Posts Tagged: vivere altrove

Tornare o no. Cadice – Barcellona; Colombia – Valencia

Tornare o no

Finalmente imparò a leggere e a scrivere
Cadice - Barcellona

Mi ricordo del giorno in cui Dolores mi disse:
- Quando arrivai a Barcellona, dopo dieci minuti che ero sul tram, decisi che non sarei mai più ritornata.
Dolores era nata in un piccolo paese dell’Andalusia, nella provincia di Cadice, dove visse per qualche anno con la sua famiglia nel cortijo - la masseria - dei signori, lavorando nei campi fin dai dieci anni. I signori (in spagnolo, los señoritos) pagavano lo stipendio sotto forma di cibo e permettevano alla famiglia di vivere in una baracca, qualche volta gli davano poche monete.
Erano gli anni ‘60 del secolo scorso, Dolores non sapeva né leggere né scrivere; suo padre le diceva che non aveva i soldi per la scuola e che comunque una donna non aveva bisogno d'andarci. Furono queste le ragioni per cui quando Dolores arrivò un giorno a Barcellona, a sedici anni, per andare a trovare una sua zia, decise di non fare più ritorno a casa.
Qui trovò poi lavoro in una fabbrica dove finalmente imparò a leggere, a scrivere e a guadagnarsi uno stipendio e dove conobbe suo marito, col quale mise su famiglia.
Dolores è solo una dei tanti immigrati del sud della Spagna che dovettero lasciare la loro bella terra per poter vivere con dignità.
La storia continua: ancora oggi una cerchia ristretta di persone continua a pensare che il mondo sia soltanto proprietà loro.

Testo di © Joan Mateo
Mi facevano fantasticare di luoghi lontanissimi
Colombia - Valencia

Quando ero piccola mia nonna mi raccontava sempre la storia dei suoi vicini colombiani. Gabriela e Juan erano una coppia che viveva ormai da parecchi anni al piano sopra a quello dei miei nonni. Li ho sempre trovati gradevoli perché sempre avevano un sorriso in bocca e parlavano a lungo di luoghi esotici con i miei nonni quando si incontravano sul pianerottolo. Dato che Gabriela e Juan erano colombiani, questi luoghi esotici di cui parlavano erano tutti in Colombia.
Entrambi provenivano da famiglie contadine legate al mondo del cacao, le cui piantagioni si trovavano nel bel mezzo della Sierra Macarena. Le condizioni delle famiglie dei contadini della Sierra Macarena ad un certo punto erano peggiorate assai, dopo la crisi del cacao negli anni Cinquanta che aveva portato la povertà e costretto la gente a cercare un altro modo per tirare avanti e guadagnarsi da vivere. La maggioranza delle persone scelse l'emigrazione e Gabriela e Juan non furono un’eccezione.
Appena arrivati in Spagna non si trovarono bene né loro, né i tre figli con cui erano venuti e che ancora studiavano. Non conoscevano nessuno e non avevano parenti qui. Per questo scartarono la possibilità di abitare in una casa isolata in periferia e affittarono invece un appartamento in un condominio nel centro del paese, per fare più facilmente amicizia.
In questo condominio abitavano (ed ancora abitano) i miei nonni. Passò poco tempo e divennero amici. Stavano molto insieme, ricordo ancora quando andavo con i miei genitori a trovarli e quando d’estate facevo merenda con mia nonna, io seduta sulle scale all’aperto (si stava proprio bene lì fuori, col caldo che faceva!), molti di quei pomeriggi scendeva appunto nel nostro pianerottolo la signora Gabriela e ci raccontava storie bellissime del suo paese. Lei sapeva bene che mi piacevano moltissimo e che mi facevano fantasticare di luoghi lontanissimi.
Conosceva decine di storie, tuttavia io le chiedevo sempre che mi raccontasse di nuovo la stessa: quella che si svolgeva lungo il Caño Cristales, un fiume che della Sierra della Macarena. Questo, curiosamente, non era - anzi non è - un fiume fantastico, bensì reale. Perché dico "curiosamente"? Perché Caño Cristales, anche chiamato "fiume arcobaleno", è un fiume molto particolare, così bello da non sembrare vero. Le sue acque, grazie alle alghe e ai muschi, presentano da settembre a novembre colori vivacissimi, anche se quello che più si nota è il rosso.
Dopo aver vissuto trent’anni in Spagna, sebbene Gabriela e Juan alla fine fossero stati abbastanza felici, sentirono la voglia di ritornare al loro paese, per trascorrervi gli anni della vecchiaia. Ormai non si dovevano più preoccupare dei figli, già adulti e indipendenti; tra l’altro, per non smentire la tradizione di famiglia, tutti e tre erano andati all'estero a cercare lavoro. Insomma, quello che gli restava in Spagna erano tutte le amicizie che avevano fatto, alcune sui pianerottoli, come quella con i miei nonni. Era stata una decisione dura ma credevano che un ritorno fosse arrivato il momento di ritrovarsi con la loro gente e con la loro terra.
Adesso quando vado a trovare i miei nonni mi rattristo un po’ quando dalle scale guardo in alto e ricordo quelle merende e quelle chiacchiere che facevamo con i colombiani.
Alcuni mesi fa, i miei nonni hanno ricevuto una lettera che veniva d'oltremare. Quando gliel'ho letta i miei occhi si sono riempiti di lacrime di gioia: Gabriela raccontava piena di fierezza che i suoi figli li avevano raggiunti e avevano avviato un’attività dedicata alla raccolta e alla lavorazione del cacao, stavano insomma cercando di rilanciare l’economia della zona.
Alla fine si tratta di una bella storia, sembrava solo amara e invece, proprio come il cacao, alla fine…

Testo di © Marta Martínez

Fuori dal continente. Romania – Londra; Barcellona – Maiorca – Buenos Aires

Fuori dal continente
Quanto si intristì all'andarsene dal suo paese
Romania-Londra


So di una storia curiosa di immigrazione della nonna di mia mamma che emigrò in Inghilterra centoventi anni fa. In realtà, credo che ci siano molte storie curiose dei miei antenati, tuttavia abbiamo perso questi racconti per il passare del tempo e per colpa della cattiva memoria dei miei.
Quindi parlerò di Rose Blumenfeld, nata il 28 dicembre 1888 e proveniente dalla Romania. Alla fine del secolo diciannovesimo, vista l'ondata crescente di antisemitismo nel continente, lei e molti altri ebrei europei, decisero di emigrare in un paese sicuro, anziché far andare tutto a rotoli, circondati com'erano da una popolazione che ne aveva disprezzo.
Stando a quanto dice mia madre, all’inizio del Novecento, essere un'immigrante nel nostro paese - l'Inghilterra - non era così facile nemmeno una volta entrati, perché lo stato voleva controllare tutti attraverso i documenti di registrazione e sapere sempre dove ognuno alloggiasse. Nonostante queste imposizioni, tutto ciò era per Rose più gradevole di quello che aveva provato nel continente e, dato che c’era una comunità molto numerosa di ebrei a Stamford Hill, un quartiere nella zona est di Londra, immigrarci aveva comunque avuto un senso. Era un quartiere dove si conservava la ricchezza della nostra cultura e in cui tutti badavano a tutti.
Io, qui a Barcellona, da inglese comodo comodo, con la mia esperienza di immigrazione moderna, non me la sento di criticare gli immigranti di oggi, sapendo quello che patì la mia bisnonna e quanto si intristì all’ andarsene dal suo paese di nascita nel pieno della sua giovinezza.
Mia madre mi racconta che vivevano tutti in un appartamento piccolo piccolo e che in tutti i luoghi per cui passava Rose doveva registrarsi presso la polizia locale. Abbiamo ancora i suoi documenti di quei tempi, documenti di registrazione per gli ‘aliens’, ovvero gli ‘immigranti’. Era ovviamente opprimente per lei dover registrarsi ovunque andasse, perché ciò che più desiderava non era essere trattata così, bensì essere libera di muoversi. Alla fine degli anni Sessanta, il governo smise finalmente di controllarli (gli immigranti) attraverso tanti documenti e lei poté viaggiare all’interno del paese.


