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Tornare o no. Cadice – Barcellona; Colombia – Valencia

Tornare o no

Finalmente imparò a leggere e a scrivere
Cadice - Barcellona

Mi ricordo del giorno in cui Dolores mi disse:
- Quando arrivai a Barcellona, dopo dieci minuti che ero sul tram, decisi che non sarei mai più ritornata.
Dolores era nata in un piccolo paese dell’Andalusia, nella provincia di Cadice, dove visse per qualche anno con la sua famiglia nel cortijo - la masseria - dei signori, lavorando nei campi fin dai dieci anni. I signori (in spagnolo, los señoritos) pagavano lo stipendio sotto forma di cibo e permettevano alla famiglia di vivere in una baracca, qualche volta gli davano poche monete.
Erano gli anni ‘60 del secolo scorso, Dolores non sapeva né leggere né scrivere; suo padre le diceva che non aveva i soldi per la scuola e che comunque una donna non aveva bisogno d'andarci. Furono queste le ragioni per cui quando Dolores arrivò un giorno a Barcellona, a sedici anni, per andare a trovare una sua zia, decise di non fare più ritorno a casa.
Qui trovò poi lavoro in una fabbrica dove finalmente imparò a leggere, a scrivere e a guadagnarsi uno stipendio e dove conobbe suo marito, col quale mise su famiglia.
Dolores è solo una dei tanti immigrati del sud della Spagna che dovettero lasciare la loro bella terra per poter vivere con dignità.
La storia continua: ancora oggi una cerchia ristretta di persone continua a pensare che il mondo sia soltanto proprietà loro.

Testo di © Joan Mateo
Mi facevano fantasticare di luoghi lontanissimi
Colombia - Valencia

Quando ero piccola mia nonna mi raccontava sempre la storia dei suoi vicini colombiani. Gabriela e Juan erano una coppia che viveva ormai da parecchi anni al piano sopra a quello dei miei nonni. Li ho sempre trovati gradevoli perché sempre avevano un sorriso in bocca e parlavano a lungo di luoghi esotici con i miei nonni quando si incontravano sul pianerottolo. Dato che Gabriela e Juan erano colombiani, questi luoghi esotici di cui parlavano erano tutti in Colombia.
Entrambi provenivano da famiglie contadine legate al mondo del cacao, le cui piantagioni si trovavano nel bel mezzo della Sierra Macarena. Le condizioni delle famiglie dei contadini della Sierra Macarena ad un certo punto erano peggiorate assai, dopo la crisi del cacao negli anni Cinquanta che aveva portato la povertà e costretto la gente a cercare un altro modo per tirare avanti e guadagnarsi da vivere. La maggioranza delle persone scelse l'emigrazione e Gabriela e Juan non furono un’eccezione.
Appena arrivati in Spagna non si trovarono bene né loro, né i tre figli con cui erano venuti e che ancora studiavano. Non conoscevano nessuno e non avevano parenti qui. Per questo scartarono la possibilità di abitare in una casa isolata in periferia e affittarono invece un appartamento in un condominio nel centro del paese, per fare più facilmente amicizia.
In questo condominio abitavano (ed ancora abitano) i miei nonni. Passò poco tempo e divennero amici. Stavano molto insieme, ricordo ancora quando andavo con i miei genitori a trovarli e quando d’estate facevo merenda con mia nonna, io seduta sulle scale all’aperto (si stava proprio bene lì fuori, col caldo che faceva!), molti di quei pomeriggi scendeva appunto nel nostro pianerottolo la signora Gabriela e ci raccontava storie bellissime del suo paese. Lei sapeva bene che mi piacevano moltissimo e che mi facevano fantasticare di luoghi lontanissimi.
Conosceva decine di storie, tuttavia io le chiedevo sempre che mi raccontasse di nuovo la stessa: quella che si svolgeva lungo il Caño Cristales, un fiume che della Sierra della Macarena. Questo, curiosamente, non era - anzi non è - un fiume fantastico, bensì reale. Perché dico "curiosamente"? Perché Caño Cristales, anche chiamato "fiume arcobaleno", è un fiume molto particolare, così bello da non sembrare vero. Le sue acque, grazie alle alghe e ai muschi, presentano da settembre a novembre colori vivacissimi, anche se quello che più si nota è il rosso.
Dopo aver vissuto trent’anni in Spagna, sebbene Gabriela e Juan alla fine fossero stati abbastanza felici, sentirono la voglia di ritornare al loro paese, per trascorrervi gli anni della vecchiaia. Ormai non si dovevano più preoccupare dei figli, già adulti e indipendenti; tra l’altro, per non smentire la tradizione di famiglia, tutti e tre erano andati all'estero a cercare lavoro. Insomma, quello che gli restava in Spagna erano tutte le amicizie che avevano fatto, alcune sui pianerottoli, come quella con i miei nonni. Era stata una decisione dura ma credevano che un ritorno fosse arrivato il momento di ritrovarsi con la loro gente e con la loro terra.
Adesso quando vado a trovare i miei nonni mi rattristo un po’ quando dalle scale guardo in alto e ricordo quelle merende e quelle chiacchiere che facevamo con i colombiani.
Alcuni mesi fa, i miei nonni hanno ricevuto una lettera che veniva d'oltremare. Quando gliel'ho letta i miei occhi si sono riempiti di lacrime di gioia: Gabriela raccontava piena di fierezza che i suoi figli li avevano raggiunti e avevano avviato un’attività dedicata alla raccolta e alla lavorazione del cacao, stavano insomma cercando di rilanciare l’economia della zona.
Alla fine si tratta di una bella storia, sembrava solo amara e invece, proprio come il cacao, alla fine…

Testo di © Marta Martínez

Fuori dal continente. Romania – Londra; Barcellona – Maiorca – Buenos Aires

Fuori dal continente
Quanto si intristì all'andarsene dal suo paese
Romania-Londra


