mentre quelli vecchi fumano una canna sulle panchine del parco, e non molto tempo fa non ci si entrava col buio.
Il mio East End sono le vecchie case popolari sigillate, tappate, di Old Ford Road, un souvenir dei bei tempi del welfare che i nuovi ricchi stanno disperatamente cercando di nascondere sotto il tappeto.
Il mio East End è Pellicci’s, dove una famiglia italiana di terza generazione è diventata il cuore della comunità cockney di Bethnal Green.
Il mio East End sono il mercato di Bethnal Green, quello di Whitechapel, e tutti gli altri mercati trasandati dove gente di ogni angolo del mondo vende e compra di tutto.
Il mio East End è Turin Street, una via minuscola e insignificante dietro Columbia Road, che simbolicamente mette insieme chi sono adesso e il posto da dove sono venuto…”
Da Barcellona a Londra: ogni città europea vanta un vecchio quartiere industriale che è stato a poco a poco abbandonato e più tardi “ringiovanito”. Il signor B.D. è andato in pensione e un nuovo orologiaio più preciso (più umano o più disumano?) lo ha sostituito.

“… My East End is the Bangladeshi communities of Shadwell, Spitalfields, Whitechapel, Stepney, and the best curries in the whole world (well, Europe at least).
My East End is the woman who shouts ‘C’mon West Ham’ at my claret and blue shirt as I cycle past her through one of the few remaining estates off Cable Street, in Shadwell.
My East End is the Turner’s Old Star, the last ungentrified pub left in Wapping (shame they support Spurs there), and the Palm Tree, the Marquis of Cornwallis and any other boozer that refuses to yield to the new trendies in town…”

“… Il mio East End sono le comunità bengalesi di Shadwell, Spitalfields, Whitechapel, Stepney e i migliori curry del mondo intero (beh, almeno d’Europa).
Il mio East End è la donna che grida ‘Forza West Ham’ quando le passo accanto in bici con la mia maglia granata e blu davanti a una delle poche vecchie case popolari rimaste dietro Cable Street, a Shadwell.
Il mio East End sono il Turner’s Old Star, l’ultimo pub non messo in tiro rimasto a Wapping (peccato siano del Tottenham), e il Palm Tree, il Marquis of Cornwallis e ogni altra bettola che si rifiuta di cedere ai nuovi trendy calati in città…”
Fieri del proprio quartiere di nascita come Carlos o consapevoli di essere stati in qualche modo parte della gentrification - pre-gentrification un po’ sfigata se vogliamo: tipi bizzarri, stralunati e abbastanza sconsiderati da mandare in avanscoperta, - come Danny e il sottoscritto, gotici o grunge, snob o cialtroni, raccontiamo quello che abbiamo visto o immaginato di vedere, senza troppa paura delle incoerenze, ma senza saltellare d’entusiasmo per un progresso avvizzito e tirato a lucido, il botox urbano dal linguaggio facile, leggero, devastante, privo al contempo di ironia e di storia, quest’eterna infanzia delle moderne parole. Parole vuote, moribonde, in disuso ancor prima d’essere in uso, foglie di fico.

L’orologiaio, vecchio o nuovo che sia, non ha pietà. Noi sì.
Testo narrativo: Lino Graz
Ballata in inglese: Danny Wintringham
Foto Poblenou: Lino Graz
Foto East End: Donia Jud
CapGazette 9/2016

Per il testo completo di Danny Wintringham.
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1623952401174901&id=1623935454509929

Ma perché liberarsi dai pesciolini d’argento?

Ma perché liberarsi dai pesciolini d’argento?

I pesciolini d'argento (Lepisma saccharina) sono inoffensivi, ma non è molto piacevole averli in casa. Si nutrono di libri, pelle morta e di altri materiali amidacei, e proliferano negli ambienti umidi e bui. Quando ti accorgi di avere un'infestazione, puoi sbarazzartene con delle trappole, con dei repellenti e rendendo la casa meno ospitale. Continua a leggere per imparare a liberarti dei pesciolini d'argento. (copia e incolla da: http://it.wikihow.com/Liberarsi-dei-Pesciolini-d'Argento).
L’ultimo l’ho astutamente salvato dalle grinfie del gatto di casa distraendolo, il gatto. Il penultimo era scivolato nel bidet e gli ho detto chiaro chiaro: “A bello, mo cavatela da solo: la vita è dura per tutti”. Con un altro ancora ho assistito alla scena di come “fanno i morti” quando percepiscono il pericolo: si stecchiscono per finta sperando di passare inosservati e confusi con le eventuali piccole porcherie, che loro neanche sanno quanto accompagnano la nostra vita. Io ero lì con la scopa in mano, spazzavo il pavimento, non è che mi stessi divertendo, però m’ha strappato un sorriso la sua ingenua strategia per farmi fessa, inconsapevole che tanto l’avrei comunque graziato.
Non è che ami gli insetti, tutt’altro. Però sono una persona istruita: ho frequentato il Liceo Scientifico del mio quartiere alla periferia sud di Roma, liceo che quando l’ho iniziato neanche aveva uno straccio di nome, ma che poi si è chiamato Ettore Majorana. Giunta al secondo anno, grazie al provvido Programma ministeriale di Scienze ho aperto gli occhi. Il mio personale castigo biblico (d’altra parte proprio nei libri abitava), il mio incubo, ossia quelle cose vive che ogni volta che aprivo un vecchio volume di mio padre si scapicollavano fuori dalle pagine, spaventandomi, avevano un nome proprio, Lepisma saccarina, e un graziosissimo nomignolo: pesciolini d’argento.
E la professoressa Marino e il libro di scienze mi hanno chiarito che, oltre a possedere un nome, quindi già di per sé quella dignità che fino ad allora avevo loro negato, vantano una storia millenaria e sono fra le creature che, “nei secoli fedeli”, non hanno subito pressoché nessuna evoluzione. Insomma, stavano e stanno bene così, beati loro. Forse l’eterno è solo l’identica riproduzione del se stesso all’infinito. Abbastanza noioso per essere roba da umani.
Poi dice che la scuola e l’istruzione non servano a niente. A me, insomma, questo fatto m’ha commosso: gli abusivi occupanti dei libri di mio padre, cosette oblunghe, antennute e zampute, che prima di saperne le vicende mi facevano abbastanza schifo al punto da rinunciare a leggerli, i libri, provenivano intatti dalla notte dei tempi.
Ma non solo: erano così pertinaci da infischiarsene di migliorare e si riproducevano senza varianti. E chi “se ne sbarazza” più dei pesciolini d’argento. Lascio che si facciano la loro vita. Chi sono io per negare ospitalità agli eredi degli eredi degli eredi delle prime creature che hanno colonizzato la terra ferma? Quando mi ci imbatto, cerco di non calpestarli. Prima di sfogliare un libro, lo sbatacchio e lo scuoto per avvisarli del mio arrivo. Se poi se li mangia il gatto, o la loro implacabile predatrice, la Forficula auricularia, meglio nota come forbicetta, li fa secchi anzitempo, dato che gli è dato vivere fino agli otto anni, è cosa loro.
Si potrebbe obiettare che mi mangiano i libri, ma tanto non è che debba lasciarli in eredità, e aggiungere che ci sono altri insetti blasonati, vedi lo scarafaggio, che invece stermino spietatamente e di cui mi auguro invano l’estinzione. Però, dico io, sarò libera di avere simpatie? Anche se i pesciolini sono analfabeti, e non sono gli unici che conosco, amano circondarsi di carta stampata e vecchie rilegature. Non selezionano i titoli, tuttavia ne hanno bisogno per campare. Con i pesciolini abbiamo un bel po’ in comune.