Testo di © Eddy Michaels
Se ne andò a Maiorca a costruire il cinema
Barcellona-Maiorca-Buenos Aires


La storia dello zio Joan, il marito della sorella della mia bisnonna, non è per niente usuale. Lui era un saldatore di Barcellona quando, all'inizio del XXº secolo, non ce n'erano molti. Così se ne andò a Maiorca a costruire il cinema Augusta (vicino alla casa dei miei genitori, a Palma).
Tutto però se ne andò a rotoli con la guerra e lui, anziché ritornare a Barcellona, dovette diventare soldato e rimanere a Maiorca. Nonostante questo cambiamento di programma, per lui non fu una disgrazia, bensì una fortuna.
Un giorno, quando il suo squadrone passava per Llucmajor, un grande paese di Maiorca, egli vide due ragazze giovani, una delle quali stava cucendo. Andò verso di loro con un bottone e gli chiese se glielo potevano cucire sulla camicia. È così che conobbe la zia Francisca (in tutta la mia famiglia abbiamo lo stesso nome), una maestra di scuola.
All'inizio Francisca usciva con un uomo di Llucmajor, il suo paese e quello dei miei nonni. Tuttavia, si innamorò pazzamente di quel catalano saldatore e lasciò il “llucmajorer”, che non si sposò mai con nessun’altra.
Dopo la guerra, si trasferirono a Barcellona, si sposarono e ebbero una figlia. Però non si accontentarono di una vita tranquilla: decisero di vivere un'altra avventura.
Ma come finirono in Argentina?, vi chiederete. Dato che offrirono allo zio Joan un lavoro a Buenos Aires con una casa pagata e tutto bell'e pronto, non si può dire che partirono per scappare dalla povertà. Il lavoro di meccanico saldatore che avrebbe dovuto fare era in una fabbrica.
Vissero a Buenos Aires per molti anni e Joan vi fondò la sua di fabbrica e l'attività che aveva messo su diventò molto prospera, con più di cento persone impiegate.
Quando furono più vecchi, non se la sentirono di morire in un luogo che non era il loro e si rattristarono un po'. Quindi, alla fine, dopo essere andati in pensione, decisero di tornare a Maiorca per passarci la vecchiaia.
Lui morì a Palma una decina d'anni più tardi, nella sua terra amata.



Testo di © Francesca Vidal
Foto © Antonio Crialesi ● www.crialesi.it
Giugno 2016

Viaggio di sola andata. Burgos – La Bisbal; Jaén – Barcellona


Viaggio di sola andata

E lì fu mandato a dare buoni consigli ai contadini locali
Burgos - La Bisbal


Una storia d’immigrazione che mi piacerebbe raccontare è quella di mio suocero, Luis Prieto.
Nato a Burgos nel dopoguerra, nella sua giovinezza studiò prima nella sua città e dopo a San Sebastián e Navarra.
I suoi genitori, entrambi impiegati statali a Burgos, gli avevano consigliato di diventare ingegnere agronomo.
Dato che uno dei cinque figli avrebbe dovuto occuparsi delle proprietà della famiglia, avevano pensato proprio a lui. Non parliamo di possedimenti d’una ricchezza enorme, bensì d’una normale proprietà, anzi un po’ arida, in un piccolo paese della Tierra de Campos, vicino a Palencia, che sarebbe comunque stata in grado di dare da vivere, e pure abbastanza bene, a una famiglia.
Siccome nessuno dei figli se la sentiva di lavorare la terra, la tradizione agricola familiare se ne sarebbe andata a rotoli, se i genitori non avessero scelto lui. Anche se in quel paesino veramente non ci abitavano ogni giorno dell'anno, ma piuttosto d'estate, Luis fin da piccolo aveva molto amato quella terra.
E fu così che, seguendo il volere e la tradizione familiare e prima di trasferirsi definitivamente al villaggio, fece un esame per diventare ingegnere agronomo statale. La sorpresa arrivò quando, una volta superato l’esame, lo destinarono a La Bisbal, una località vicino a Girona e all'estremo est della Spagna e lì fu mandato a dare buoni consigli ai contadini locali; nessuno aveva davvero mai sospettato che lo potessero mandare in un posto che non fosse Burgos...
Stando così le cose, mio suocero, ormai rassegnato a andarsene da un'altra parte, acquistò subito un dizionario castigliano-catalano e fin dall’inizio cercò di integrarsi nella cultura locale e di parlare con gli agricoltori della zona nella loro propria lingua. Sebbene questo sembri normale oggi, nei primi anni sessanta (eravamo ancora nella Spagna franchista), non c’erano tanti impiegati statali spagnoli che lo facevano. Tutt'altro, molti volevano ritornare nella loro provincia il prima possibile.
Una volta appreso il catalano, Luis si innamorò d’una catalana. Ecco fatto! Matrimonio, figli, eccetera, eccetera...
Non pensò mai più di ritornare nel paesino della Castiglia, ma di diventare un vero catalano d’adozione.
Insomma, alla fine il progetto che per lui avevano pensato i suoi genitori era fallito, perché il ragazzo aveva seguito la sua strada.
Oggigiorno i campi nel bel paese della provincia di Burgos, venduti ormai da tempo, vengono ancora coltivati e chi se ne occupa è un cugino del protagonista di questa storia.




Testo di © Pere Gifra
Vide per la prima volta il suo primogenito in carcere
Jaén - Barcellona



Manuel nacque a Jaén nel 1915 e ha una strana storia di emigrazione, giacché non è stata la povertà o la ricerca di avventura quello che ha motivato il suo viaggio.
A causa del servizio militare fu trasferito a Barcellona e siccome suo padre era 'guardia civile', lui fu destinato allo stesso reggimento.
Mentre faceva ancora il servizio militare, nell'anno 1936 scoppiò la guerra civile e Manuel faceva parte di quella metà dei militari che erano stati fedeli alla repubblica; la qual cosa, insieme alle sue idee comuniste, gli avrebbe portato un bel po' di problemi.
Non era nei suoi piani rimanere a Barcellona, ma un po’ prima del colpo di stato, Manuel aveva conosciuto Maria, i cui genitori vedevano di cattivo occhio il loro rapporto perché la ragazza aveva lasciato un altro fidanzato apparentemente più equilibrato e stabile di Manuel. Nonostante questo fidanzamento non fosse per niente facile, da un lato per il confronto con la famiglia di lei e dall’altro per la situazione di conflitto sociale, la coppia andò comunque avanti per la propria strada. Manuel, che non si tirava facilmente indietro, si disse che Maria sarebbe stata sua moglie.
Manuel se ne andò al fronte di guerra poco dopo aver sposato Maria, che era incinta. Dopo pochi mesi egli venne arrestato dalla polizia e incarcerato nella prigione di Cadice, con l'accusa di ribellione (anche se lui sosteneva che i ribelli erano loro); più tardi fu trasferito a Barcellona, e in attesa di processo rimase nel carcere di Montjuïc per tre anni. Nel frattempo Maria aveva dato alla luce il suo primo figlio.
Manuel vide per la prima volta il suo primogenito in carcere, e una seconda volta nel processo in cui fu condannato a morte. Tuttavia un colpo di fortuna cambiò il destino della giovane famiglia: Manuel fu liberato ed uscì dalla prigione, a condizione che si presentasse ogni settimana in caserma.
Sebbene Manuel in qualche modo avesse iniziato un nuovo percorso di vita, come conseguenza dei tre anni senza libertà e della stretta sorveglianza a cui era soggetto, non ce la faceva a tirare avanti la famiglia; per fortuna Maria era una donna forte e ottimista, quindi lei badava a tutti e a tutto, senza mollare mai. Questa storia però non è sempre stata così tragica, ci furono dei bei momenti; la famiglia crebbe, Manuel recuperò la gioia di vivere, e anche la sua passione per la poesia, regalando alla famiglia un nuovo spirito che ancora oggi permane.
Manuel non se la sentì mai di tornare a Jaén, diceva sempre che Barcellona, la Catalogna, dove era arrivato quasi per caso, era il suo posto. Due ricordi sono ancora vivi nella mia memoria: mio nonno Manuel mentre mi legge poesie di Miguel Hernández e la sera della sua morte, mentre sussurrava: assassini, assassini. Mi intristisce, quando ci penso.