So di una storia curiosa di immigrazione della nonna di mia mamma che emigrò in Inghilterra centoventi anni fa. In realtà, credo che ci siano molte storie curiose dei miei antenati, tuttavia abbiamo perso questi racconti per il passare del tempo e per colpa della cattiva memoria dei miei.
Quindi parlerò di Rose Blumenfeld, nata il 28 dicembre 1888 e proveniente dalla Romania. Alla fine del secolo diciannovesimo, vista l'ondata crescente di antisemitismo nel continente, lei e molti altri ebrei europei, decisero di emigrare in un paese sicuro, anziché far andare tutto a rotoli, circondati com'erano da una popolazione che ne aveva disprezzo.
Stando a quanto dice mia madre, all’inizio del Novecento, essere un'immigrante nel nostro paese - l'Inghilterra - non era così facile nemmeno una volta entrati, perché lo stato voleva controllare tutti attraverso i documenti di registrazione e sapere sempre dove ognuno alloggiasse. Nonostante queste imposizioni, tutto ciò era per Rose più gradevole di quello che aveva provato nel continente e, dato che c’era una comunità molto numerosa di ebrei a Stamford Hill, un quartiere nella zona est di Londra, immigrarci aveva comunque avuto un senso. Era un quartiere dove si conservava la ricchezza della nostra cultura e in cui tutti badavano a tutti.
Io, qui a Barcellona, da inglese comodo comodo, con la mia esperienza di immigrazione moderna, non me la sento di criticare gli immigranti di oggi, sapendo quello che patì la mia bisnonna e quanto si intristì all’ andarsene dal suo paese di nascita nel pieno della sua giovinezza.
Mia madre mi racconta che vivevano tutti in un appartamento piccolo piccolo e che in tutti i luoghi per cui passava Rose doveva registrarsi presso la polizia locale. Abbiamo ancora i suoi documenti di quei tempi, documenti di registrazione per gli ‘aliens’, ovvero gli ‘immigranti’. Era ovviamente opprimente per lei dover registrarsi ovunque andasse, perché ciò che più desiderava non era essere trattata così, bensì essere libera di muoversi. Alla fine degli anni Sessanta, il governo smise finalmente di controllarli (gli immigranti) attraverso tanti documenti e lei poté viaggiare all’interno del paese.


Testo di © Eddy Michaels
Se ne andò a Maiorca a costruire il cinema
Barcellona-Maiorca-Buenos Aires


La storia dello zio Joan, il marito della sorella della mia bisnonna, non è per niente usuale. Lui era un saldatore di Barcellona quando, all'inizio del XXº secolo, non ce n'erano molti. Così se ne andò a Maiorca a costruire il cinema Augusta (vicino alla casa dei miei genitori, a Palma).
Tutto però se ne andò a rotoli con la guerra e lui, anziché ritornare a Barcellona, dovette diventare soldato e rimanere a Maiorca. Nonostante questo cambiamento di programma, per lui non fu una disgrazia, bensì una fortuna.
Un giorno, quando il suo squadrone passava per Llucmajor, un grande paese di Maiorca, egli vide due ragazze giovani, una delle quali stava cucendo. Andò verso di loro con un bottone e gli chiese se glielo potevano cucire sulla camicia. È così che conobbe la zia Francisca (in tutta la mia famiglia abbiamo lo stesso nome), una maestra di scuola.
All'inizio Francisca usciva con un uomo di Llucmajor, il suo paese e quello dei miei nonni. Tuttavia, si innamorò pazzamente di quel catalano saldatore e lasciò il “llucmajorer”, che non si sposò mai con nessun’altra.
Dopo la guerra, si trasferirono a Barcellona, si sposarono e ebbero una figlia. Però non si accontentarono di una vita tranquilla: decisero di vivere un'altra avventura.
Ma come finirono in Argentina?, vi chiederete. Dato che offrirono allo zio Joan un lavoro a Buenos Aires con una casa pagata e tutto bell'e pronto, non si può dire che partirono per scappare dalla povertà. Il lavoro di meccanico saldatore che avrebbe dovuto fare era in una fabbrica.
Vissero a Buenos Aires per molti anni e Joan vi fondò la sua di fabbrica e l'attività che aveva messo su diventò molto prospera, con più di cento persone impiegate.
Quando furono più vecchi, non se la sentirono di morire in un luogo che non era il loro e si rattristarono un po'. Quindi, alla fine, dopo essere andati in pensione, decisero di tornare a Maiorca per passarci la vecchiaia.
Lui morì a Palma una decina d'anni più tardi, nella sua terra amata.



Testo di © Francesca Vidal
Foto © Antonio Crialesi ● www.crialesi.it
Giugno 2016

Viaggio di sola andata. Burgos – La Bisbal; Jaén – Barcellona


Viaggio di sola andata

E lì fu mandato a dare buoni consigli ai contadini locali
Burgos - La Bisbal


Una storia d’immigrazione che mi piacerebbe raccontare è quella di mio suocero, Luis Prieto.
Nato a Burgos nel dopoguerra, nella sua giovinezza studiò prima nella sua città e dopo a San Sebastián e Navarra.
I suoi genitori, entrambi impiegati statali a Burgos, gli avevano consigliato di diventare ingegnere agronomo.
Dato che uno dei cinque figli avrebbe dovuto occuparsi delle proprietà della famiglia, avevano pensato proprio a lui. Non parliamo di possedimenti d’una ricchezza enorme, bensì d’una normale proprietà, anzi un po’ arida, in un piccolo paese della Tierra de Campos, vicino a Palencia, che sarebbe comunque stata in grado di dare da vivere, e pure abbastanza bene, a una famiglia.
Siccome nessuno dei figli se la sentiva di lavorare la terra, la tradizione agricola familiare se ne sarebbe andata a rotoli, se i genitori non avessero scelto lui. Anche se in quel paesino veramente non ci abitavano ogni giorno dell'anno, ma piuttosto d'estate, Luis fin da piccolo aveva molto amato quella terra.
E fu così che, seguendo il volere e la tradizione familiare e prima di trasferirsi definitivamente al villaggio, fece un esame per diventare ingegnere agronomo statale. La sorpresa arrivò quando, una volta superato l’esame, lo destinarono a La Bisbal, una località vicino a Girona e all'estremo est della Spagna e lì fu mandato a dare buoni consigli ai contadini locali; nessuno aveva davvero mai sospettato che lo potessero mandare in un posto che non fosse Burgos...
Stando così le cose, mio suocero, ormai rassegnato a andarsene da un'altra parte, acquistò subito un dizionario castigliano-catalano e fin dall’inizio cercò di integrarsi nella cultura locale e di parlare con gli agricoltori della zona nella loro propria lingua. Sebbene questo sembri normale oggi, nei primi anni sessanta (eravamo ancora nella Spagna franchista), non c’erano tanti impiegati statali spagnoli che lo facevano. Tutt'altro, molti volevano ritornare nella loro provincia il prima possibile.
Una volta appreso il catalano, Luis si innamorò d’una catalana. Ecco fatto! Matrimonio, figli, eccetera, eccetera...
Non pensò mai più di ritornare nel paesino della Castiglia, ma di diventare un vero catalano d’adozione.
Insomma, alla fine il progetto che per lui avevano pensato i suoi genitori era fallito, perché il ragazzo aveva seguito la sua strada.
Oggigiorno i campi nel bel paese della provincia di Burgos, venduti ormai da tempo, vengono ancora coltivati e chi se ne occupa è un cugino del protagonista di questa storia.