Text&Foto: © Annamaria Ciaravola
Giugno 2016

Por el arcén de la carretera

Por el arcén
Se fueron después de cenar; no era muy tarde pero la oscuridad era densa como si estuvieran ya en medio de la noche. Caía tanta agua que en cuanto penetraron en el valle las pocas ganas de hablar que aún le quedaban desaparecieron del todo.
Él conducía, estaba acostumbrado al mal tiempo y además conocía al dedillo la carretera; o esto por lo menos se deducía viéndolo tan tranquilo. Golpeaba los índices encima del volante, arqueaba un poco la espalda siguiendo el ritmo de la música que ponían en la radio, pero tenía quizás un carácter demasiado reservado para además ponerse a cantar. De vez en cuando, sacaba el cuello y cerraba un poco los ojos para ver mejor entre los chorros que rayaban el cristal.
Ella estaba convencida que dentro de aquel negro espeso, al costado del camino que recorrían debía de haber un riachuelo y no lograba quitarse de la cabeza que en cualquier momento pudiera desbordar y, como una riada, arrastrarlos hasta Dios sabe dónde. Nadie se hubiera dado cuenta, porque casi no pasaban coches por allí y las pocas casas que habían encontrado tenían pinta de estar vacías, con más oscuridad dentro de la que las rodeaba por fuera. Se preguntaba cuánto tiempo hacía que la gente se había marchado. Eran edificios suficientemente grandes como para hospedar a más familias. O seis, siete, ocho hijos como antaño se acostumbraba tener. Se preguntaba hacia donde habían ido. Sabía que en los siglos pasados muchos hombres de por allí se los habían llevado a construir vías del tren hasta las estepas más lejanas, pero esas casas eran más recientes.
Èl le habría podido contar unas cuantas historias de aquella tierra, pero a nadie de los dos les apetecía tomarse la confianza para discurrir sobre ello. A pesar de que no podía ver casi nada, dándole un poco la espalda, ella seguía mirando fijamente la ventanilla, mientras que él, aparentando que no la espiaba, guardaba en los ojos una media sonrisa que nunca terminaba de abrirse. Vete a saber porqué. Era la misma de cuando se habían conocido, la misma del día anterior, la misma de antes de cenar.
De repente se oyó un golpe sordo, ella gritó. Tapándose los ojos, se giró hacia él, intentando alejarse del lugar de donde había procedido el ruido. Él perdió el control del coche, apenas frenó pero fue suficiente para que patinaran unos metros. Cuando se pararon, habían virado y estaban de cara al bosque. Bajó la música y el silencio se hizo tan grande que logró cubrir el sonido de la lluvia. Ella se acercó hasta la puerta pero con un gesto rápido la cogió por un brazo. – Quédate aquí, quédate quieta.
Miró por el retrovisor pero no vio nada. Bloqueó las puertas y con un dedo le indicó que no hablara. Los faros apuntaban al bosque, estaba segura que no había nadie andando por el arcén.
- Ayer en un periódico…
- Por favor, no hables, si hemos atropellado a un animal es mejor que no le asustemos más.
¿Quedaba descartada la posibilidad que se tratara de un ser humano? Se sintió algo aliviada. La vista de los árboles le ayudó a calmarse, volvió a escuchar el agua. Reconocía las hojas de un roble, el haya y poco más. El artículo que había leído el día antes hablaba de un estudio llevado a cabo por distintos países, una investigación que había durado años y que finalmente había revelado cómo se portan los árboles cuando duermen. Para gravar los movimientos de las plantas, los científicos habían utilizado un láser durante las horas nocturnas; los resultados mostraban con extrema claridad que algunas ramas bajaban hasta diez centímetros. Era su manera de relajarse en las horas del descanso.
De repente, algo se movió entre las hojas; cuando se giró para mirar hacia la carretera él se dio cuenta que estaban rodeados por una familia de jabalís, tres eran pequeños. Puso en marcha el coche pero no lo movió, esperó que estuvieran un poco más lejos, dio la vuelta y cuando por fin alumbró el tramo de la carretera por donde acababan de pasar vio una mancha en el terreno.
Lentamente se alejaron y el animal más grande se quedó inmóvil mirándolos, los otros en cambio miraban hacia el bosque; el herido no debía de estar muy lejos.
Habría sido una locura bajar del coche. Tenía que confiar en lo que él le decía; además daba la sensación que supiera muy bien como portarse en estas ocasiones porque hasta ahora no había dudado ni un segundo sobre qué hacer. No había cobertura para llamar desde allí, pero en cuanto llegasen a la frontera, avisaría al agente forestal.
No faltaba mucho, la lluvia afortunadamente ya no caía tan insistente y la música había vuelto a sonar dentro del coche; una voz ronca, pausada, les presentaba la canción que escucharían ahora. Él volvía a tener su media sonrisa.
Ya conducían en un tramo más llano y la carretera poco a poco se hacía más ancha y el bosque menos espeso. Si el paisaje se estaba haciendo más dulce, quería decir que ellos también podrían empezar a decirse algo, contarse por fin una pequeña historia, reñirse de un chiste. O tan sólo mirarse a los ojos. Ella, por ejemplo, podía intentar otra vez contarle la historia de los árboles durmientes. Además, unos años antes, había leído un cuento sobre un señor perdido dentro de un bosque musical, entre un árbol río y un árbol trueno, un árbol allegro y el otro moderato… sin duda una historia muy graciosa para compartir. El autor la había dedicado a los que viven lejos de su patria.
Superaron una pequeña capilla con forma de torre y una verja de hierro que la cerraba; hacia la izquierda, en el lado donde él conducía, se empezaron a ver como unas manchas de vacío, unos huecos dentro de la vegetación. A medida que procedían, quedó claro que las ramas y los matorrales había sido cortados por alguien, no eran caprichos de la naturaleza.
En cuanto empezaron las curvas, los faros del coche iluminaron a un centenar de metros de la carretera una valla de alambre de púas. Debía ser bastante reciente, porque aún no crecía ninguna trepadora y el césped de alrededor estaba bien segado.
- Lo ponen para que no entren las malas hierbas.
Le parecieron cientos de miles de metros y, en cambio, llevaban tan sólo unos pocos minutos avanzando junto al alambre. Un lobo se había quedado atrapado en la valla, pero el coche no se paró. No podían atreverse a bajar justo ahora. Tampoco lo hicieron más tarde, delante del ciervo agonizante, ni cuando vieron las patas enredadas del corzo.
Pasaron la frontera sin que nadie les controlara los pasaporte. Las guardias les desearon unas buenas noches y les aconsejaron ir con cuidado porque al otro lado del túnel estaba a punto de irrumpir un temporal.


