Posts in Category: Argumento – Argument – Argomento

Tornare o no. Cadice – Barcellona; Colombia – Valencia

Tornare o no

Finalmente imparò a leggere e a scrivere
Cadice - Barcellona

Mi ricordo del giorno in cui Dolores mi disse:
- Quando arrivai a Barcellona, dopo dieci minuti che ero sul tram, decisi che non sarei mai più ritornata.
Dolores era nata in un piccolo paese dell’Andalusia, nella provincia di Cadice, dove visse per qualche anno con la sua famiglia nel cortijo - la masseria - dei signori, lavorando nei campi fin dai dieci anni. I signori (in spagnolo, los señoritos) pagavano lo stipendio sotto forma di cibo e permettevano alla famiglia di vivere in una baracca, qualche volta gli davano poche monete.
Erano gli anni ‘60 del secolo scorso, Dolores non sapeva né leggere né scrivere; suo padre le diceva che non aveva i soldi per la scuola e che comunque una donna non aveva bisogno d'andarci. Furono queste le ragioni per cui quando Dolores arrivò un giorno a Barcellona, a sedici anni, per andare a trovare una sua zia, decise di non fare più ritorno a casa.
Qui trovò poi lavoro in una fabbrica dove finalmente imparò a leggere, a scrivere e a guadagnarsi uno stipendio e dove conobbe suo marito, col quale mise su famiglia.
Dolores è solo una dei tanti immigrati del sud della Spagna che dovettero lasciare la loro bella terra per poter vivere con dignità.
La storia continua: ancora oggi una cerchia ristretta di persone continua a pensare che il mondo sia soltanto proprietà loro.

Testo di © Joan Mateo
Mi facevano fantasticare di luoghi lontanissimi
Colombia - Valencia

Quando ero piccola mia nonna mi raccontava sempre la storia dei suoi vicini colombiani. Gabriela e Juan erano una coppia che viveva ormai da parecchi anni al piano sopra a quello dei miei nonni. Li ho sempre trovati gradevoli perché sempre avevano un sorriso in bocca e parlavano a lungo di luoghi esotici con i miei nonni quando si incontravano sul pianerottolo. Dato che Gabriela e Juan erano colombiani, questi luoghi esotici di cui parlavano erano tutti in Colombia.
Entrambi provenivano da famiglie contadine legate al mondo del cacao, le cui piantagioni si trovavano nel bel mezzo della Sierra Macarena. Le condizioni delle famiglie dei contadini della Sierra Macarena ad un certo punto erano peggiorate assai, dopo la crisi del cacao negli anni Cinquanta che aveva portato la povertà e costretto la gente a cercare un altro modo per tirare avanti e guadagnarsi da vivere. La maggioranza delle persone scelse l'emigrazione e Gabriela e Juan non furono un’eccezione.
Appena arrivati in Spagna non si trovarono bene né loro, né i tre figli con cui erano venuti e che ancora studiavano. Non conoscevano nessuno e non avevano parenti qui. Per questo scartarono la possibilità di abitare in una casa isolata in periferia e affittarono invece un appartamento in un condominio nel centro del paese, per fare più facilmente amicizia.
In questo condominio abitavano (ed ancora abitano) i miei nonni. Passò poco tempo e divennero amici. Stavano molto insieme, ricordo ancora quando andavo con i miei genitori a trovarli e quando d’estate facevo merenda con mia nonna, io seduta sulle scale all’aperto (si stava proprio bene lì fuori, col caldo che faceva!), molti di quei pomeriggi scendeva appunto nel nostro pianerottolo la signora Gabriela e ci raccontava storie bellissime del suo paese. Lei sapeva bene che mi piacevano moltissimo e che mi facevano fantasticare di luoghi lontanissimi.
Conosceva decine di storie, tuttavia io le chiedevo sempre che mi raccontasse di nuovo la stessa: quella che si svolgeva lungo il Caño Cristales, un fiume che della Sierra della Macarena. Questo, curiosamente, non era - anzi non è - un fiume fantastico, bensì reale. Perché dico "curiosamente"? Perché Caño Cristales, anche chiamato "fiume arcobaleno", è un fiume molto particolare, così bello da non sembrare vero. Le sue acque, grazie alle alghe e ai muschi, presentano da settembre a novembre colori vivacissimi, anche se quello che più si nota è il rosso.
Dopo aver vissuto trent’anni in Spagna, sebbene Gabriela e Juan alla fine fossero stati abbastanza felici, sentirono la voglia di ritornare al loro paese, per trascorrervi gli anni della vecchiaia. Ormai non si dovevano più preoccupare dei figli, già adulti e indipendenti; tra l’altro, per non smentire la tradizione di famiglia, tutti e tre erano andati all'estero a cercare lavoro. Insomma, quello che gli restava in Spagna erano tutte le amicizie che avevano fatto, alcune sui pianerottoli, come quella con i miei nonni. Era stata una decisione dura ma credevano che un ritorno fosse arrivato il momento di ritrovarsi con la loro gente e con la loro terra.
Adesso quando vado a trovare i miei nonni mi rattristo un po’ quando dalle scale guardo in alto e ricordo quelle merende e quelle chiacchiere che facevamo con i colombiani.
Alcuni mesi fa, i miei nonni hanno ricevuto una lettera che veniva d'oltremare. Quando gliel'ho letta i miei occhi si sono riempiti di lacrime di gioia: Gabriela raccontava piena di fierezza che i suoi figli li avevano raggiunti e avevano avviato un’attività dedicata alla raccolta e alla lavorazione del cacao, stavano insomma cercando di rilanciare l’economia della zona.
Alla fine si tratta di una bella storia, sembrava solo amara e invece, proprio come il cacao, alla fine…