Testo di © Pere Gifra
Vide per la prima volta il suo primogenito in carcere
Jaén - Barcellona



Manuel nacque a Jaén nel 1915 e ha una strana storia di emigrazione, giacché non è stata la povertà o la ricerca di avventura quello che ha motivato il suo viaggio.
A causa del servizio militare fu trasferito a Barcellona e siccome suo padre era 'guardia civile', lui fu destinato allo stesso reggimento.
Mentre faceva ancora il servizio militare, nell'anno 1936 scoppiò la guerra civile e Manuel faceva parte di quella metà dei militari che erano stati fedeli alla repubblica; la qual cosa, insieme alle sue idee comuniste, gli avrebbe portato un bel po' di problemi.
Non era nei suoi piani rimanere a Barcellona, ma un po’ prima del colpo di stato, Manuel aveva conosciuto Maria, i cui genitori vedevano di cattivo occhio il loro rapporto perché la ragazza aveva lasciato un altro fidanzato apparentemente più equilibrato e stabile di Manuel. Nonostante questo fidanzamento non fosse per niente facile, da un lato per il confronto con la famiglia di lei e dall’altro per la situazione di conflitto sociale, la coppia andò comunque avanti per la propria strada. Manuel, che non si tirava facilmente indietro, si disse che Maria sarebbe stata sua moglie.
Manuel se ne andò al fronte di guerra poco dopo aver sposato Maria, che era incinta. Dopo pochi mesi egli venne arrestato dalla polizia e incarcerato nella prigione di Cadice, con l'accusa di ribellione (anche se lui sosteneva che i ribelli erano loro); più tardi fu trasferito a Barcellona, e in attesa di processo rimase nel carcere di Montjuïc per tre anni. Nel frattempo Maria aveva dato alla luce il suo primo figlio.
Manuel vide per la prima volta il suo primogenito in carcere, e una seconda volta nel processo in cui fu condannato a morte. Tuttavia un colpo di fortuna cambiò il destino della giovane famiglia: Manuel fu liberato ed uscì dalla prigione, a condizione che si presentasse ogni settimana in caserma.
Sebbene Manuel in qualche modo avesse iniziato un nuovo percorso di vita, come conseguenza dei tre anni senza libertà e della stretta sorveglianza a cui era soggetto, non ce la faceva a tirare avanti la famiglia; per fortuna Maria era una donna forte e ottimista, quindi lei badava a tutti e a tutto, senza mollare mai. Questa storia però non è sempre stata così tragica, ci furono dei bei momenti; la famiglia crebbe, Manuel recuperò la gioia di vivere, e anche la sua passione per la poesia, regalando alla famiglia un nuovo spirito che ancora oggi permane.
Manuel non se la sentì mai di tornare a Jaén, diceva sempre che Barcellona, la Catalogna, dove era arrivato quasi per caso, era il suo posto. Due ricordi sono ancora vivi nella mia memoria: mio nonno Manuel mentre mi legge poesie di Miguel Hernández e la sera della sua morte, mentre sussurrava: assassini, assassini. Mi intristisce, quando ci penso.

Testo di © Yolanda Olmos
Foto © CapGazette
Aprile 2016

Mercaderes italianos en Córdoba

José Antonio García Luján, ‘Mercaderes italianos en Córdoba (1470-1515)’
in memoriam Prof. Alberto Boscolo

Presentamos aquí una selección de párrafos del libro, que se puede encontrar y leer en la Biblioteca del Instituto Italiano de Cultura de Barcelona, donde se conservan, además, otros curiosos volúmenes.


El archivo notarial cordobés alberga una ingente cantidad y variedad de noticias para la historia de la ciudad de Córdoba y su provincia desde mediados del siglo XV – 1442 exactamente – hasta principios del siglo XX.
El corpus documental que ofrecemos lo integran noventa actas notariales relativas a italianos, mercaderes en su mayoría, que por causa varia hicieron acto de presencia ante las escribanías cordobesas.

1475, octubre 12.
Domenego Guasco, florentino, tintorero de granas, y Fernando, tintorero, su compañero, vecinos de San Andrés, otorgan escritura por la que se obligan a dar a Juan García, trapero, tres paños teñidos de color de grana, por los 40.000 maravedís que de éste habían recibido.
FUENTE: A.P.C., Oficio 14, protocolo 8, cuad. 6, fol, 12r.


En Cordoua en este dicho día dose dias del dicho mes de otubre del dicho anno / de setenta e çinco, otorgan Domenego Guasco, florentyn, tintorero de granas / e Ferrando, tintorero, fijo de Bartolomé Sanches, tintorero, conpanneros, vesinos a Santo Andres, / que deven dar a pagar a Juan Garçia, trapero, fijo de Alonso Garçia, maderero, que Dios aya, vesino / a Santo Pedro, que es presente, tres pannos, veynte dosenas, tennidos de color grana, / colorados, finos, tales que se an de dar e tomar […]

1487, junio 19.
Concierto de aprendizaje de Rodrigo de Córdoba con el maestro Polo, genovés, bonetero, ambos vecinos en la collación de San Nicolás del Ajerquía, por tiempo de un año y obligación de éste de darle de comer, cama y calzado.
FUENTE: A.P.C., Oficio 18. Protocolo 1, fols. 732v.-733r.


En Cordua, en este dicho día, otorgó Rodrigo de Cordoua, fijo de Alfonso / Mexía, que Dios aya, vesino morador de esta çibdad en la / collaçion de Santo Nicolas de Axarquía, que entra por aprentis con maestro Polo , ginoues, bonetero, veçino en la dicha /collaçion, que es presente, para que le abese e ensenne el dicho su / ofiçio de bonetero desde oy fasta un anno primero que verná, / e que le dé en el dicho tienpo de comer e beuer e cama en que duerma / e los çapatos que ouiere menester e vida rasonable que lo / pueda pasar e que le muestre a tennir grana e prieto. […]

1496, julio 20.
Vicenzo de Venecia, organero, otorga haber recibido de fray García Durán, prior, y de fray Alonso de Vico, vicario del monasterio de San Pablo de Córdoba, 25.000 maravedís hasta el día de la fecha y a cuenta de los que habría de cobrar por la hechura de unos órganos para el citado monasterio.
FUENTE: A.P.C., Oficio 14, protocolo 30, cuad. 20, fol. 28r.-v.


Reçibo de marauedís.
En Cordoua veynte días de julio de nouenta / e seys annos, Viçenzo de Veneçia, organero, / otorgó que tiene en su poder reçebidos del / reuerendo padre fray Garçia Duran, prior de / Sant Pablo de Cordoua, e de fray Alonso de Vico, vica- / rio del dicho monasterio, e de otre por ellos, / veynte e çinco mill marauedís fasta oy, dicho día de la / fecha, para en cuenta e pago de los maravedís qu’él / a de auer por la fechura de los organos que a- / gora fase en el dicho monasterio; […]

1500, Julio 8.
Juan de Villalpando otorga escritura de perdón a favor de su mujer Catalina de Pineda, quien había cometido adulterio con Onorato de Spíndora, Luis de Godoy y otras varias personas, con la condición de que le dé carta de separación en el plazo de dos meses.
FUENTE: A.P.C., Oficio 18, protocolo 7, fols. 335v.-339r.