Testo di © Yolanda Olmos
Foto © CapGazette
Aprile 2016

Mercanti italiani a Cordova

José Antonio García Luján, ‘Mercanti italiani a Cordova (1470-1515)’
in memoriam Prof. Alberto Boscolo

Presentiamo qui una selezione di paragrafi del libro, che si può trovare e leggere presso la Biblioteca dell'Istituto Italiano di Cultura di Barcellona, dove si conservano, inoltre, altri curiosi volumi. La traduzione in italiano qui riportata non è che un tentativo di intendere e rendere quell'antica scrittura castigliana


L'archivio notarile cordovese ospita un'ingente quantità e varietà di notizie sulla storia della città di Cordova e della sua provincia da metà del XV secolo – il 1442 per l'esattezza – fino all'inizio del XX secolo.
Il corpus documentale che offriamo è composto da novanta atti notarili relativi a italiani, in gran parte mercanti, che per vari motivi ebbero a che fare con gli uffici degli scrivani cordovesi.

1475, ottobre 12.
Domenego Guasco, fiorentino, tintore di scarlatti, e Fernando, tintore, suo compare, abitanti di San Andrés, stipulano scrittura secondo la quale sono obbligati a dare a Juan García, cenciaiolo, tre panni tinti in color scarlatto, per i 40.000 maravedì che da tale avevano ricevuto.
FONTE: A.P.C., Ufficio 14, protocollo 8, quad. 6, foglio, 12r.


In Cordova in questo detto dì dodicesimo del detto mese di ottobre del detto anno / settanta e cinque, stipulano Domenego Guasco, fiorentino, tintore di scarlatti / e Ferrando, tintore, figlio di Bartolomé Sanches, tintore, compagni, abitanti in Santo Andres, / che devono dare in pagamento a Juan Garçia, cenciaiolo, figlio di Alonso Garçia, legnaiolo, che Dio l'abbia, abitante / in Santo Pedro, che è presente, tre panni, venti dozzine, tinti in color scarlatto, / colorati, fini, tali che si devon dare e prendere […]

1487, giugno 19.
Accordo di apprendistato di Rodrigo di Cordova con il maestro Polo, genovese, berrettaio, entrambi abitanti nella parrocchia di San Nicolás del Ajerquía, per tempo un anno e obbligo di questo di dargli da mangiare, letto e calzatura.
FONTE: A.P.C., Ufficio 18. Protocollo 1, fogli. 732v.-733r.


In Cordova, in questo detto dì, stipulò Rodrigo di Cordova, figlio di Alfonso / Mexía, che Dio l'abbia, abitante residente in questa città nella / parrocchia di Santo Nicolas de Axarquía, che entra come apprendista con maestro Polo , genovese, berrettaio, abitante nella detta /parrocchia, che è presente, affinché lo avvezzi e insegni il detto suo / mestiere di berrettaio da oggi fini a un anno primo che verrà, / e che gli dia nel detto tempo da mangiare e bere e letto in cui dormire / e le calzature di cui avesse bisogno e vita ragionevole che lo / possa trascorrere e che gli mostri a tingere in scarlatto e scuro. […]

1496, luglio 20.
Vicenzo di Venezia, fabbricante d'organi, stipula aver ricevuto da fra' García Durán, priore, e da fra' Alonso de Vico, vicario del monastero di San Paolo di Cordova, 25.000 maravedì fino al giorno della data e in acconto di quei che dovrebbe ricevere per la fattura di degli organi per il citato monastero.
FONTE: A.P.C., Ufficio 14, protocollo 30, quad. 20, foglio. 28r.-v.


Ricevuta di maravedì.
In Cordova ventesimo dì di luglio del novanta / e sei anni, Viçenzo di Venezia, organaio, / stipula che ha in suo possesso ricevuto dal / reverendo padre fra' Garçia Duran, priore di / San Paolo di Cordova, e da fra' Alonso de Vico, vica- / rio del detto monastero, e di altro per loro, / venticinque mila maravedì fino a oggi, detto dì della / data, come acconto e pagamento dei maravedì che egli /deve avere per la fattura degli organi che a- / desso fa in detto monastero; […]

1500, luglio 8.
Juan de Villalpando stipula scrittura di perdono a favore della sua sposa Catalina de Pineda, che aveva commesso adulterio con Onorato de Spíndora, Luis de Godoy e altre varie persone, a condizione che gli dia carta di separazione nel termine di due mesi.
FONTE: A.P.C., Ufficio 18, protocollo 7, fogli. 335v.-339r.


Perdono di corna.
Nel nome della Santissima Trinità, Padre e Figlio / Spirito Santo, tre persone e un solo Dio vero, / che vive e regna per sempre senza fine, e della / beata Vergine Gloriosa Nostra Signora / Santa Maria, sua madre, e di tutti i / santi e sante della corte e regno celestiale. / Poiché la debolezza umana fa gli uomini // (foglio 336r.) brevemente errare e dagli errori nascono imbrogli e / contende e inimicizie e grandi disaccordi, [...] Per tanto in conformità con il Santo Vangelo, tramite questa presente carta voglio che sappiano / quanti questa carta di perdono vedano che io, / Juan de Villalpando, figlio di Juan Rodrigues de Villa- / alpando, che Dio l'abbia, abitante della città / di Siviglia e abitante che soleva essere della molto / nobile e molto leale città di Cordova, conosco e / accordo a voi, Catalina de Pineda, mia legit- / tima sposa, figlia di Bartolome Ruis d’Escanno, / e a voi Onorado d’Espíndola, genovese, e a voi, / Luis de Godoy, figlio di Juan de Godoy, venti / e quattro di Cordova, e dico che per quanto a- /desso saranno forse due anni, poco più o poco meno / di tempo, che io essendo assente da questa città, / nel detto tempo, voi, la detta Catalina de Pineda, mia (sposa) // (fogli 336v.) in vituperio e disonore mio e del mio onore aveste commesso e commetteste adulteri / con i detti [...]

1502, aprile 20.
Cristóbal de Avila, abitante nella parrocchia di Santa Maria, stipula scrittura di caparra a favore di Simón Ruiz, fiorentino, abitante di El Carpio, e di Francisco, orologiai, che dovevano fare un orologio per la città di Ecija per il valore di 10.000 maravedì.
FONTE: A.P.C., Uficio 14, protocollo 5, quad. 23, foglio. 2r


Caparra. Orologio
In Cordua in questo detto dì si obbligò Christoual de Auila, contadino, / abitante in Santa María, e disse che in quanto Ximon Ruys, fiorentino, abitante di / Carpio, e Françisco, orologiai, sono obbligati a fare un orologio / per la città di Eçija per dieci mila maravedì in certo termine, / a tal scopo, stipulano che lo faranno secondo i termini e secondo che / sono obbligati a vista di maestri, e se non lo facessero, / che pagheranno i maravedì che avessero ricevuto [...].



José Antonio García Luján, ‘Mercaderes italianos en Córdoba (1470-1515)’, © Nuova Casa Editrice L. Cappelli, Bologna, 1988.
Foto: Vista di Cordova, Anónimo italiano del secolo XVI, Biblioteca Digital Hispánica.
Junio 2014
Traduzioni dei frammenti: Paolo Gravela

Il carrettiere

Il carrettiere
(o un sogno esotico in tempi crudeli e disincantati)