Text&Foto: Vita Boni © CapGazette
Junio 2016

Tornare o no. Cadice – Barcellona; Colombia – Valencia

Tornare o no

Finalmente imparò a leggere e a scrivere
Cadice - Barcellona

Mi ricordo del giorno in cui Dolores mi disse:
- Quando arrivai a Barcellona, dopo dieci minuti che ero sul tram, decisi che non sarei mai più ritornata.
Dolores era nata in un piccolo paese dell’Andalusia, nella provincia di Cadice, dove visse per qualche anno con la sua famiglia nel cortijo - la masseria - dei signori, lavorando nei campi fin dai dieci anni. I signori (in spagnolo, los señoritos) pagavano lo stipendio sotto forma di cibo e permettevano alla famiglia di vivere in una baracca, qualche volta gli davano poche monete.
Erano gli anni ‘60 del secolo scorso, Dolores non sapeva né leggere né scrivere; suo padre le diceva che non aveva i soldi per la scuola e che comunque una donna non aveva bisogno d'andarci. Furono queste le ragioni per cui quando Dolores arrivò un giorno a Barcellona, a sedici anni, per andare a trovare una sua zia, decise di non fare più ritorno a casa.
Qui trovò poi lavoro in una fabbrica dove finalmente imparò a leggere, a scrivere e a guadagnarsi uno stipendio e dove conobbe suo marito, col quale mise su famiglia.
Dolores è solo una dei tanti immigrati del sud della Spagna che dovettero lasciare la loro bella terra per poter vivere con dignità.
La storia continua: ancora oggi una cerchia ristretta di persone continua a pensare che il mondo sia soltanto proprietà loro.

Testo di © Joan Mateo
Mi facevano fantasticare di luoghi lontanissimi
Colombia - Valencia