Perdon de cuernos.
En el nombre de la Santísima Trenidad, Padre e Fijo / Spíritu Santo, tres personas e vn solo Dios verdadero, / que biue e regna por syenpre syn fyn, e de la / bienaventurada Virge Gloriosa Nuestra Sennora / Santa María, su madre, e de todos lo / santos e santas de la corte e reyno çelestial. / Porque la flaqueza vmana fase a los onbres // (fol 336r.) breuemente errar e de los yerros nasçen enxetos e / contiendas e enemistades e grandes desacuerdos, [...] Por ende conformándome con el Santo Euangelio, por esta presente carta quiero que sepan / quantos esta carta de perdon vieren commo yo, / Juan de Villalpando, fijo de Juan Rodrigues de Villa- / alpando, que Dios aya, vesyno de la çibdad / de Sevilla e vesyno que solía ser de la muy / noble e muy leal çibdad de Cordua, conosco e / otorgo a vos, Catalina de Pineda, mi legi- / tima muger, fija de Bartolome Ruis d’Escanno, / e a vos Onorado d’Espíndola, ginoves, e a vos, / Luis de Godoy, fijo de Juan de Godoy, veynte / e quatro de Cordua, e digo que por quanto a- /gora puede aver dos anno, poco mas o menos / tienpo, que yo estando absente d’esta çibdad, / en el dicho tienpo, vos, la dicha Catalina de Pineda, mi (muger) // (fol 336v.) en vituperio e desonor mío e de mi honra ovistes cometido e cometistes adulterios / con lo dichos [...]

1502, abril 20.
Cristóbal de Avila, vecino en la collación de Santa María, otorga escritura de fianza a favor de Simón Ruiz, florentino, vecino de El Carpio, y de Francisco, relojeros, que debían hacer un reloj para la ciudad de Ecija por 10.000 maravedís.
FUENTE: A.P.C., Oficio 14, protocolo 5, cuad. 23, fol. 2r


Fiença. Relox
En Cordua en este dicho dia se obligó Christoual de Auila, labrador, / veçino a Santa María, e dixo que por quanto Ximon Ruys, florentino, veçino de / Carpio, e Françisco, relojeros, estan obligados de faser vn relox / para la çibdad d’Eçija por dies myll maravedís a cierto plaso, / por ende, otorgan que lo farán al plaso e segund que / estan obligados a vista de maestros, y sy non lo fisieren, / que pagará los maravedís que ouieren reçibido [...].



José Antonio García Luján, ‘Mercaderes italianos en Córdoba (1470-1515)’, © Nuova Casa Editrice L. Cappelli, Bologna, 1988.
Foto: Vista de Córdoba, Anónimo italiano del siglo XVI, Biblioteca Digital Hispánica.
Junio 2014

Il carrettiere

Il carrettiere
(o un sogno esotico in tempi crudeli e disincantati)



Non molto lontano dalla casa di Lucas, a Sartamea, abitavano dei ragazzi stranieri “in cerca di buona fortuna”. Lucas fumava spesso con loro. Una sera di primavera, quasi estate, dopo cena, si attardarono sulla porta del loro piano terra vicino al mare, nel quartiere dei pescatori e dei trafficanti. La notte era fresca, le chiacchiere erano calate col buio, restavano frasi mozze e boccate di fumo. Si era parlato di progetti, di intenzioni.
- Dicono i cinesi che davanti agli occhi abbiamo il passato, e dietro il culo il futuro; il futuro è trasparenza, pura trasparenza: un vetro smerigliato, una cortina d'acqua.
Prima di dormire Lucas fece due passi fino alla spiaggia. Silenzio. Buio. Mare. I pensieri parevano dilatati, distratti, poggiavano ovattati sui passi lenti. Nel cielo nero le nuvole erano barbe bianche e filosofe, visi e busti di cotone alla luce della luna.
- Voi, barbe bianche in cielo, affermazioni, gesti d'aria, camuffamenti, giostre di sbuffi, da dove venite? Dove andate?
Colui che a Lucas sembrò apostrofare, o interpellare, il borbottare del cielo alle tre di notte era un anziano carrettiere. Inclinato in avanti, poggiato su un bastone, il passo instabile, tremulo, trascinava il suo carretto nella notte sartamina come arrivato dalla luna.
Invece no. Non veniva dalla luna. Davanti agli occhi stupiti di Lucas, le nuvole disegnarono in cielo la mappa di un possibile percorso, nomi evocativi, strade di commerci antichi: prima un quartiere di baracche di Phnom Penh; poi Imphal, Agra, Jammu e Samarcanda; poi ancora Bamiyan, Mazar-i Sharif, Herat, Teheran; infine Aleppo, Smirne e Istanbul.
Il carrettiere portava oggetti smarriti, segni muti, di una lingua ormai lontana; i piedi sporchi di una strada fatta camminando e di distanze misurate in metri.
Stava bene, fece segno che stava bene. Aveva mille anni e tutto sommato ancora camminava, a piccoli passi, in questa città straniera. I baffi irti del gatto, il pizzo a punta. A Lucas venne da chiedergli di Marco Polo, di Vasco da Gama. Che diavolo di idee da… marinaio. Sullo sfondo, slanciato su una colonna, Cristoforo Colombo indicava il mare.
[sin]
[fa]
[ra]
O davvero era venuto a piedi, pensò Lucas, oppure dalle parti di Bagdad qualcuno gli deve aver prestato un tappeto volante o roba del genere, dicendogli:
- Dove andate, signore?
- In Europa, da mio figlio.
- Ma guardi che è lontana!
- Che importa?
- Tenete, allora, per il vostro viaggio. Ve lo presto. Al ritorno, me lo renderete
Il vecchio avrà sicuramente sorriso, sotto la luna di Bagdad - perché è famosa la luna di Bagdad -, poi avrà caricato il tappeto sul suo carretto e ringraziato: shukran jasilan.
- Ma no, signore! È il carretto che dovete caricare sul tappeto, non il contrario!
Questi arabi, aveva certo pensato il carrettiere, sono davvero gentili, ma testardi come muli.
Allora, per educazione, un’antica educazione, il carrettiere sarà salito sul tappeto col suo carretto: giusto per qualche chilometro, avrà pensato, poi scendo.
Poi infatti era sceso, perché imparare a volare a una certa età è un'impertinenza:
- Io cammino per terra, giovane uomo, il cielo lo lascio alla luna e alle nuvole barbute.
E le nuvole barbute, per ringraziarlo, gli avevano indicato la strada per Sartamea.


Text: Lino Graz (racconti di Sartamea)
Foto (Lettere arabe sin, fa, ra, radici del campo semantico del "viaggio"): Lino Graz
CapGazette 4/2016

Gesuiti in Paraguai

Gesuiti in Paraguai

Dicono che ci siano solo tre cose che Dio non sa:
1- Quanto sono gli ordini monastici femminili.
2- Quante scuole hanno fondato i salesiani.
3- Che cosa pensa un gesuita.
A queste ne aggiungerei una quarta, forse meno spiritosa ma un briciolo apocalittica:
4- Quanti libri sono stati scritti dai figlioli suoi, quelli della Genesi e capitoli successivi, pupille dei suoi occhi.