Non molto lontano dalla casa di Lucas, a Sartamea, abitavano dei ragazzi stranieri “in cerca di buona fortuna”. Lucas fumava spesso con loro. Una sera di primavera, quasi estate, dopo cena, si attardarono sulla porta del loro piano terra vicino al mare, nel quartiere dei pescatori e dei trafficanti. La notte era fresca, le chiacchiere erano calate col buio, restavano frasi mozze e boccate di fumo. Si era parlato di progetti, di intenzioni.
- Dicono i cinesi che davanti agli occhi abbiamo il passato, e dietro il culo il futuro; il futuro è trasparenza, pura trasparenza: un vetro smerigliato, una cortina d'acqua.
Prima di dormire Lucas fece due passi fino alla spiaggia. Silenzio. Buio. Mare. I pensieri parevano dilatati, distratti, poggiavano ovattati sui passi lenti. Nel cielo nero le nuvole erano barbe bianche e filosofe, visi e busti di cotone alla luce della luna.
- Voi, barbe bianche in cielo, affermazioni, gesti d'aria, camuffamenti, giostre di sbuffi, da dove venite? Dove andate?
Colui che a Lucas sembrò apostrofare, o interpellare, il borbottare del cielo alle tre di notte era un anziano carrettiere. Inclinato in avanti, poggiato su un bastone, il passo instabile, tremulo, trascinava il suo carretto nella notte sartamina come arrivato dalla luna.
Invece no. Non veniva dalla luna. Davanti agli occhi stupiti di Lucas, le nuvole disegnarono in cielo la mappa di un possibile percorso, nomi evocativi, strade di commerci antichi: prima un quartiere di baracche di Phnom Penh; poi Imphal, Agra, Jammu e Samarcanda; poi ancora Bamiyan, Mazar-i Sharif, Herat, Teheran; infine Aleppo, Smirne e Istanbul.
Il carrettiere portava oggetti smarriti, segni muti, di una lingua ormai lontana; i piedi sporchi di una strada fatta camminando e di distanze misurate in metri.
Stava bene, fece segno che stava bene. Aveva mille anni e tutto sommato ancora camminava, a piccoli passi, in questa città straniera. I baffi irti del gatto, il pizzo a punta. A Lucas venne da chiedergli di Marco Polo, di Vasco da Gama. Che diavolo di idee da… marinaio. Sullo sfondo, slanciato su una colonna, Cristoforo Colombo indicava il mare.
[sin]
[fa]
[ra]
O davvero era venuto a piedi, pensò Lucas, oppure dalle parti di Bagdad qualcuno gli deve aver prestato un tappeto volante o roba del genere, dicendogli:
- Dove andate, signore?
- In Europa, da mio figlio.
- Ma guardi che è lontana!
- Che importa?
- Tenete, allora, per il vostro viaggio. Ve lo presto. Al ritorno, me lo renderete
Il vecchio avrà sicuramente sorriso, sotto la luna di Bagdad - perché è famosa la luna di Bagdad -, poi avrà caricato il tappeto sul suo carretto e ringraziato: shukran jasilan.
- Ma no, signore! È il carretto che dovete caricare sul tappeto, non il contrario!
Questi arabi, aveva certo pensato il carrettiere, sono davvero gentili, ma testardi come muli.
Allora, per educazione, un’antica educazione, il carrettiere sarà salito sul tappeto col suo carretto: giusto per qualche chilometro, avrà pensato, poi scendo.
Poi infatti era sceso, perché imparare a volare a una certa età è un'impertinenza:
- Io cammino per terra, giovane uomo, il cielo lo lascio alla luna e alle nuvole barbute.
E le nuvole barbute, per ringraziarlo, gli avevano indicato la strada per Sartamea.


Text: Lino Graz (racconti di Sartamea)
Foto (Lettere arabe sin, fa, ra, radici del campo semantico del "viaggio"): Lino Graz
CapGazette 4/2016

R-esistenze 5

R-esistenze 5

Quando ero giù a Marsala mio padre era uno stronzo. Era un violento. E quando non se la prendeva con me, le dava a mia mamma. Io a diciassette anni, lui non ci credeva ma ho preso una valigia e sono salito su un treno. A diciassette anni da Marsala a Colonia, lassù in Germania.
E lì, diciamo che mi son dato da fare. Un po' è che lì ti aiutano, ti danno una casa, trovi lavoro così ti metti a posto. Poi sono tornato e facevo il mercato. Abbigliamento vendevo. Col mio furgone me ne andavo a Napoli a caricare. E vendevo, ma vendevo e tanto. Le borse da spiaggia, i jeans. Sai le signore, se gli metti bene le cose sul banco … Mettevo quelle borse una dentro l'altra, eh … sai quante ne vendevo?! Poi arrivavo a casa, buttavo tutti soldi sul letto e mi ci buttavo sopra. Guadagnavo bene all'ora!
Poi quello stronzo di mio suocero, sai mia moglie era molto attaccata alla sua famiglia. Comunque lui mi ha dato un terreno e io, con il suo permesso ho costruito una casa. Bella, grossa. Lui lo sapeva e diceva che era contento. Poi quando era finita, boh. Si è incazzato e la voleva indietro, la casa e il terreno. Allora ho mollato tutto, preso baracca e burattini e sono venuto su.
Mia moglie non stava bene, diceva sempre che voleva tornare giù: le mancavano la mamma e il papà. Io mi sono arrangiato, tra Santa Rita e Cascine Vica. Lavoravo, non mi sono mai tirato indietro. Guidavo i pulmini per gli handicappati a Bardonecchia. Su e giù, su e giù. Poi quando è arrivato l'inverno mi hanno lasciato a casa. Qui a Torino quindi ho lavorato per gli autobus. Sempre chiuso là sotto in officina. Che rumore, sempre con 'sti motori accesi. Laggiù, sotto terra. Era uno scantinato, un'officina. Buio e rumore, buio e rumore. E noi glielo dicevamo che non potevamo farcela, che c'era troppo rumore. Ma lui niente, notte e giorno là sotto, con i motori su di giri a lavorare. È lì che la testa mi è partita. È lì che non ce l'ho fatta più. Mia moglie se n'è andata, mi ha detto che voleva tornare da sua mamma: era come una bambina, sempre la mamma voleva.

Ora è a Verona. Lei con i miei figli: due maschietti e una bambina, la mia bambina. Era dolce, era piccola così. Io la tenevo in braccio e lei piangeva. Quanti ricordi. Sul serio, io ho tantissimi ricordi!
Testo e foto: Andrea Gravela / Snodicomunicazione
CapGazette 10/2015

R-esistenze 4

R-esistenze 4 / Snodicomunicazione



Mi chiamo Butterfly e vengo dalla Costa d'Avorio. Ho 21 anni e sono qui a Torino, in Italia da due. Sono per strada perché ho litigato con mio padre. Lui ha una compagna, mia madre non so dov'è. È lì, lui con i miei 6 fratelli, e abbiamo litigato. L'ho mandato a fan culo e me ne sono andato. Poi ho perso le chiavi, il telefonino e ora sono in dormitorio, in corso Tazzoli. Ora parlo con mio zio, sai lui fa il sindacalista alla CGIL e penso che possa parlare meglio lui con mio padre. Sai tante sono le cose che dobbiamo dirci e io non riesco per ora a parlare con mio padre. Ieri sono andato da mio zio ma aveva una riunione, oggi ci riprovo. Mi ha detto che dopo le sei c'è. Intanto mi sono rotto un piede, mi fa male e non riesco ad appoggiarlo. All'ospedale me l'hanno fasciato ma poi la sera in dormitorio volevo farmi la doccia e ho tolto la fascia. Mi fa male pero!
Ciao e grazie.

Ho 80 anni e ho fatto il marinaio. Su un mercantile norvegese. In tutto il mondo sono stato io. Per primo sono stato a Baltimora, poi a Niuiorc, a Broccolino. Sai avevo dei parenti là. Poi sono ripartito. Per sei anni ho fatto tutto il mondo, sotto, nella nave, facevo il motorista. Poi a Genova una volta, son dovuto venire a Torino e l'ho sposata, sai per coprire la vergogna. Ora non so dov'è. Né lei né i figli. 4 ne abbiamo avuti. E poi sempre a Porta Nuova sono stato. Facevo il commerciante. Compravo e vendevo. Pure in prigione sono stato. Sai cose di ragazzi, coltellate, rapine, scippi. Eppure l'altro giorno un ragazzino mi ha preso il portafoglio. Poi è tornato e me l'ha restituito, per i documenti, sai. E ancora non ho capito come ha fatto. Sai io sono … me ne intendo, sono del mestiere. Ma non ho ancora capito come ha fatto. Va bo, ora sono in giro, c'ho la mia pensione e non la do a nessuno. È mia e solo io la tengo. Me la spendo come voglio io. Nessuno mi dice niente. Io non dico niente a nessuno. Non voglio storie, solo un ciao se vedo qualcuno. Poi mi piace star da solo. Vado a mangiare dove so io. Si mangia bene e non si paga niente. Un bel bicchiere di vino e basta. Non mi piace quelli che bevono sempre. Io solo un bel whisky dopo pranzo. E basta. Io così so vivere. Così ho sempre vissuto insomma. Io di Porto Empedocle sono. Esci da Agrigento e lì c'è il mare. Per quello ho fatto il marinaio. Se no mica ...