Testo di © Marta Martínez

Fuori dal continente. Romania – Londra; Barcellona – Maiorca – Buenos Aires

Fuori dal continente
Quanto si intristì all'andarsene dal suo paese
Romania-Londra


So di una storia curiosa di immigrazione della nonna di mia mamma che emigrò in Inghilterra centoventi anni fa. In realtà, credo che ci siano molte storie curiose dei miei antenati, tuttavia abbiamo perso questi racconti per il passare del tempo e per colpa della cattiva memoria dei miei.
Quindi parlerò di Rose Blumenfeld, nata il 28 dicembre 1888 e proveniente dalla Romania. Alla fine del secolo diciannovesimo, vista l'ondata crescente di antisemitismo nel continente, lei e molti altri ebrei europei, decisero di emigrare in un paese sicuro, anziché far andare tutto a rotoli, circondati com'erano da una popolazione che ne aveva disprezzo.
Stando a quanto dice mia madre, all’inizio del Novecento, essere un'immigrante nel nostro paese - l'Inghilterra - non era così facile nemmeno una volta entrati, perché lo stato voleva controllare tutti attraverso i documenti di registrazione e sapere sempre dove ognuno alloggiasse. Nonostante queste imposizioni, tutto ciò era per Rose più gradevole di quello che aveva provato nel continente e, dato che c’era una comunità molto numerosa di ebrei a Stamford Hill, un quartiere nella zona est di Londra, immigrarci aveva comunque avuto un senso. Era un quartiere dove si conservava la ricchezza della nostra cultura e in cui tutti badavano a tutti.
Io, qui a Barcellona, da inglese comodo comodo, con la mia esperienza di immigrazione moderna, non me la sento di criticare gli immigranti di oggi, sapendo quello che patì la mia bisnonna e quanto si intristì all’ andarsene dal suo paese di nascita nel pieno della sua giovinezza.
Mia madre mi racconta che vivevano tutti in un appartamento piccolo piccolo e che in tutti i luoghi per cui passava Rose doveva registrarsi presso la polizia locale. Abbiamo ancora i suoi documenti di quei tempi, documenti di registrazione per gli ‘aliens’, ovvero gli ‘immigranti’. Era ovviamente opprimente per lei dover registrarsi ovunque andasse, perché ciò che più desiderava non era essere trattata così, bensì essere libera di muoversi. Alla fine degli anni Sessanta, il governo smise finalmente di controllarli (gli immigranti) attraverso tanti documenti e lei poté viaggiare all’interno del paese.


Testo di © Eddy Michaels
Se ne andò a Maiorca a costruire il cinema
Barcellona-Maiorca-Buenos Aires


La storia dello zio Joan, il marito della sorella della mia bisnonna, non è per niente usuale. Lui era un saldatore di Barcellona quando, all'inizio del XXº secolo, non ce n'erano molti. Così se ne andò a Maiorca a costruire il cinema Augusta (vicino alla casa dei miei genitori, a Palma).
Tutto però se ne andò a rotoli con la guerra e lui, anziché ritornare a Barcellona, dovette diventare soldato e rimanere a Maiorca. Nonostante questo cambiamento di programma, per lui non fu una disgrazia, bensì una fortuna.
Un giorno, quando il suo squadrone passava per Llucmajor, un grande paese di Maiorca, egli vide due ragazze giovani, una delle quali stava cucendo. Andò verso di loro con un bottone e gli chiese se glielo potevano cucire sulla camicia. È così che conobbe la zia Francisca (in tutta la mia famiglia abbiamo lo stesso nome), una maestra di scuola.
All'inizio Francisca usciva con un uomo di Llucmajor, il suo paese e quello dei miei nonni. Tuttavia, si innamorò pazzamente di quel catalano saldatore e lasciò il “llucmajorer”, che non si sposò mai con nessun’altra.
Dopo la guerra, si trasferirono a Barcellona, si sposarono e ebbero una figlia. Però non si accontentarono di una vita tranquilla: decisero di vivere un'altra avventura.
Ma come finirono in Argentina?, vi chiederete. Dato che offrirono allo zio Joan un lavoro a Buenos Aires con una casa pagata e tutto bell'e pronto, non si può dire che partirono per scappare dalla povertà. Il lavoro di meccanico saldatore che avrebbe dovuto fare era in una fabbrica.
Vissero a Buenos Aires per molti anni e Joan vi fondò la sua di fabbrica e l'attività che aveva messo su diventò molto prospera, con più di cento persone impiegate.
Quando furono più vecchi, non se la sentirono di morire in un luogo che non era il loro e si rattristarono un po'. Quindi, alla fine, dopo essere andati in pensione, decisero di tornare a Maiorca per passarci la vecchiaia.
Lui morì a Palma una decina d'anni più tardi, nella sua terra amata.