Mi immagino allora un Dio in pigiama, ormai dimenticato da tutti e lui stesso dimentico delle sorti delle suddette pupille, comodamente seduto sull’Universo (che ha forma di biblioteca, infinita), i piedi al caldo in un paio di galassie morbide come calzettoni, immerso, alla fioca luce di una quasar-abatjour, nella lettura di tutto quello che è stato scritto su papiro, pergamena e carta, o in pdf, in sumero, sanscrito, etrusco (poca roba), aramaico, greco, latino, guaranì, arabo, bantù e sassone nei secoli dei secoli. Dio mio! Esclama ogni tanto, sorpreso da tanto ingegno che non credeva d’aver creato…

Nel nostro piccolo universo tascabile, una nuova immersione nelle grotte sottomarine della biblioteca dell’Istituto Italiano di Cultura di Barcellona ha dato nuovi frutti: Il cristianesimo felice nelle missioni dei padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai, di Ludovico Antonio Muratori, archivista, bibliotecario (anche lui!), padre della storiografia italiana, pubblicato per la prima volta nel 1743 e poi successivamente molte altre volte fino all’edizione di Sellerio del 1985 che è finita nelle rete da pesca di CapGazette.
Il libro racconta con molta attenzione della stagione dei Gesuiti in Paraguai, le loro imprese, le loro difficoltà, i loro errori, le loro scoperte, la loro presunzione e la loro umiltà, i conflitti con gli Indios, con le amministrazioni coloniali spagnola e portoghese e con i famigerati Mammalucchi, feroci cacciatori di schiavi da vendere a proprietari delle piantagioni brasiliane.

Qualcuno forse ricorderà un film del 1986, The Mission, con Rober De Niro e Jeremy Irons, sullo stesso tema. Riportiamo qui un breve passo del libro in cui il Muratori narra del talento musicale degli Indios, non inferiore a quello di Ennio Morricone, autore della colonna sonora del film.

Della musica degli Indiani del Paraguai

È degna di essere qui registrata un’altra invenzione di gran riguardo per nutrire ed accrescere la devozione dei nuovi fedeli americani, ed anche per attirare gli infedeli alla vera religione e a unirsi agli altri nelle Riduzioni già fondate. Questa invenzione consiste nella musica, di cui quegli industriosi missionari hanno spesso sufficiente cognizione e taluno ne sa anche a perfezione. È incredibile l’inclinazione naturale che quei popoli posseggono nell’armonia […] oltre alla suddetta inclinazione, in essi si trova una mirabile abilità per la musica delle voci e degli strumenti musicali, cioè una predisposizione per apprendere tutto ciò che spetta al canto e al suono. Hanno ottime voci, e a renderle tali, e anche più armoniose che in altri paesi, concorrono le acque del fiume Paranà e Uruguai, perché non bevono altro che acqua sana e pura […]. Quello che è più mirabile è che in Europa non vi è forse strumento musicale che non sia stato introdotto e che non si suoni tra questi buoni Indiani, come l’organo, la chitarra, l’arpa, la spinetta, il liuto, il violino, il violoncello, il trombone, il cornetto, l’oboe e altri simili. E tali strumenti non solo vengono da essi usati delicatamente, ma addirittura fabbricati dalle loro stesse mani […].

Frammento da Ludovico Antonio Muratori (1672-1750):
Il cristianesimo felice nelle missioni dei padri della Compagnia di Gesù in Paraguai.



Intro: Paolo Gravela
Illustrazioni angelo stilita e angelo in volo: Albert Àlvarez
Foto (Piverone, Gesiun, particolare): Lino Graz
CapGazette 3/2016

Carlo Cattaneo, India, Messico, Cina

Geografia Comparata / Carlo Cattaneo

Girovagavo per la meravigliosa e purtroppo poco nota biblioteca dell’Istituto Italiano di Cultura di Barcellona, quando mi sono imbattuto in un piccolo libro dalla copertina color nebbia: Carlo Cattaneo, India, Messico, Cina, edito nel 1942 da Valentino Bompiani. Ne riporto qui un primo frammento in cui lo studioso confronta la geografia indiana con quella italiana, in modo non tanto diverso da come ognuno di noi fa (o faceva, in epoca a.G., avanti Google) quando torna da un viaggio in un luogo esotico: “Calcutta è un po’ come Venezia, ma più…”, “Bombay - perdon, Mumbai - ricorda Livorno, se non fosse…”.

Mi sono pure cimentato - collezionista appassionato e ossessivo di parole, passate, presenti e future - a tradurlo in spagnolo e in catalano, faticando assai a districarmi tra i nomi geografici che Cattaneo italianizza fino a renderli irriconoscibili (la sua Nerbussa resta un enigma indecifrabile. Avrà voluto indicare l’attuale Narmada, Narbada o Nerbudda? E i Seichi coi loro turbanti? Mica male, no?). Ho dovuto, naturalmente, fare delle scelte discutibili. Spero mi perdonerete il ghiribizzo.
L’India è come l’Italia, ma più gigantesca…

[…] La penisola indostanica rammenta sotto certi aspetti naturali, sebbene con superficie dieci volte maggiore, l’Italia. Anch’essa ha le sue Alpi, ma eccelse il doppio e stese da levante a ponente con arco quattro volte più vasto: anch’essa protende tra due mari una catena d’Appennini; l’indole fluviale del Gange simiglia a quella del Po; il Bramaputra raffigura l’Adige; la Nerbussa l’Arno; l’Indo gira intorno agli Imalai come il Rodano alle Alpi; l’altipiano dei Seichi e di Casmira potrebbe compararsi a quello dell’Elvezia, come quello dei Rageputi al Piemonte, le campagna d’Agra e di Benares alla Lombardia, la laguna veneta al Bengala, i monti dei Maratti alla Liguria e all’Etruria, le lande del Coromandel al tavoliere dell’Apulia, il Malabar alle riviera della Calabria, e l’isola di Ceilan, se non giacesse verso levante, alla Sicilia. In pari modo fra i paesi circostanti all’India, l’Afgania potrebbe assimigliarsi per la sua posizione alla Francia, la Persia alla Spagna, il corso navigabile dell’Oxo, al di là degli Imalai verso la Bocaria e la Chivia, al corso del Reno. […]

Frammento da Carlo Cattaneo (1801-1869): India, Messico, Cina.
La India es como Italia, pero más gigantesca…