Quando ero piccola mia nonna mi raccontava sempre la storia dei suoi vicini colombiani. Gabriela e Juan erano una coppia che viveva ormai da parecchi anni al piano sopra a quello dei miei nonni. Li ho sempre trovati gradevoli perché sempre avevano un sorriso in bocca e parlavano a lungo di luoghi esotici con i miei nonni quando si incontravano sul pianerottolo. Dato che Gabriela e Juan erano colombiani, questi luoghi esotici di cui parlavano erano tutti in Colombia.
Entrambi provenivano da famiglie contadine legate al mondo del cacao, le cui piantagioni si trovavano nel bel mezzo della Sierra Macarena. Le condizioni delle famiglie dei contadini della Sierra Macarena ad un certo punto erano peggiorate assai, dopo la crisi del cacao negli anni Cinquanta che aveva portato la povertà e costretto la gente a cercare un altro modo per tirare avanti e guadagnarsi da vivere. La maggioranza delle persone scelse l'emigrazione e Gabriela e Juan non furono un’eccezione.
Appena arrivati in Spagna non si trovarono bene né loro, né i tre figli con cui erano venuti e che ancora studiavano. Non conoscevano nessuno e non avevano parenti qui. Per questo scartarono la possibilità di abitare in una casa isolata in periferia e affittarono invece un appartamento in un condominio nel centro del paese, per fare più facilmente amicizia.
In questo condominio abitavano (ed ancora abitano) i miei nonni. Passò poco tempo e divennero amici. Stavano molto insieme, ricordo ancora quando andavo con i miei genitori a trovarli e quando d’estate facevo merenda con mia nonna, io seduta sulle scale all’aperto (si stava proprio bene lì fuori, col caldo che faceva!), molti di quei pomeriggi scendeva appunto nel nostro pianerottolo la signora Gabriela e ci raccontava storie bellissime del suo paese. Lei sapeva bene che mi piacevano moltissimo e che mi facevano fantasticare di luoghi lontanissimi.
Conosceva decine di storie, tuttavia io le chiedevo sempre che mi raccontasse di nuovo la stessa: quella che si svolgeva lungo il Caño Cristales, un fiume che della Sierra della Macarena. Questo, curiosamente, non era - anzi non è - un fiume fantastico, bensì reale. Perché dico "curiosamente"? Perché Caño Cristales, anche chiamato "fiume arcobaleno", è un fiume molto particolare, così bello da non sembrare vero. Le sue acque, grazie alle alghe e ai muschi, presentano da settembre a novembre colori vivacissimi, anche se quello che più si nota è il rosso.
Dopo aver vissuto trent’anni in Spagna, sebbene Gabriela e Juan alla fine fossero stati abbastanza felici, sentirono la voglia di ritornare al loro paese, per trascorrervi gli anni della vecchiaia. Ormai non si dovevano più preoccupare dei figli, già adulti e indipendenti; tra l’altro, per non smentire la tradizione di famiglia, tutti e tre erano andati all'estero a cercare lavoro. Insomma, quello che gli restava in Spagna erano tutte le amicizie che avevano fatto, alcune sui pianerottoli, come quella con i miei nonni. Era stata una decisione dura ma credevano che un ritorno fosse arrivato il momento di ritrovarsi con la loro gente e con la loro terra.
Adesso quando vado a trovare i miei nonni mi rattristo un po’ quando dalle scale guardo in alto e ricordo quelle merende e quelle chiacchiere che facevamo con i colombiani.
Alcuni mesi fa, i miei nonni hanno ricevuto una lettera che veniva d'oltremare. Quando gliel'ho letta i miei occhi si sono riempiti di lacrime di gioia: Gabriela raccontava piena di fierezza che i suoi figli li avevano raggiunti e avevano avviato un’attività dedicata alla raccolta e alla lavorazione del cacao, stavano insomma cercando di rilanciare l’economia della zona.
Alla fine si tratta di una bella storia, sembrava solo amara e invece, proprio come il cacao, alla fine…

Testo di © Marta Martínez

L’arte di comporre, l’arte di tradurre ● L’art de compondre, l’art de traduir

L'arte di comporre, l'arte di tradurre - L'art de compondre, l'art de traduir


Una poesia di Víctor Verdú e la nostra traduzione in italiano. In omaggio agli equilibri e alle misure tra i suoni e i segni.

Un poema de Víctor Verdú i la nostra traducció a l'italià. En homenatge als equilibris i a les mesures entre els sons i els signes.



aquesta nit
comença el món
la primavera
la carn, el déu
el temps, comences
tu, net, infant
aquesta nit
neix la muntanya
s’esquerda el cant
batega el mar
et converteixes
en rodamón
per fi desprès
de l’enfarfec
de cambres fosques
comença el verb
comença el gest
comença tot
des de l’arrel
fins a l’estel



stanotte
comincia il mondo
la primavera
la carne, il dio
il tempo, cominci
tu, nitido, neonato
stanotte
nasce la montagna
si sfalda il canto
batte il mare
ti trasformi
in giramondo
infine libero
dall’impaccio
di camere buie
comincia il verbo
comincia il gesto
comincia tutto
dalla radice
fino alla stella


Text: Víctor Verdú
Traduzione in italiano: Paolo Gravela
Foto: CapGazette
5/2016

Fuori dal continente. Romania – Londra; Barcellona – Maiorca – Buenos Aires

Fuori dal continente
Quanto si intristì all'andarsene dal suo paese
Romania-Londra


So di una storia curiosa di immigrazione della nonna di mia mamma che emigrò in Inghilterra centoventi anni fa. In realtà, credo che ci siano molte storie curiose dei miei antenati, tuttavia abbiamo perso questi racconti per il passare del tempo e per colpa della cattiva memoria dei miei.
Quindi parlerò di Rose Blumenfeld, nata il 28 dicembre 1888 e proveniente dalla Romania. Alla fine del secolo diciannovesimo, vista l'ondata crescente di antisemitismo nel continente, lei e molti altri ebrei europei, decisero di emigrare in un paese sicuro, anziché far andare tutto a rotoli, circondati com'erano da una popolazione che ne aveva disprezzo.
Stando a quanto dice mia madre, all’inizio del Novecento, essere un'immigrante nel nostro paese - l'Inghilterra - non era così facile nemmeno una volta entrati, perché lo stato voleva controllare tutti attraverso i documenti di registrazione e sapere sempre dove ognuno alloggiasse. Nonostante queste imposizioni, tutto ciò era per Rose più gradevole di quello che aveva provato nel continente e, dato che c’era una comunità molto numerosa di ebrei a Stamford Hill, un quartiere nella zona est di Londra, immigrarci aveva comunque avuto un senso. Era un quartiere dove si conservava la ricchezza della nostra cultura e in cui tutti badavano a tutti.
Io, qui a Barcellona, da inglese comodo comodo, con la mia esperienza di immigrazione moderna, non me la sento di criticare gli immigranti di oggi, sapendo quello che patì la mia bisnonna e quanto si intristì all’ andarsene dal suo paese di nascita nel pieno della sua giovinezza.
Mia madre mi racconta che vivevano tutti in un appartamento piccolo piccolo e che in tutti i luoghi per cui passava Rose doveva registrarsi presso la polizia locale. Abbiamo ancora i suoi documenti di quei tempi, documenti di registrazione per gli ‘aliens’, ovvero gli ‘immigranti’. Era ovviamente opprimente per lei dover registrarsi ovunque andasse, perché ciò che più desiderava non era essere trattata così, bensì essere libera di muoversi. Alla fine degli anni Sessanta, il governo smise finalmente di controllarli (gli immigranti) attraverso tanti documenti e lei poté viaggiare all’interno del paese.