È passato un anno da quando non mi trovo più a dormire nelle 'Strutture di Prima Accoglienza della Città di Torino'.
Già... è passato un anno da quando è iniziata la mia ospitalità nella parrocchia, grazie ad un progetto della Diocesi.
Mi trovo all'interno di un sistema, io, piccolo uomo senza nulla in un ambiente dove si elogia il benessere e l'agio.
Caspita! Mi sento un pesce fuor d'acqua!
Ho una sensazione di inferiorità; ho proprio sbagliato tutto.
Invece di credere nei valori anche qui c'è proprio un sistema gerarchico. Mi spiace dirlo ma è proprio così. A volte penso che mi trovavo più a mio agio nei dormitori!
Non voglio chiedere la carità a nessuno e provo a uscirne con le mie gambe. Ci riuscirò?

La strada è il mio posto.
Ho provato tre anni fa a 'prendermi cura di me', come mi proponevano i servizi.
Sì, mi sono convinto che non potevo continuare a stare fuori e così sono entrato in una 'struttura di reinserimento', in provincia di Torino.
Uff: gli altri ospiti, gli operatori, le regole: tutto un po' obbligato. Certo ero al caldo, un letto, cibo.
Insomma una vita normale, ma quanto è stato duro reggere. Sentivo che stavo scoppiando, tenevo tenevo dentro e parlavo poco. Poi basta, ho fatto le valigie, non ho ascoltato nulla e nessuno e via … ritorno in città, in corso Matteotti, Porta Susa che conosco bene. Respiro aria, ci sono io e i miei bagagli. Leggo molto, cammino molto e riprendo la vita che per ora mi fa star bene.
Coperte, angoli, freddo.
Questa è la mia scelta!

Sono un signore rumeno, in Italia da molti anni e mi sono sempre arrabattato per vivacchiare in modo dignitoso.
Ho sempre lavoricchiato in nero grazie a conoscenti connazionali e italiani ai mercati. La fortuna però non mi accompagna. Lo stato della salute è peggiorato, ho il diabete che porta un problema serio all'arto inferiore. Il cuore fa scherzetti e così tra ricoveri e dormitori sento la difficoltà e la pesantezza nell'affrontare la quotidianità. Ho mantenuto relazioni informali che mi danno la forza e l'aiuto per seguire le prassi burocratiche e a gestire l'attesa.
Attesa: la parola più frequente in questo ambito. Ma a volte è difficile. Esce la voglia di mandare all'aria tutto. Però poi si deve ricominciare da zero e allora, per ora, provo a tener duro.
Texts: Andrea Gravela / Micky Summer - ©Snodicomunicazione.it
Foto: Andrea Gravela
CapGazette 6/2015

Da una nave russa a unaphotoalgiorno. Chiacchierata sulla fotografia con Graziano Paiella


Da una nave russa a unaphotoalgiorno.
Chiacchierata sulla fotografia con Graziano Paiella


Martedì 8 febbraio 2011 tira poco vento a Roma, il clima è mite e un anticiclone proveniente dalle Isole Azzorre rende la giornata umida e soleggiata. Mentre le temperature ondeggiano tra un minimo di 4 e un massimo di 16 gradi e qualche nuvola bassa si muove a traffico moderato sopra il Mar Mediterraneo e il Tirreno, Graziano Paiella prende di spalle Castel Sant’Angelo, ritraendolo oltre una finestra sporca. Gli aloni del vetro diventano sbavature dei raggi del sole e si confondono con la chioma cascante di un albero.
È in quel momento che egli decide che ogni giorno avrà la sua foto.
Siamo nella primavera del 2015 e la storia di unaphotoalgiorno è oramai una lunga storia, che continua. Quattro anni di fotografie scattate quotidianamente in Italia, ma qualche volta anche oltre confine, quotidianamente condivise nel suo profilo facebook e custodite nel sito www.grazianopaiella.com.
Di questa storia e d'altro abbiamo parlato con Graziano Paiella.

Mi incuriosisce innanzitutto sapere cosa ci fosse prima della sfida di quel martedì e quali foto prima di quella che ha dato il via a unaphotoalgiorno
Direi che la mia passione per la fotografia nasce con il regalo della mia prima macchinetta fotografica, una MINICOMET Bencini, un piccolo apparecchio anni '60. Con quello, a circa 7 anni, ho scattato le mie prime foto. Mi ricordo ancora quando i miei genitori ritirarono le stampe e mi dissero che alcune erano venute male, con strane inquadrature, io però le avevo scattate così apposta...
Poi un viaggio a Venezia, all’età di 17 anni, contribuì in modo determinante a consolidare questo amore. Ricordo una foto in particolare: era il 1977, una nave russa entrava nel canale con la sua falce e martello sulla ciminiera, io mi affrettai a scattare e solo dopo, con la stampa, mi accorsi che era entrato nell’inquadratura un gabbiano in volo, leggermente mosso. Mi conquistò. Credo che nella fotografia, come in tutte le arti, per un buon risultato debbano fondersi una serie di elementi, dalla tecnica, alla luce, al soggetto e qualche volta interviene il caso che rende il tutto più interessante. Non che nei miei lavori l'elemento casuale sia indispensabile, ma a volte può diventare un valore aggiunto, imprevedibile, e in quella foto di Venezia fu determinante. La scattai con un vecchio apparecchio a soffietto, una Kodak Retinette. Era di mio padre. 


Tutte le immagini di unaphotoalgiorno, sono davvero tante, sono scattate con uno smartphone?

Sì, le immagini ad oggi sono circa 1500, è un po’ una follia, ma l’impegno quotidiano mi diverte e mi tiene allenato l'occhio. Da circa 5 anni le mie foto sono scattate quasi esclusivamente con lo smartphone. È un oggetto versatile, ma soprattutto è sempre con me.
La qualità non è alta, ma la velocità e l’immediatezza possono essere a volte molto utili. Mi basta vedere un luogo, un taglio di luce o qualcos’altro che attira il mio sguardo e sono pronto a fissarlo in un file. Tutto all’istante e un attimo dopo, posso condividere lo scatto con centinaia di persone. Tutto ciò è affascinante per uno come me che viene dalla fotografia analogica, fatta di tempi lunghi ed attese per lo sviluppo e per la stampa. Senza nulla togliere a quel meraviglioso mondo della fotografia su pellicola, alla quale io sono molto affezionato.
Da quel che dici, capisco dunque che l'immediatezza con cui si può fruire delle immagini non ti sembra un limite, anzi, tutt'altro. Forse il fatto che si tratti di una foto al giorno, quindi di una storia che sappiamo che avrà un seguito, ci aiuta a non logorarle? È la costanza del tuo discorso fotografico a frenare un po' la velocità della fruizione?

Il ritmo incessante dello scorrere delle immagini al quale oggi siamo sottoposti è impressionante, ne siamo bombardati costantemente. Da quando ero bambino, dagli anni 70 ad oggi c’è stata un’immensa accelerazione del nostro rapporto con le immagini, sia con quelle in movimento, di cinema e televisione, che con quelle fisse. Questa sovraesposizione ha spinto inevitabilmente il video e la fotografia a progredire nel loro linguaggio e a sviluppare nuovi modi di vedere. Oggi, con la diffusione degli smartphone, siamo tutti fotografi o videomakers, tutti siamo in grado di leggere una buona fotografia. Facebook è un canale nel quale scorrono quotidianamente un illimitato flusso di parole ed immagini, sia video che fotografiche, e sono proprio queste ultime che moltiplicandosi in maniera esponenziale con la condivisione, lo rendono il social network più attraente. Ecco, a me piace immergere le mie foto in questo fiume, e quando il mio scatto condiviso blocca lo sguardo di qualcuno che clicca poi sul like, credo di essere riuscito a trasmettere qualcosa. Per me Facebook è una bacheca sulla quale posso fissare le mie fotografie, i momenti che vedo, come fossero post it con i miei appunti attaccati a una parete.
Di questo tuo lungo reportage fotografico, oltre alla quotidianità, vorresti evidenziare altre costanti?