[…] La península indostánica recuerda por ciertos rasgos naturales, aunque con superficie diez veces mayor, a Italia. Ella también tiene sus Alpes, pero excelsos el doble y extendidos desde levante hacia poniente con un arco cuatro veces más ancho: ella también despliega entre dos mares una cordillera de Apeninos; el índole fluvial del Ganges se parece a la del Po; el Brahmaputra representa al Adigio; el Narmada al Arno; el Indo gira alrededor del Himalaya como el Ródano alrededor de los Alpes; el altiplano de los Sijies y de Cachemira podría compararse al de Helvecia, como el de Rajastán a Piamonte, el campo de Agra y de Benarés a Lombardía, la laguna de Véneto a Bengala, los montes de los Marathas a Liguria y Etruria, las landas de Coromandel a la meseta de Apulia, Malabar a la costa de Calabria, y la isla de Ceilán, si no yaciera hacía levante, a Sicilia. De la misma manera entre los países que rodean India, Afganistán podría parecerse por su posición a Francia, Persia a España, el recorrido navegable del Oxus (actual Amu Daria), más allá del Himalaya hacia Bujará y Jiva, al recorrido del Rin. […]

Fragmento de Carlo Cattaneo (1801-1869): India, México, China.
L’Índia és com Italia, però més gegantina…

[…] La península indostànica recorda per alguns trets naturals, encara que amb superfície deu vegades major, Italia. Ella també té els seus Alps, però excelsos el doble i estesos des de llevant cap a ponent amb un arc quatre vegades més ample: ella també desplega entre dos mars una serralada d’Apenins; l’índole fluvial del Ganges s’asssembla a la del Po; el Brahmaputra representa l’Adige; el Narmada l’Arno; l’Indus gira al voltant de l’Himàlaia com el Roine al voltant dels Alps; l’altiplà dels Sikhs i de Caixmir es podria comparar al d’Helvècia, com el de Rajasthan a Piemont, el camp d’Agra i de Benarés a Llombardia, la llaguna de Vèneto a Bengala, els monts dels Marathas a Ligúria i Etrúria, les landes de Coromandel a l’altiplà de Pulla, Malabar a la costa de Calabria, i l’illa de Ceylon, si no jagués cap a llevant, a Sicília. De la mateixa manera entre els països que envolten l’Índia, l’Afganistan podria semblar-se per la seva posició a França, Persia a Espanya, el recorregut navegable de l’Oxus (actual Amudarià), més enllà de l’Himàlaia cap a Bukharà i Khivà, al recorregut del Rin. […]

Fragment de Carlo Cattaneo (1801-1869): Índia, Mèxic, Xina.
Intro & trad: Paolo Gravela
Foto: British Library, free copyright.
CapGazette 2015

La fine

La fine

Quando Beppo Sansilvestro udì le campane, non essendo ancora mezzogiorno, smise subito di arare e tese l’orecchio ai rintocchi. In effetti suonavano a morto.
Quando Silvano Saverio, commesso viaggiatore di bottoni, passò davanti al portoncino dietro la chiesa, Don Mauro aveva appena attaccato l’epigrafe sotto la Madonna dei Dolori, ma siccome il Saverio non era del posto e non sapeva che così si annunciassero i defunti in paese, non tirò dritto e si avvicinò incuriosito a leggere l’avviso.
Quando Maria Garvatella si fermò non capì un bel niente. Non sapeva chi veramente fosse quel Giancarlo Maria Barbarese di 90 anni che una fotografia piccola piccola mostrava da giovanotto, con baffi sottili e uniforme militare.
Quando Gennaro Baruzzo, barbiere, la raggiunse, dedussero tutti insieme dall’indirizzo che quello non poteva che essere Cacà, il fabbro ferraio.
Quando passò il ragioniere Gonzaga Gazzarrini con sua moglie donna Mariolina a braccetto, lo confermarono. Non per niente lei era un’informatissima figlia di notaio, nonché parente lontana della vedova.
Ad essere sinceri, nessuno sapeva con certezza se Cacà e il defunto Barbarese fossero la medesima persona.

Solo i più vecchi del paese se la ricordavano quella storia accaduta tanti anni prima.
Tale Giancarlo Maria Barbarese, ingegnere di opere civili venuto da Milano in occasione di importanti scavi nella Magna Grecia, era comparso in quelle zone, mentre cercava un luogo dove riposarsi. Di lavoro ne aveva fatto parecchio, tant’è che aveva appena fatto una magnifica scoperta archeologica di cui tutti i giornali dell’epoca parlarono. Certo è che alla fine a ben altro che riposarsi si dedicò: incapace di starsene con le mani in mano, non smise di ricercare e scavare finché non sposò Evangelia Negri.
Era costei la figlia ancor zitella del farmacista Antonino Negri, ovvero l’ereditiera di una considerevole fortuna che proveniva dalla famiglia dalla defunta sposa del Negri. La storia si ripeteva.

Il matrimonio Barbarese Negri non fu mai benedetto da prole, sarà stato molto probabilmente questo il motivo principale per cui la povera Evangelia era precipitata in un’esistenza cupa e soffocante. Tutt’altro successe al Barbarese, poiché una volta capito che la vita gli risparmiava la responsabilità di diventare padre, si ributtò freneticamente in questioni di scavi e musei. In continuo andirivieni tra gli uni e gli altri, su e giù per la penisola, il Signor Giancarlo non disdegnava fermate intermedie in letti e case di dubbiosa reputazione, anzi di indubbia cattiva reputazione. Evangelia taceva e sopportava con rassegnazione le offese e faceva finta di niente quando incrociava per strada quelle pettegole.
Un bel giorno, e quello seguente, e quello dopo ancora, il Barbarese sparì nel nulla. O meglio: non fece più ritorno. Si diceva, chi per scherzo e chi sul serio, che avesse trovato il più grande tesoro del Mediterraneo, ma nessuno seppe mai né dove né quando. Man mano che passavano i giorni, i pettegolezzi più maligni svanirono, ed Evangelia abbandonò l’attesa e i ricordi; ritornò zitella.

Vent’anni dopo, qualcuno le bussò alla porta, entrò e si sedette nella poltrona del salotto, senza salutarla né dire niente. Era un uomo vecchio, magro, dallo sguardo diffidente, dal viso stanco. Evangelia lo accolse, lo tenne per sé e disse a tutti che suo marito era infine arrivato da una lunga missione in terre lontane. Quel vecchio di lì a poco cominciò a fare il ferraio. Se quello fosse stato davvero il Barbarese o no, per la verità una certa sua aria ce l’aveva, nessuno lo seppe mai con certezza.
Tutti si afflissero per il decesso del Barbarese, ché in fondo una celebrità come lui quel posto non l’aveva mai avuta e in più quella storia dell’identità del vecchio dava ancora di che parlare e non era poco in tempi in cui non succedeva più nulla, in anni di noia.