Testo di © Eddy Michaels
Se ne andò a Maiorca a costruire il cinema
Barcellona-Maiorca-Buenos Aires


La storia dello zio Joan, il marito della sorella della mia bisnonna, non è per niente usuale. Lui era un saldatore di Barcellona quando, all'inizio del XXº secolo, non ce n'erano molti. Così se ne andò a Maiorca a costruire il cinema Augusta (vicino alla casa dei miei genitori, a Palma).
Tutto però se ne andò a rotoli con la guerra e lui, anziché ritornare a Barcellona, dovette diventare soldato e rimanere a Maiorca. Nonostante questo cambiamento di programma, per lui non fu una disgrazia, bensì una fortuna.
Un giorno, quando il suo squadrone passava per Llucmajor, un grande paese di Maiorca, egli vide due ragazze giovani, una delle quali stava cucendo. Andò verso di loro con un bottone e gli chiese se glielo potevano cucire sulla camicia. È così che conobbe la zia Francisca (in tutta la mia famiglia abbiamo lo stesso nome), una maestra di scuola.
All'inizio Francisca usciva con un uomo di Llucmajor, il suo paese e quello dei miei nonni. Tuttavia, si innamorò pazzamente di quel catalano saldatore e lasciò il “llucmajorer”, che non si sposò mai con nessun’altra.
Dopo la guerra, si trasferirono a Barcellona, si sposarono e ebbero una figlia. Però non si accontentarono di una vita tranquilla: decisero di vivere un'altra avventura.
Ma come finirono in Argentina?, vi chiederete. Dato che offrirono allo zio Joan un lavoro a Buenos Aires con una casa pagata e tutto bell'e pronto, non si può dire che partirono per scappare dalla povertà. Il lavoro di meccanico saldatore che avrebbe dovuto fare era in una fabbrica.
Vissero a Buenos Aires per molti anni e Joan vi fondò la sua di fabbrica e l'attività che aveva messo su diventò molto prospera, con più di cento persone impiegate.
Quando furono più vecchi, non se la sentirono di morire in un luogo che non era il loro e si rattristarono un po'. Quindi, alla fine, dopo essere andati in pensione, decisero di tornare a Maiorca per passarci la vecchiaia.
Lui morì a Palma una decina d'anni più tardi, nella sua terra amata.



Testo di © Francesca Vidal
Foto © Antonio Crialesi ● www.crialesi.it
Giugno 2016

Viaggio di sola andata. Burgos – La Bisbal; Jaén – Barcellona


Viaggio di sola andata

E lì fu mandato a dare buoni consigli ai contadini locali
Burgos - La Bisbal


Una storia d’immigrazione che mi piacerebbe raccontare è quella di mio suocero, Luis Prieto.
Nato a Burgos nel dopoguerra, nella sua giovinezza studiò prima nella sua città e dopo a San Sebastián e Navarra.
I suoi genitori, entrambi impiegati statali a Burgos, gli avevano consigliato di diventare ingegnere agronomo.
Dato che uno dei cinque figli avrebbe dovuto occuparsi delle proprietà della famiglia, avevano pensato proprio a lui. Non parliamo di possedimenti d’una ricchezza enorme, bensì d’una normale proprietà, anzi un po’ arida, in un piccolo paese della Tierra de Campos, vicino a Palencia, che sarebbe comunque stata in grado di dare da vivere, e pure abbastanza bene, a una famiglia.
Siccome nessuno dei figli se la sentiva di lavorare la terra, la tradizione agricola familiare se ne sarebbe andata a rotoli, se i genitori non avessero scelto lui. Anche se in quel paesino veramente non ci abitavano ogni giorno dell'anno, ma piuttosto d'estate, Luis fin da piccolo aveva molto amato quella terra.
E fu così che, seguendo il volere e la tradizione familiare e prima di trasferirsi definitivamente al villaggio, fece un esame per diventare ingegnere agronomo statale. La sorpresa arrivò quando, una volta superato l’esame, lo destinarono a La Bisbal, una località vicino a Girona e all'estremo est della Spagna e lì fu mandato a dare buoni consigli ai contadini locali; nessuno aveva davvero mai sospettato che lo potessero mandare in un posto che non fosse Burgos...
Stando così le cose, mio suocero, ormai rassegnato a andarsene da un'altra parte, acquistò subito un dizionario castigliano-catalano e fin dall’inizio cercò di integrarsi nella cultura locale e di parlare con gli agricoltori della zona nella loro propria lingua. Sebbene questo sembri normale oggi, nei primi anni sessanta (eravamo ancora nella Spagna franchista), non c’erano tanti impiegati statali spagnoli che lo facevano. Tutt'altro, molti volevano ritornare nella loro provincia il prima possibile.
Una volta appreso il catalano, Luis si innamorò d’una catalana. Ecco fatto! Matrimonio, figli, eccetera, eccetera...
Non pensò mai più di ritornare nel paesino della Castiglia, ma di diventare un vero catalano d’adozione.
Insomma, alla fine il progetto che per lui avevano pensato i suoi genitori era fallito, perché il ragazzo aveva seguito la sua strada.
Oggigiorno i campi nel bel paese della provincia di Burgos, venduti ormai da tempo, vengono ancora coltivati e chi se ne occupa è un cugino del protagonista di questa storia.