Altra costante è la parola ricerca, la ricerca nel quotidiano di immagini che riassumano un emozione o per isolare delle immagini dal fluire troppo veloce del nostro vedere, una ricerca per soffermarsi a guardare. Mi capita spesso di ricevere apprezzamenti per unaphotoalgiorno, anche da persone che non incontro abitualmente ma fruitori di Fb.
Alcune di loro mi raccontano che, seguendo il filo del mio discorso, sono state attratte e condizionate dal mio punto di vista ed hanno cambiato modo di fotografare. Ciò mi colpisce e, devo ammettere, mi gratifica molto.
 Suggerire uno sguardo attraverso un’immagine credo sia una delle cose più affascinanti e anche più difficili per un fotografo. Vuol dire che l’immagine è stata recepita e si è fissata nella memoria e può aiutare nel tempo a vedere e guardare in modo diverso. Un po’ come il ritornello di una canzone che ci si ritrova a fischiettare inconsapevolmente. Per me la fotografia è una musica per gli occhi.

Le persone sono spesso assenti nelle tue foto, eppure quando io le guardo mi capita spesso di aspettare che qualcuno ritorni; voglio dire che gli spazi che ritrai mi sembrano luoghi momentaneamente, solo momentaneamente, abbandonati. Come se ci fosse sempre una voce in lontananza, che fa compagnia.

È bello quello che dici, grazie, rimanda ad un mio modo di essere. È vero, le persone spesso sono assenti, ma a volte entrano da sole in certe immagini, come il gabbiano. Arrivano improvvisamente e io le lascio lì! Sono volute entrare e io le lascio dentro! Le chiamo comparse.
Tornando al tema del guardare, hai già parlato di "soglie" in occasione di una tua mostra a San Francisco.

La mostra del 2014 a San Francisco è stata una grande conferma dopo tanti anni di fotografie, finalmente la mia prima vera mostra fotografica. Titolo “Soglia”, “Treshold”. Il tema mi è stato suggerito dalla lettura di Lezioni di fotografia, bellissimo libro del maestro Luigi Ghirri. Per lui: «Fotografare vuol dire escludere, e questo si fa con l’inquadratura che è, appunto una soglia.
[…] L’inquadratura non è solo bordo, ma una 'soglia': un punto nello spazio in cui si fronteggiano il mondo interiore del fotografo, io-pelle con occhio abnorme, e l’ammasso inerte e silente che sta fuori». Da queste parole ho tratto spunto per la mia mostra . La mia ricerca fotografica sulla soglia è stata una sfida nel trovare ulteriori soglie da inserire nell’inquadratura del paesaggio marino, con l’intento di portare lo sguardo dell’osservatore su un solo punto: l’orizzonte del mare. E allora nelle mie immagini appaiono elementi casuali atti a concentrare l’attenzione sulla linea di confine tra cielo e mare, elementi trovati sulle spiagge o sulle strade lungomare del Tirreno, Adriatico e Jonio. Vedere queste fotografie del paesaggio italiano nel contesto di una città come San Francisco è stato per me motivo di grande soddisfazione.

Oltre al tuo lavoro di regista e a Luigi Ghirri, chi o che cos'altro ritieni che ti abbia insegnato uno sguardo?

Ogni fotografo ci insegna a guardare le cose in modo nuovo, ma Luigi Ghirri per me è stato colui che ha condizionato ed emozionato con più forza le origini della mia fotografia. Poi ho scoperto Gabriele Basilico che ha influenzato il mio modo di vedere la città. Infine Hiroshi Sugimoto che ha sintetizzato il linguaggio fotografico con le sue foto dedicate al mare, cancellando il superfluo e riducendo la fotografia a una linea: l'orizzonte, il cielo sopra e sotto il mare, fotografato in diversi luoghi ed in diverse ore sulla terra.


CapGazette ringrazia Graziano Paiella e le sue fotografie


Clicca sulle immagini per entrare nel sito fotografico www.grazianopaiella.com
Chiacchiere: Graziano Paiella e Nicoletta De Boni © CapGazette
Foto: Immagini tratte dalla mostra 'Soglia' e 'Altare della patria', Roma 1967 © Graziano Paiella
Maggio 2015

Berlino-Barcellona, una conversazione con Lucia Chiarla

Berlino-Barcellona, una conversazione con Lucia Chiarla
L’ultima volta che ho visto Lucia Chiarla c’era un incendio. Era la sera dell’11 aprile 1997 e a Torino bruciavano Palazzo Reale e la cupola del Guarini. Come molti altri curiosi, anche noi eravamo in Piazza Castello e osservavamo il fumo, le fiamme e il via vai dei pompieri. Correvano voci disparate su cause e danni del fuoco, lodi all’eroismo dei pompieri che, si diceva, venivano fin da Alessandria e Milano. Da allora non ho più visto Lucia, ma un giorno, circa dieci anni fa, ero a radio Contrabanda di Barcellona per il programma in italiano Zibaldone quando Roberto Fenocchio, che dirigeva la trasmissione, ha dato notizia dell’uscita del film 'Bye Bye Berlusconi' di Lucia Chiarla e ...
- Chi? - Ho domandato.
- Lucia Chiarla e ….
- Lucia? La conosco!
Adesso che abbiamo un’età in cui si tirano alcune somme e si cerca di far quadrare comunque conti un po’ bislacchi*, ho lungamente conversato con Lucia via mail tra Berlino, Barcellona, Genova e Torino. Ecco il risultato di più di tre mesi di domande, risposte, considerazioni strappate alla foga della routine.

*[Bislacco, dice il vocabolario Treccani, viene forse dal veneto bislaco, soprannome che si dava ai Veneti del Friuli e agli Slavi dell’Istria, dallo sloveno bezjak «sciocco»].
Una definizione di Lucia Chiarla di teatro.
Il teatro è un gioco. Un gioco serio. L’obiettivo è dirsi la verità. Non ci sono vincitori e vinti. Solo buon teatro o cattivo teatro. Qualunque storia può raccontare una verità, se l’attore regala qualcosa di personale, e se il pubblico esce di casa per mettersi alla ricerca di sé, o degli altri. Lo spirito di ricerca è fondamentale. Gli attori possono essere aperti e generosi, ma se il pubblico non si è seduto con l’intento di ascoltare, allora non c’è dialogo. Un buon pubblico è importante quanto dei buoni attori.
Il teatro è azione e reazione. Non accontentarsi, né di sé né degli altri, non nascondersi dietro a estetismi o narcisismi mette lo scambio tra persone che indagano la vita al centro del teatro. Diciamo che è un gioco che non vuole ridursi a un passatempo. Quando si esce da teatro ci si potrebbe chiedere: ho trovato una chiave che non avevo? Ho capito qualcuno che non avevo mai capito, ho provato qualcosa che avevo paura di provare? E un attore che entra in scena si dovrebbe chiedere: dove sono io in questa storia? Sono disposto a spogliarmi per regalare qualcosa a chi mi ascolta?
Non so se questa è una definizione di Teatro, ma è il teatro che mi piace.
Come è nato in te l’amore per il teatro? Da piccola, da adolescente? Cosa ti ha portato al teatro?
Ho scoperto il teatro per solitudine. Da adolescente, credendomi diversa dagli altri e circondata da amici che si sentivano diversi dagli altri, oscillavo tra sentimenti di inadeguatezza e desiderio di esprimere la mia unicità. Dovevo innanzitutto capire in cosa consistesse la mia unicità!, e questa ricerca mi ha aperto le porte dell’ ”io”. L’ansia di trovarmi non si placava facilmente e per lo più restava insoddisfatta o si traduceva in amori infelici, desiderio di giustizia per tutti, rabbia verso ogni cosa mostrasse un equilibrio. Questi pensieri diventavano insopportabili la domenica pomeriggio e a quindici anni, per salvarmi dalla noia di quei lunghi pomeriggi inconsistenti a camminare avanti e indietro sul lungomare, ho cominciato ad andare a teatro, con le mie sorelle. In sala le luci si spegnevano lentamente e io scoprivo così, seduta tra donne imbellettate e profumate, la magia del teatro. I soli nemici di quei momenti erano i colpi di tosse di signore distratte che sfasciando caramelle mi riportavano alla realtà (fortunatamente non c’erano ancora i telefonini!).
Quell’anno ho cominciato a frequentare un corso di teatro. Ero l’unica tra i miei amici ad avere un simile passatempo e questo mi rendeva poco cool, ma finalmente molto unica!, e per andarci dovevo prendere il treno che dalla provincia del ponente di Genova mi portava in centro città, passare tra i carruggi, percorrere salite sconosciute e parlare con persone stravaganti, che parlavano solo di teatro. Questo era solo l’inizio di un’avventura che si concludeva ogni volta nella lettura di poche battute. La ripetizione all’infinito di una frase e l’emozione che portava con sé calmava, anche se solo per pochi istanti, l’ansia di trovare delle risposte ai tanti "perché". Qualche anno dopo ho preso un treno che mi ha portata a Milano e lí sono rimasta per studiare teatro alla scuola d’arte drammatica fondata da Paolo Grassi. Poi ho continuato a cercare la stessa magia in altri teatri, in altri luoghi, salendo su altri treni.