Solo uno dei paesani si sarebbe assai rallegrato per quella morte, se si fosse trovato lì con loro e con Don Mauro. Si chiamava Giovanni Becaro e faceva il veterinario a Matera: lui sì che era stato sempre perdutamente innamorato di Evangelia. Fin da fanciullo, quando erano vicini di casa, le andava dietro tutto il giorno, ogni giorno, su e giù dovunque lei andasse, lei però non lo aveva mai degnato della minima attenzione. Quando alcuni anni dopo comparve l'ingegner Barbarese, con quel suo fare da gran signore del Nord, Giovanni capì che era arrivato il momento di metterci una pietra sopra, fu un colpo duro. Tuttavia, siccome il primo amore non si scorda mai, appena venne a sapere che il Barbarese era scomparso, da gentiluomo qual era, fece passare un po’ di tempo, per prudenza, e poi decise di provare di nuovo a convincere Evangelia. Un giorno le si presentò con una scatola di cioccolatini comprati a Napoli e benedetti da San Gennaro; un altro le portò un mazzolino di occhietti della Madonna raccolti sulla strada di Ferrandina, di ritorno dalla casa dello zio Pasqualino, dove era stato a curargli la mucca migliore. Quei fiori però Evangelia li aveva messi sotto la fotografia del marito scomparso. Insomma, tutti i suoi tentativi andarono nuovamente a vuoto e in giro non lo si vide più.

Ma rieccolo infine: dietro la bara, che fosse quella del fabbro o dell'ingegnere ormai poco importava, con Evangelia di nero vestita c’era anche lui, il veterinario Becaro. E con lui Beppo Sansilvestro, Mariolina e il ragioniere Gonzaga Gazzarini, Don Mauro, Maria Garvatella, il barbiere Gennaro Baruzzo e persino il commesso viaggiatore, desideroso pure lui di far parte di una storia appena narratagli.


Text: © Sílvia Gasull, Pedro Ribosa, Josep Tuñi
Foto: dipinto di Giovanni Fattori
CapGazette Ottobre 2015

Cordova

 
 
Federico García Lorca
 
Canción de jinete

Córdoba.
Lejana y sola.

Jaca negra, luna grande,
y aceitunas en mi alforja.
Aunque sepa los caminos
yo nunca llegaré a Córdoba.

Por el llano, por el viento,
jaca negra, luna roja.
La muerte me está mirando
desde las torres de Córdoba.

¡Ay qué camino tan largo!
¡Ay mi jaca valerosa!
¡Ay que la muerte me espera,
antes de llegar a Córdoba!

Córdoba.
Lejana y sola.
Canzone del cavaliere

Cordova.
Lontana e sola.

Cavalla nera, luna grande,
e olive nella mia bisaccia.
Per quanto conosca le strade
non arriverò mai a Cordova.

Per il piano, per il vento,
cavalla nera, luna rossa.
La morte mi sta guardando
dalle torri di Cordova.

Ahi che la strada è lunga!
Ahi mia cavalla coraggiosa!
Ahi che la morte mi aspetta,
prima di arrivare a Cordova!

Cordova.
Lontana e sola.
La traduzione

Ancora una volta tradurre poesia si svela, in un primo momento, avvilente. Le parole di una lingua non sono mai adatte alle parole di un'altra lingua. Ma ecco che lasciandole sedimentare, germogliare, nell'udito e nella mente, si illuminano di luce nuova: le frontiere linguistiche sfumano, e ogni lingua diventa tutte le lingue, l'unica lingua universale.
Jorge Luis Borges si dichiarava contrario alla traduzione della Divina Commedia in spagnolo (o del Chisciotte in italiano, fa lo stesso), perché, diceva, alimenta la superstizione che lo spagnolo e l'italiano siano due lingue diverse. Lo trovo geniale, ma vorrei andare ancora oltre, perché per me la traduzione è un'arte, direi, manuale, che intesse, come fosse di vimini, la lingua del mondo.
Cordova

Riguardo a Cordova, è senz'altro una città di evocazioni letterarie e/o esotiche; non per niente José Ortega y Gasset la paragonava a un roseto capovolto, con le radici in aria e i fiori sotto terra.
Eppure, perché no? Perché non rivalutare la letteratura esotica e la poesia proprio in questi tempi superficiali e violenti, di plastica e sangue, di guerre e deportazioni, di cinismi e materialismi sordidi e di comodo? E chi vi legge ingenuità abbia vergogna della propria complicità.

Propongo quindi Cordova, la sua storia, e la letteratura in genere, come baluardi in difesa delle origini spurie del mondo.


Vorrei dedicare questa pagina alla mia insegnante di italiano del Liceo, la professoressa Ceresa, che proprio questo testo di Federico García Lorca volle proporci come tema in classe nei pessimi anni ottanta del secolo scorso. Una donna coraggiosa.


Poesia: Federico García Lorca
Traduzione, note e foto di Cordova: Lino Graz
CapGazette 9/2015

Postman’s Park. Londra ⎜Postman’s Park Londres

The Postman’s Park, Londra

Un discorso, ben fatto, sui ritmi della città di Londra spetta di diritto a chi ci vive o a chi bene la conosce; io che ci passo qualche giorno in vacanza sono solamente in grado di dire che questa frenesia che ho attorno è travolgente, appassionante, talvolta addirittura esilarante. Tuttavia dall’ilarità allo spavento il passo spesso è piccolo; ammettiamolo: in certi momenti questa velocità sfinisce e preoccupa anche solo a guardarla da una certa distanza. Ora la distanza è quella di chi va lentamente, si riposa su una panchina o siede al tavolino di un bar senza fretta, senza obblighi.
Grazie a Dio Londra offre a tutti, vacanzieri o no, anche un’inifinità di luoghi all’aperto in cui interrompere la marcia rapida, temporeggiare, sostare; spesso si tratta di giardini, parchi, anche cimiteri. Quiet corners. Eccone qui uno.
Se vi capitasse di trovarvi dalle parti della cattedrale di Sant Paul, già dentro i confini della City della capitale britannica, potreste rintanarvi per un po’ al Postman’s Park.
Fino al 1912, anno della sua demolizione, si trovava a pochi passi da qui la sede centrale del General Post Office del Regno Unito e il nostro ‘parco del postino’ deve il suo nome proprio al fatto che nella pausa pranzo i suoi lavoratori si incontravano qui. Una volta entrati i rumori si attutiscono e il ritmo cardiaco nostro e dell’intera città rallentano.
La piccola loggia che appare in uno dei lati del parco è il Memorial to Heroic Self Sacrifice voluto dal pittore e scultore simbolista George Frederick Watts e inaugurato il 30 luglio del 1900. In occasione del 50º anniversario dell’incoronazione della regina Vittoria, Watts aveva proposto al comune di Londra di festeggiare la ricorrenza con la costruzione di un monumento dedicato agli eroi sconosciuti, ovvero alla gente comune che aveva perso la propria vita per salvarne una altrui. Il pittore era convinto che il ricordo di quelle morti potesse fornire ai suoi concittadini un modello di comportamento e un esempio di rettitudine da seguire. In una lettera inviata al Times nel settembre del 1887 Watts scriveva: «It must surely be a matter of regret when names worthy to be remembered and stories stimulating and instructive are allowed to be forgotten. It is not too much to say that the history of Her Majesty's reign would gain a lustre were the nation to erect a monument, say, here in London, to record the names of these likely to be forgotten heroes.»
La proposta, che inizialmente prevedeva la costruzione all’interno di Hyde Park di una specie di camposanto coi nomi degli eroi incisi su una lunga parete di marmo, non venne mai presa in seria considerazione; nonostante ciò George e la moglie Mary non abbandonarono l’idea.
Mentre iniziava a donare alcune delle sue opere alla Tate e si dedicava alla costruzione della Watts Gallery a sud-ovest di Londra, il pittore continuava infatti a conservare tutti i ritagli di giornale in cui si parlasse della morte disgraziata, ma pur sempre eroica, di un londinese. Poi, quando finalmente nell’estate del 1900, quattro anni prima della sua di morte, Watts realizzò il suo particolare camposanto la loggia commemorava in realtà solo quattro di quelle vittime esemplari; solo negli anni successivi ne furono aggiunte altre cinquanta. Il nome e la causa della morte degli ‘eroi di ogni giorno’ sono scritti su piastrelle in ceramica, alcune decorate dall'artista William De Morgan (1839-1917), altre opera dei ceramisti della Doulton of Lambeth.
Nel rispetto delle intenzioni di Watts, ne leggeremo alcune, contribuendo a strappare all’anonimato questi comuni salvatori, e metti mai che ci riesca pure di illuderci che quando fra poco ci ributteremo nel via vai della City, trai velocipedissimi londinesi, avremo anche noi a fianco il nostro eroe pronto a soccorrerci.
The Postman's Park, Londres