Testo di © Pere Gifra
Vide per la prima volta il suo primogenito in carcere
Jaén - Barcellona



Manuel nacque a Jaén nel 1915 e ha una strana storia di emigrazione, giacché non è stata la povertà o la ricerca di avventura quello che ha motivato il suo viaggio.
A causa del servizio militare fu trasferito a Barcellona e siccome suo padre era 'guardia civile', lui fu destinato allo stesso reggimento.
Mentre faceva ancora il servizio militare, nell'anno 1936 scoppiò la guerra civile e Manuel faceva parte di quella metà dei militari che erano stati fedeli alla repubblica; la qual cosa, insieme alle sue idee comuniste, gli avrebbe portato un bel po' di problemi.
Non era nei suoi piani rimanere a Barcellona, ma un po’ prima del colpo di stato, Manuel aveva conosciuto Maria, i cui genitori vedevano di cattivo occhio il loro rapporto perché la ragazza aveva lasciato un altro fidanzato apparentemente più equilibrato e stabile di Manuel. Nonostante questo fidanzamento non fosse per niente facile, da un lato per il confronto con la famiglia di lei e dall’altro per la situazione di conflitto sociale, la coppia andò comunque avanti per la propria strada. Manuel, che non si tirava facilmente indietro, si disse che Maria sarebbe stata sua moglie.
Manuel se ne andò al fronte di guerra poco dopo aver sposato Maria, che era incinta. Dopo pochi mesi egli venne arrestato dalla polizia e incarcerato nella prigione di Cadice, con l'accusa di ribellione (anche se lui sosteneva che i ribelli erano loro); più tardi fu trasferito a Barcellona, e in attesa di processo rimase nel carcere di Montjuïc per tre anni. Nel frattempo Maria aveva dato alla luce il suo primo figlio.
Manuel vide per la prima volta il suo primogenito in carcere, e una seconda volta nel processo in cui fu condannato a morte. Tuttavia un colpo di fortuna cambiò il destino della giovane famiglia: Manuel fu liberato ed uscì dalla prigione, a condizione che si presentasse ogni settimana in caserma.
Sebbene Manuel in qualche modo avesse iniziato un nuovo percorso di vita, come conseguenza dei tre anni senza libertà e della stretta sorveglianza a cui era soggetto, non ce la faceva a tirare avanti la famiglia; per fortuna Maria era una donna forte e ottimista, quindi lei badava a tutti e a tutto, senza mollare mai. Questa storia però non è sempre stata così tragica, ci furono dei bei momenti; la famiglia crebbe, Manuel recuperò la gioia di vivere, e anche la sua passione per la poesia, regalando alla famiglia un nuovo spirito che ancora oggi permane.
Manuel non se la sentì mai di tornare a Jaén, diceva sempre che Barcellona, la Catalogna, dove era arrivato quasi per caso, era il suo posto. Due ricordi sono ancora vivi nella mia memoria: mio nonno Manuel mentre mi legge poesie di Miguel Hernández e la sera della sua morte, mentre sussurrava: assassini, assassini. Mi intristisce, quando ci penso.

Testo di © Yolanda Olmos
Foto © CapGazette
Aprile 2016

Mercanti italiani a Cordova

José Antonio García Luján, ‘Mercanti italiani a Cordova (1470-1515)’
in memoriam Prof. Alberto Boscolo

Presentiamo qui una selezione di paragrafi del libro, che si può trovare e leggere presso la Biblioteca dell'Istituto Italiano di Cultura di Barcellona, dove si conservano, inoltre, altri curiosi volumi. La traduzione in italiano qui riportata non è che un tentativo di intendere e rendere quell'antica scrittura castigliana


L'archivio notarile cordovese ospita un'ingente quantità e varietà di notizie sulla storia della città di Cordova e della sua provincia da metà del XV secolo – il 1442 per l'esattezza – fino all'inizio del XX secolo.
Il corpus documentale che offriamo è composto da novanta atti notarili relativi a italiani, in gran parte mercanti, che per vari motivi ebbero a che fare con gli uffici degli scrivani cordovesi.

1475, ottobre 12.
Domenego Guasco, fiorentino, tintore di scarlatti, e Fernando, tintore, suo compare, abitanti di San Andrés, stipulano scrittura secondo la quale sono obbligati a dare a Juan García, cenciaiolo, tre panni tinti in color scarlatto, per i 40.000 maravedì che da tale avevano ricevuto.
FONTE: A.P.C., Ufficio 14, protocollo 8, quad. 6, foglio, 12r.


In Cordova in questo detto dì dodicesimo del detto mese di ottobre del detto anno / settanta e cinque, stipulano Domenego Guasco, fiorentino, tintore di scarlatti / e Ferrando, tintore, figlio di Bartolomé Sanches, tintore, compagni, abitanti in Santo Andres, / che devono dare in pagamento a Juan Garçia, cenciaiolo, figlio di Alonso Garçia, legnaiolo, che Dio l'abbia, abitante / in Santo Pedro, che è presente, tre panni, venti dozzine, tinti in color scarlatto, / colorati, fini, tali che si devon dare e prendere […]

1487, giugno 19.
Accordo di apprendistato di Rodrigo di Cordova con il maestro Polo, genovese, berrettaio, entrambi abitanti nella parrocchia di San Nicolás del Ajerquía, per tempo un anno e obbligo di questo di dargli da mangiare, letto e calzatura.
FONTE: A.P.C., Ufficio 18. Protocollo 1, fogli. 732v.-733r.