Vent’anni dopo, ovvero oggi.
Oggi, vent’anni dopo, mi definisco un’attrice strana. Anzi, mi definisco un’osservatrice. Vivo a Berlino, dove si parla un’altra lingua, dove per il pubblico sono innanzitutto straniera. Questa condizione “strana” di “straniera” mi ha portato a ricercare da capo il senso della mia professione. Come se fossi rinata, o mi fosse data una nuova occasione per uscire dall’automatismo e riflettere.  Nella ricerca mi sono accorta che la mia necessità è parlare di temi su cui ho urgenza di indagare, partendo dalla pura osservazione. E il mio modo immediato per elaborare questi temi è raccontando delle storie. A Berlino mi sono ritrovata a confrontarmi spesso con il tema del “vivere altrove” che è diventato anche titolo di uno spettacolo teatrale realizzato con il Teatro Instabile Berlino, con cui collaboro dal 2007. Poi ho sperimentato il racconto attraverso la canzone, insieme all'istituto di cultura italiano di Berlino, in uno spettacolo pensato per raccontare la cultura italiana attraverso la musica. Il titolo “d’Amore e d’Anarchia” cita un film di Lina Wertmüller. L’elemento amoroso e quello anarchico diventavano nel mio lavoro il filo d’Arianna per condurre lo spettatore tedesco - per il breve tempo di un’ora e mezza - lontano dai cliché sulla cultura italiana. E poi c’è il cinema, altro strumento di racconto che amo. Il mio primo film, "Bye Bye Berlusconi", di cui sono sceneggiatrice e interprete, presentato al festival di Berlino nel 2006, era un film che in forma di satira politica affrontava una tematica vicina a “I giusti” di Camus, in cui i personaggi  si interrogano sul senso dei loro atti di giustizia e di morte. Della mia seconda sceneggiatura, a cui lavoro da diversi anni, in lingua tedesca, e che rappresenta il progetto più importante, vorrei raccontare poco. Una sceneggiatura, fino a quando non diventa un film non esiste per il pubblico. E come diceva Calvino nel Barone Rampante: “Le imprese che si basano su di una tenacia interiore devono essere mute e oscure; per poco uno le dichiari o se ne glori, tutto appare fatuo, senza senso o addirittura meschino.”!
Berlin
Kreuzberg
Faccio tesoro della tua citazione di Calvino e non indago oltre sulle “imprese”, in attesa della loro realizzazione. Buon lavoro, dunque. Come ti scrivevo, conosco bene la sensazione di spaesamento, “stranezza”, dici tu, forse straniamento, della vita all’estero. L'argomento è spinoso e forse anche in questo sarebbe opportuno dare retta a Calvino per evitare di sembrare presuntuosi e/o toccare "suscettibilità nazionali" e altre piaghe sensibili degli uni e degli altri. Ogni mio tentativo di spiegarmi, a quelli di qui e a quelli di là, come italiano a Barcellona finisce quasi sempre in una battaglia don chisciottesca. Tuttavia, se vuoi, possiamo fare l'ennesimo tentativo di spiegare le ragioni e le situazioni dell'espatrio, gli aspetti ricorrenti e quelli individuali. O cercarne il lato comico.
D'altro canto mi piacerebbe che ci parlassi degli spettacoli di teatro a cui hai assistito come spettatrice e che più ti hanno cambiata.
Ho provato a legare le due domande, ovvero io come straniera e lo spettacolo che in questo mi ha lasciato un segno.
Del “vivere altrove” ci sarebbe troppo da dire, e credo di essere ancora nella fase in cui questo troppo mi confonde. Quindi diciamo che è ancora presto per parlarne. Ad essere stranieri ci si abitua, come a tutto del resto, e mi consola pensare che anche quando vivevo nella mia città non mi sentivo mai completamente appartenente. Inizio a chiedermi se non sia una condizione del mio essere che con grande talento sono riuscita a rendere reale col mio trasferimento da ricordarmene perennemente, anche andando a fare la spesa. A questo proposito c'è uno spettacolo che ho visto e che mi accompagna in questa nuova fase della vita.  Uno dei primi spettacoli visto a Berlino, in lingua tedesca: “Murx den Europäer! Murx ihn! Murx ihn! Murx ihn! Murx ihn ab!” di Christoph Marthaler. Uno spettacolo cult in Germania che ho avuto la fortuna di vedere nella sua ultima rappresentazione, il febbraio 2006. Mi ero trasferita nel 2005, quindi ancora capivo molto poco di tedesco e della cultura tedesca. Lo spettacolo raccontava lo stato d’animo della popolazione della DDR poco prima della caduta del muro. Le parole non erano poi così importanti per la comprensione dell’opera. Quello che passava la messa in scena era un perenne sentimento di non appartenenza. I protagonisti, vittime di burocrazia, attese e assurdità, conservavano però un’ironia che diventava un collante salvifico. Ad ogni quadro si alzavano e intonavano insieme una canzoncina, molto nota in Germania : “Danke, für diesen guten Morgen”. Ovvero: “grazie, per questa buona mattinata! grazie”. Riscritta su una canzone da chiesa, con un testo pungente. Anch'io oggi, quando passo delle giornate a muovermi tra carte e faccende quotidiane, immersa nell’anonimato del sistema, con il mio numero di identificazione sotto mano per ogni cosa, canticchio quel motivetto e penso che l’ironia è l’unica salvezza.
Conversazione: Lucia Chiarla, Paolo Gravela
Foto: Paolo Gravela, Lucia Chiarla.
CapGazette, Mar. 2015

A testa alta, parole e palloni

A testa alta, parole e palloni.


A volte i libri nascono da una parola, da una frase o anche da un silenzio, ma in questo caso posso dire che è stata proprio un’immagine a far scatenare la scrittura; lo dice Francesco Luti Mazzolani, pensando a come è nato il suo ‘A testa alta. Il cammino del Sarrià’ (Nicomp L.E., Firenze).
È questo il titolo che assieme alla foto di copertina della nazionale di calcio del 1982 a me, che di calcio per la verità capisco poco, ha riconsegnato una manciata di sere d’estate di 33 anni fa: Italia-Argentina 2 a 1, Italia-Brasile 3 a 2, uno stadio che non c’è più, una città, Barcellona, che ci stava portando fortuna, un paese, la Spagna, non cosí lontanto ma esotico a quei tempi, o forse all’età che avevo. Li ritrovo infatti dentro il libro questi miei ricordi:
«L’Italia la guardavamo a casa in famiglia (...). La televisione a colori era giunta per Natale, il penultimo tutti insieme, una Grundig di finta radica che sarebbe campata vent’anni! (...) Tutta l’Italia dell’anagrafe: tutta stretta nel proprio salotto o al bar».
Va subito detto però che questo lungo racconto non narra solo dell’avventura calcistica dei mondiali di Spagna; vale quindi la pena di andare avanti e, come ci consiglia lo scrittore, di procedere con lui nello scavo della memoria.
Francesco Luti ha terminato circa un anno fa questo suo lavoro che è la stesura di un attraversamento di campo che l’ha portato dalla porta di casa della Firenze di nascita alla porta della Barcellona d’adozione. Attenzione però, di avversari da vincere qui non ce ne sono e le due città rappresentano un passato e un presente, una sorta di botta e risposta alla vita; su quel filo dell’esistenza tirato tra l’una e l’altra quella che si legge è una bella partita, giocata con ottimi compagni di squadra.