Un discurso, bien hecho, sobre los ritmos de la ciudad de Londres merece la autoría de quien en ella vive o, por lo menos, de quien bien la conoce, yo que paso aquí algunos días de mis vacaciones sólo podré decir que el frenesí que me rodea es impetuoso, apasionante, incluso hilarante. Sin embargo, de la hilaridad al susto, el paso puede ser muy corto y habrá que admitir que este vaivén de velocidades a veces extenúa o tal vez preocupa, aunque se observe desde cierta distancia. Ahora mismo es la distancia de quien anda lentamente, descansa en un banco sin prisa alguna, sin obligaciones.
Ya saben que, afortunadamente, Londres también ofrece a todos una infinidad de lugares al aire libre donde detenerse, tomar tiempo, interrumpir la marcha rápida. A menudo se trata de jardines, parques, tal vez cementerios. Quiet corners. Aquí va uno.
Si un día se encontraran en la zona de la catedral de San Pablo, ya dentro de los límites de la City, les aconsejaría que se escondieran durante unos minutos en el Postman’s Park. Hasta el 1912, año de su demolición, a poca distancia de aquí se hallaba la Oficina Central del General Post Office del Reino Unido y, de hecho, nuestro ‘parque del cartero’ se define así porque era aquí donde sus empleados se encontraban a la hora de comer. Una vez en el interior, los ruidos se amortiguan y el ritmo cardiaco nuestro y de la ciudad entera ralentizan. La pequeña galería que aparece en uno de los lados del parque es el ‘Memorial to Heroic Self Sacrifice’, ideado por el pintor y escultor simbolista George Frederick Watts.
En ocasión del 50º aniversario de la coronación de la reina Victoria, Watts había propuesto al ayuntamiento de Londres que se celebrara la fecha con la edificación de un monumento dedicado a aquellos héroes desconocidos que habían perdido su vida para salvar otra. El pintor estaba convencido que el recuerdo de aquellos muertos proporcionaría a sus conciudadanos un modelo de comportamiento y un ejemplo de rectitud que valdría la pena seguir. En una carta que envió al Times en septiembre de 1887, Watts comentaba: «It must surely be a matter of regret when names worthy to be remembered and stories stimulating and instructive are allowed to be forgotten. It is not too much to say that the history of Her Majesty's reign would gain a lustre were the nation to erect a monument, say, here in London, to record the names of these likely to be forgotten heroes.»
Su propuesta, que inicialmente preveía que se construyera en Hyde Park un camposanto con los nombres de los desaparecidos gravados sobre una larga pared de mármol, nunca se tomó verdaderamente en cuenta. Sin embargo, él y su mujer Mary no abandonaron su idea. Mientras empezaba a donar algunas de sus obras a la Tate Gallery y se dedicaba a la nueva Watts Gallery que estaba surgiendo al sur oeste de Londres, el pintor seguía guardando los recortes de los diarios donde se narraba la muerte desgraciada, pero igualmente heroica, de un londinense.
En realidad, más tarde, cuando por fin su peculiar camposanto se realizó e inauguró en el verano de 1900, en la galería sólo se conmemoraban cuatro de aquellas ejemplares víctimas; en los años siguientes, fueron añadidos unos cincuenta nombres más. El nombre del fallecido y la causa de su muerte se escribieron sobre azulejos, algunos decorados por el artista William De Morgan (1839-1917), otros producidos por los alfareros de la famosa ‘Doulton of Lambeth’.
Respetando las voluntades del señor Watts, leeremos algunos, contribuyendo de tal manera a rescatar del anonimato unos humildes salvadores y nunca se sabe, tal vez nos sirva también para convencernos de que cuando llegue el momento de salir de aquí tendremos a nuestro héroe al lado, entre esos rapidísimos londoners
«Soloman Galaman, deceduto all’età di 11 anni, in seguito alla ferite riportate per salvare il fratellino che rischiava di essere investito sulla Commercial Street: “Madre, ho salvato lui, ma non sono riuscito a salvare me stesso” - 6 Settembre 1901»
«Frederick Alfred Croft, ispettore, deceduto all’età di 31 anni, travolto da un treno alla stazione di Woolwich dopo aver salvato dal suicidio una donna malata di mente - 11 gennaio 1878»
«Ernest Benning, tipografo, deceduto all’età di 22 anni in una notte buia, dopo essere caduto da una barca all’altezza di Pimlico ed aver salvato una donna che sorreggeva con un braccio mentre con l’altro ancora si aggrappava ad un remo. - 25 agosto 1883»
«Richard Farris, manovale, deceduto per annegamento dopo essersi gettato in acqua nel tentativo di salvare una povera ragazza buttatasi nel canale presso il Globe Bridge - 20 Maggio 1878».
«Soloman Galaman, fallecido a los 11 años, después de ser atropellado mientras salvaba a su hermanito en Commercial Street: “Madre, le he salvado a él, pero no he logrado salvarme a mi mismo” - 6 de septiembre de 1901»
«Frederick Alfred Croft, inspector, fallecido a los 31 años, atropellado por un tren en la estación de Woolwich, después de evitar el suicidio de una mujer débil de mente - 11 de enero de 1878»
«Ernest Benning, tipógrafo, fallecido a los 22 años en una noche obscura, después de caer de su barco a la altura de Pimlico y salvar a una mujer que sustentaba con el brazo derecho mientras que con el otro se agarraba a un remo - 25 de agosto de 1883»
«Richard Farris, peón, fallecido por ahogamiento después de lanzarse en el canal con el intento de salvar a una pobre chica en la zona Globe Bridge - 20 de mayo de 1878».


Text & Foto: Baldassar Perruccio @ CapGazette
Settembre · Septiembre 2015