In Cordova, in questo detto dì, stipulò Rodrigo di Cordova, figlio di Alfonso / Mexía, che Dio l'abbia, abitante residente in questa città nella / parrocchia di Santo Nicolas de Axarquía, che entra come apprendista con maestro Polo , genovese, berrettaio, abitante nella detta /parrocchia, che è presente, affinché lo avvezzi e insegni il detto suo / mestiere di berrettaio da oggi fini a un anno primo che verrà, / e che gli dia nel detto tempo da mangiare e bere e letto in cui dormire / e le calzature di cui avesse bisogno e vita ragionevole che lo / possa trascorrere e che gli mostri a tingere in scarlatto e scuro. […]

1496, luglio 20.
Vicenzo di Venezia, fabbricante d'organi, stipula aver ricevuto da fra' García Durán, priore, e da fra' Alonso de Vico, vicario del monastero di San Paolo di Cordova, 25.000 maravedì fino al giorno della data e in acconto di quei che dovrebbe ricevere per la fattura di degli organi per il citato monastero.
FONTE: A.P.C., Ufficio 14, protocollo 30, quad. 20, foglio. 28r.-v.


Ricevuta di maravedì.
In Cordova ventesimo dì di luglio del novanta / e sei anni, Viçenzo di Venezia, organaio, / stipula che ha in suo possesso ricevuto dal / reverendo padre fra' Garçia Duran, priore di / San Paolo di Cordova, e da fra' Alonso de Vico, vica- / rio del detto monastero, e di altro per loro, / venticinque mila maravedì fino a oggi, detto dì della / data, come acconto e pagamento dei maravedì che egli /deve avere per la fattura degli organi che a- / desso fa in detto monastero; […]

1500, luglio 8.
Juan de Villalpando stipula scrittura di perdono a favore della sua sposa Catalina de Pineda, che aveva commesso adulterio con Onorato de Spíndora, Luis de Godoy e altre varie persone, a condizione che gli dia carta di separazione nel termine di due mesi.
FONTE: A.P.C., Ufficio 18, protocollo 7, fogli. 335v.-339r.


Perdono di corna.
Nel nome della Santissima Trinità, Padre e Figlio / Spirito Santo, tre persone e un solo Dio vero, / che vive e regna per sempre senza fine, e della / beata Vergine Gloriosa Nostra Signora / Santa Maria, sua madre, e di tutti i / santi e sante della corte e regno celestiale. / Poiché la debolezza umana fa gli uomini // (foglio 336r.) brevemente errare e dagli errori nascono imbrogli e / contende e inimicizie e grandi disaccordi, [...] Per tanto in conformità con il Santo Vangelo, tramite questa presente carta voglio che sappiano / quanti questa carta di perdono vedano che io, / Juan de Villalpando, figlio di Juan Rodrigues de Villa- / alpando, che Dio l'abbia, abitante della città / di Siviglia e abitante che soleva essere della molto / nobile e molto leale città di Cordova, conosco e / accordo a voi, Catalina de Pineda, mia legit- / tima sposa, figlia di Bartolome Ruis d’Escanno, / e a voi Onorado d’Espíndola, genovese, e a voi, / Luis de Godoy, figlio di Juan de Godoy, venti / e quattro di Cordova, e dico che per quanto a- /desso saranno forse due anni, poco più o poco meno / di tempo, che io essendo assente da questa città, / nel detto tempo, voi, la detta Catalina de Pineda, mia (sposa) // (fogli 336v.) in vituperio e disonore mio e del mio onore aveste commesso e commetteste adulteri / con i detti [...]

1502, aprile 20.
Cristóbal de Avila, abitante nella parrocchia di Santa Maria, stipula scrittura di caparra a favore di Simón Ruiz, fiorentino, abitante di El Carpio, e di Francisco, orologiai, che dovevano fare un orologio per la città di Ecija per il valore di 10.000 maravedì.
FONTE: A.P.C., Uficio 14, protocollo 5, quad. 23, foglio. 2r


Caparra. Orologio
In Cordua in questo detto dì si obbligò Christoual de Auila, contadino, / abitante in Santa María, e disse che in quanto Ximon Ruys, fiorentino, abitante di / Carpio, e Françisco, orologiai, sono obbligati a fare un orologio / per la città di Eçija per dieci mila maravedì in certo termine, / a tal scopo, stipulano che lo faranno secondo i termini e secondo che / sono obbligati a vista di maestri, e se non lo facessero, / che pagheranno i maravedì che avessero ricevuto [...].



José Antonio García Luján, ‘Mercaderes italianos en Córdoba (1470-1515)’, © Nuova Casa Editrice L. Cappelli, Bologna, 1988.
Foto: Vista di Cordova, Anónimo italiano del secolo XVI, Biblioteca Digital Hispánica.
Junio 2014
Traduzioni dei frammenti: Paolo Gravela

Mercaderes italianos en Córdoba

José Antonio García Luján, ‘Mercaderes italianos en Córdoba (1470-1515)’
in memoriam Prof. Alberto Boscolo

Presentamos aquí una selección de párrafos del libro, que se puede encontrar y leer en la Biblioteca del Instituto Italiano de Cultura de Barcelona, donde se conservan, además, otros curiosos volúmenes.


El archivo notarial cordobés alberga una ingente cantidad y variedad de noticias para la historia de la ciudad de Córdoba y su provincia desde mediados del siglo XV – 1442 exactamente – hasta principios del siglo XX.
El corpus documental que ofrecemos lo integran noventa actas notariales relativas a italianos, mercaderes en su mayoría, que por causa varia hicieron acto de presencia ante las escribanías cordobesas.

1475, octubre 12.
Domenego Guasco, florentino, tintorero de granas, y Fernando, tintorero, su compañero, vecinos de San Andrés, otorgan escritura por la que se obligan a dar a Juan García, trapero, tres paños teñidos de color de grana, por los 40.000 maravedís que de éste habían recibido.
FUENTE: A.P.C., Oficio 14, protocolo 8, cuad. 6, fol, 12r.