Francesco, qual è quell’immagine da cui è sbucato il racconto?
Ero bambino, vivevo proprio accanto allo stadio di Firenze, al quinto piano di un edificio al numero uno di Viale de’ Mille. Da quell’altezza godevamo di una vista privilegiata sulle partite che vi si disputavano, ma quando gli incontri erano tranquilli, ovvero al sicuro da tifoserie troppo aggressive, allora mio padre portava me e i miei fratelli dentro lo stadio. Dall’alto della grata della Maratona, dove noi ci si piazzava, io puntavo lo sguardo sul mio idolo, Giancarlo Antognoni. Quando c’era un calcio d’angolo scendevo giù veloce fino all’inferriata di bordo campo per gridargli: Antonio, Antonio! Poi, dopo il corner, tornavo al mio posto, salendo a fatica con quella falcata da bimbo di dieci anni che ero, e mio padre in quel momento mi domandava: Allora? Cosa ti ha detto? Ti ha sentito? E io gli rispondevo: Sì, sì, forse, mi pare di sì, mi ha guardato...

È col ricordo del padre che l’affetto inizia a pervadere tutto il libro, quel papà che Francesco perderà qualche mese dopo la vittoria dei mondiali dell’82, quand’era davvero ancora troppo piccolo per sopportare quella che: «In inglese si dice injury, e a me piace questa parola anglosassone che offre un ventaglio maggiore, e volendo si può credere perfino che quella frattura sia anche un’ingiuria. Come una sciabolata netta al cuore dell’esistere».
Se poco più di un anno prima gli era già sembrata un’ingiuria, appunto, una ginocchiata in testa che nella partita contro il Genoa aveva messo fuori gioco per mesi il suo Antognoni, ora la vita colpiva quel bambino con un taglio netto. Eppure quel padre continuerà sempre con la sua assenza a fargli compagnia in inseguimenti e appostamenti di vario genere, primi su tutti quelli al bell’Antonio, il grande giocatore della piccola squadra, il campione che fu e la persona per bene che continua a essere.

Così tra un campionato e l’altro, tra un mondiale e l’altro passano gli anni e Francesco sceglie le parole come compagne predilette del suo vagabondare tra paesi, ricordi e palloni.
Ha ormai vent’anni, è su un volo della Panam che lo porta in vacanza a New York insieme alla madre, a un quaderno azzurro e a due penne bic. Proprio al Giants Stadium della Grande Mela, anni prima, Giancarlo Antognoni era stato finalmente coronato migliore giocatore nella partita post mondiale tra Europa e Resto del Mondo, riprendendosi in tal modo quel merito che la sfortuna gli aveva sottratto impedendogli di giocare la finale spagnola.
Dentro quell’aereo i palloni di questa storia traghettano verso la scrittura, complice lo sguardo incoraggiante, attento e distratto di una madre a cui questo libro è dedicato e che era colei che non aveva mai dimenticato il grande amore del figlio per le parole. «Il pallone e le parole queste due Pi a incedere l’esistere, gomito a gomito. […] Frugare nelle sillabe, nelle consonanti e nelle vocali, come un mendicante nella spazzatura del nostro tempo.»
Per il nostro autore il calcio assomiglia alla scrittura anche perché entrambi sono fortemente legati all’improvvisazione, ciò che invece è ben diverso è il rapporto che scrittore e calciatore hanno coi loro rispettivi mestieri, perché se smettere di scrivere per il primo può essere una scelta, smettere di giocare per il secondo è un’imposizione.

Perché il titolo ‘A testa alta. Il cammino del Sarrià’?
Ho voluto rendere omaggio da un lato al gioco elegante di Antognoni che procedeva guardando le stelle e dall’altro anche alle mie scelte, quella di fare lo scrittore, nonostante le difficoltà che si affrontano, per esempio riuscire a sbarcare il lunario... e quella di farlo in un paese che non è il mio: a stare lontani se ne guadagna senz’altro in termini di una gradevole nostalgia, ma c’è anche il sacrificio di separarsi da chi non ti accompagna nel viaggio. Il cammino dai gradoni dello stadio di Firenze fino al Sarrià è anche il mio cammino personale.
Si legge nel libro: «E l’eco della nostalgia te lo offre bene l’altrove. Invidio la nostalgia dell’esiliato […]. Come l’ama l’esiliato la terra d’origine, non l’ama nessuno. È consistente il bagaglio che ci si porta addosso quando si è lontani, e c’è senz’altro dell’epico in colui che se la gioca fuori casa.»

Francesco tifoso, Francesco figlio e bambino, Francesco scrittore, Francesco giocatore e viaggiatore, ma anche Francesco investigatore, detective:
Sì, in una presentazione del libro mi è stato detto che a volte leggendo queste pagine si ha quasi l’impressione di seguire il lavoro di un investigatore che va a caccia di prove, ci si riferiva in particolare a due incontri di cui parlo nel libro: uno con Tonino Fernández, il custode del Sarrià nei giorni del mondiale, che oggi è in pensione e porta l’orologio sul polso destro come Antognoni. Un quiet man alla John Wayne, che alle 7 del mattino del 5 luglio dell’’82, il giorno di Italia-Brasile, aprì il cancello dello stadio del Sarrià in compagnia di Isidro, l’artista tagliaerba, Carmelo, l’aiutante elettricista e Manolo, carpentiere responsable dei sanitari. L’altro incontro invece è avvenuto in Brasile, a Cabo Frio dove andai a cercare Leandro, il giocatore che alla fine di quella partita del 5 luglio era corso a scambiarsi la maglia con Antognoni. Poi c’è anche una gita all’Hotel Castillo di Sant Boi de Llobregat, dove alloggiò la Nazionale nelle sue giornate barcellonesi e dove ho incontrato José Márquez il maître dell’hotel nell’ ’82.
Che bella è l’immagine di Tonino Fernández e Francesco Luti seduti a un bar della Carretera de Sants, tutti intenti a ricordare la giornata e lo stadio che furono davanti a due succhi d’arancia, poi il ricordo dei paesaggi brasiliani che si sovrappongono fuori dal finestrino del pullman che va da Rio a Cabo Frio e infine quell’attendere Leandro, dentro la pousada di sua proprietà.

I divagabondaggi, come li chiama Francesco Luti, finiscono e ricominciano, dentro e fuori il libro, in Spagna, quel paese del quale per primo gli aveva parlato proprio il padre mentre gli mostrava le fotografie di un suo viaggio in vespa alla fine degli anni Cinquanta, ma finiscono e ricominciano anche nell’amicizia con Giancarlo Antognoni e nell’intera, coraggiosa squadra che grazie e queste pagine l’autore ha rimesso insieme.

Ma a Giancarlo, che ora è un amico, hai domandato se allora ti sentiva quando scendevi i gradoni e gli gridavi Antonio, Antonio?
Sì, gliel’ho chiesto, gliel’ho chiesto eccome, mi ha risposto maaah, sai, in quei momenti là... Ma come?! E io che ho pure il taglio di capelli all’Antognoni! Comunque io credo che anche se non riescono a distinguere le voci durante la partita, poi io mi immagino che i cori, che quelle frasi possano ritornare nella testa dei calciatori, magari anni e anni dopo, quando non giocano più, quando quell’altra vita è ormai solo un ricordo, quando devono reinventarsi e forse sono lì come pipistrelli senza riferimenti, ecco forse quelle grida, quel tifo di un bambino servono a restituirgli la loro storia proprio in quei momenti lì.


Cap Gazette ringrazia Francesco Luti Mazzolani e tutti i suoi compagni di squadra.



Intervista a Francesco Luti Mazzolani: Nicoletta De Boni © Cap Gazette
Nella foto l'autore con 'A testa alta. Il cammino del Sarrià' e il taglio all'Antognoni.
Febbraio 2015