En Cordoua en este dicho día dose dias del dicho mes de otubre del dicho anno / de setenta e çinco, otorgan Domenego Guasco, florentyn, tintorero de granas / e Ferrando, tintorero, fijo de Bartolomé Sanches, tintorero, conpanneros, vesinos a Santo Andres, / que deven dar a pagar a Juan Garçia, trapero, fijo de Alonso Garçia, maderero, que Dios aya, vesino / a Santo Pedro, que es presente, tres pannos, veynte dosenas, tennidos de color grana, / colorados, finos, tales que se an de dar e tomar […]

1487, junio 19.
Concierto de aprendizaje de Rodrigo de Córdoba con el maestro Polo, genovés, bonetero, ambos vecinos en la collación de San Nicolás del Ajerquía, por tiempo de un año y obligación de éste de darle de comer, cama y calzado.
FUENTE: A.P.C., Oficio 18. Protocolo 1, fols. 732v.-733r.


En Cordua, en este dicho día, otorgó Rodrigo de Cordoua, fijo de Alfonso / Mexía, que Dios aya, vesino morador de esta çibdad en la / collaçion de Santo Nicolas de Axarquía, que entra por aprentis con maestro Polo , ginoues, bonetero, veçino en la dicha /collaçion, que es presente, para que le abese e ensenne el dicho su / ofiçio de bonetero desde oy fasta un anno primero que verná, / e que le dé en el dicho tienpo de comer e beuer e cama en que duerma / e los çapatos que ouiere menester e vida rasonable que lo / pueda pasar e que le muestre a tennir grana e prieto. […]

1496, julio 20.
Vicenzo de Venecia, organero, otorga haber recibido de fray García Durán, prior, y de fray Alonso de Vico, vicario del monasterio de San Pablo de Córdoba, 25.000 maravedís hasta el día de la fecha y a cuenta de los que habría de cobrar por la hechura de unos órganos para el citado monasterio.
FUENTE: A.P.C., Oficio 14, protocolo 30, cuad. 20, fol. 28r.-v.


Reçibo de marauedís.
En Cordoua veynte días de julio de nouenta / e seys annos, Viçenzo de Veneçia, organero, / otorgó que tiene en su poder reçebidos del / reuerendo padre fray Garçia Duran, prior de / Sant Pablo de Cordoua, e de fray Alonso de Vico, vica- / rio del dicho monasterio, e de otre por ellos, / veynte e çinco mill marauedís fasta oy, dicho día de la / fecha, para en cuenta e pago de los maravedís qu’él / a de auer por la fechura de los organos que a- / gora fase en el dicho monasterio; […]

1500, Julio 8.
Juan de Villalpando otorga escritura de perdón a favor de su mujer Catalina de Pineda, quien había cometido adulterio con Onorato de Spíndora, Luis de Godoy y otras varias personas, con la condición de que le dé carta de separación en el plazo de dos meses.
FUENTE: A.P.C., Oficio 18, protocolo 7, fols. 335v.-339r.


Perdon de cuernos.
En el nombre de la Santísima Trenidad, Padre e Fijo / Spíritu Santo, tres personas e vn solo Dios verdadero, / que biue e regna por syenpre syn fyn, e de la / bienaventurada Virge Gloriosa Nuestra Sennora / Santa María, su madre, e de todos lo / santos e santas de la corte e reyno çelestial. / Porque la flaqueza vmana fase a los onbres // (fol 336r.) breuemente errar e de los yerros nasçen enxetos e / contiendas e enemistades e grandes desacuerdos, [...] Por ende conformándome con el Santo Euangelio, por esta presente carta quiero que sepan / quantos esta carta de perdon vieren commo yo, / Juan de Villalpando, fijo de Juan Rodrigues de Villa- / alpando, que Dios aya, vesyno de la çibdad / de Sevilla e vesyno que solía ser de la muy / noble e muy leal çibdad de Cordua, conosco e / otorgo a vos, Catalina de Pineda, mi legi- / tima muger, fija de Bartolome Ruis d’Escanno, / e a vos Onorado d’Espíndola, ginoves, e a vos, / Luis de Godoy, fijo de Juan de Godoy, veynte / e quatro de Cordua, e digo que por quanto a- /gora puede aver dos anno, poco mas o menos / tienpo, que yo estando absente d’esta çibdad, / en el dicho tienpo, vos, la dicha Catalina de Pineda, mi (muger) // (fol 336v.) en vituperio e desonor mío e de mi honra ovistes cometido e cometistes adulterios / con lo dichos [...]

1502, abril 20.
Cristóbal de Avila, vecino en la collación de Santa María, otorga escritura de fianza a favor de Simón Ruiz, florentino, vecino de El Carpio, y de Francisco, relojeros, que debían hacer un reloj para la ciudad de Ecija por 10.000 maravedís.
FUENTE: A.P.C., Oficio 14, protocolo 5, cuad. 23, fol. 2r


Fiença. Relox
En Cordua en este dicho dia se obligó Christoual de Auila, labrador, / veçino a Santa María, e dixo que por quanto Ximon Ruys, florentino, veçino de / Carpio, e Françisco, relojeros, estan obligados de faser vn relox / para la çibdad d’Eçija por dies myll maravedís a cierto plaso, / por ende, otorgan que lo farán al plaso e segund que / estan obligados a vista de maestros, y sy non lo fisieren, / que pagará los maravedís que ouieren reçibido [...].



José Antonio García Luján, ‘Mercaderes italianos en Córdoba (1470-1515)’, © Nuova Casa Editrice L. Cappelli, Bologna, 1988.
Foto: Vista de Córdoba, Anónimo italiano del siglo XVI, Biblioteca Digital Hispánica.
Junio 2014