Testo di © Francesca Vidal
Foto © Antonio Crialesi ● www.crialesi.it
Giugno 2016

Viaggio di sola andata. Burgos – La Bisbal; Jaén – Barcellona


Viaggio di sola andata

E lì fu mandato a dare buoni consigli ai contadini locali
Burgos - La Bisbal


Una storia d’immigrazione che mi piacerebbe raccontare è quella di mio suocero, Luis Prieto.
Nato a Burgos nel dopoguerra, nella sua giovinezza studiò prima nella sua città e dopo a San Sebastián e Navarra.
I suoi genitori, entrambi impiegati statali a Burgos, gli avevano consigliato di diventare ingegnere agronomo.
Dato che uno dei cinque figli avrebbe dovuto occuparsi delle proprietà della famiglia, avevano pensato proprio a lui. Non parliamo di possedimenti d’una ricchezza enorme, bensì d’una normale proprietà, anzi un po’ arida, in un piccolo paese della Tierra de Campos, vicino a Palencia, che sarebbe comunque stata in grado di dare da vivere, e pure abbastanza bene, a una famiglia.
Siccome nessuno dei figli se la sentiva di lavorare la terra, la tradizione agricola familiare se ne sarebbe andata a rotoli, se i genitori non avessero scelto lui. Anche se in quel paesino veramente non ci abitavano ogni giorno dell'anno, ma piuttosto d'estate, Luis fin da piccolo aveva molto amato quella terra.
E fu così che, seguendo il volere e la tradizione familiare e prima di trasferirsi definitivamente al villaggio, fece un esame per diventare ingegnere agronomo statale. La sorpresa arrivò quando, una volta superato l’esame, lo destinarono a La Bisbal, una località vicino a Girona e all'estremo est della Spagna e lì fu mandato a dare buoni consigli ai contadini locali; nessuno aveva davvero mai sospettato che lo potessero mandare in un posto che non fosse Burgos...
Stando così le cose, mio suocero, ormai rassegnato a andarsene da un'altra parte, acquistò subito un dizionario castigliano-catalano e fin dall’inizio cercò di integrarsi nella cultura locale e di parlare con gli agricoltori della zona nella loro propria lingua. Sebbene questo sembri normale oggi, nei primi anni sessanta (eravamo ancora nella Spagna franchista), non c’erano tanti impiegati statali spagnoli che lo facevano. Tutt'altro, molti volevano ritornare nella loro provincia il prima possibile.
Una volta appreso il catalano, Luis si innamorò d’una catalana. Ecco fatto! Matrimonio, figli, eccetera, eccetera...
Non pensò mai più di ritornare nel paesino della Castiglia, ma di diventare un vero catalano d’adozione.
Insomma, alla fine il progetto che per lui avevano pensato i suoi genitori era fallito, perché il ragazzo aveva seguito la sua strada.
Oggigiorno i campi nel bel paese della provincia di Burgos, venduti ormai da tempo, vengono ancora coltivati e chi se ne occupa è un cugino del protagonista di questa storia.




Testo di © Pere Gifra
Vide per la prima volta il suo primogenito in carcere
Jaén - Barcellona



Manuel nacque a Jaén nel 1915 e ha una strana storia di emigrazione, giacché non è stata la povertà o la ricerca di avventura quello che ha motivato il suo viaggio.
A causa del servizio militare fu trasferito a Barcellona e siccome suo padre era 'guardia civile', lui fu destinato allo stesso reggimento.
Mentre faceva ancora il servizio militare, nell'anno 1936 scoppiò la guerra civile e Manuel faceva parte di quella metà dei militari che erano stati fedeli alla repubblica; la qual cosa, insieme alle sue idee comuniste, gli avrebbe portato un bel po' di problemi.
Non era nei suoi piani rimanere a Barcellona, ma un po’ prima del colpo di stato, Manuel aveva conosciuto Maria, i cui genitori vedevano di cattivo occhio il loro rapporto perché la ragazza aveva lasciato un altro fidanzato apparentemente più equilibrato e stabile di Manuel. Nonostante questo fidanzamento non fosse per niente facile, da un lato per il confronto con la famiglia di lei e dall’altro per la situazione di conflitto sociale, la coppia andò comunque avanti per la propria strada. Manuel, che non si tirava facilmente indietro, si disse che Maria sarebbe stata sua moglie.
Manuel se ne andò al fronte di guerra poco dopo aver sposato Maria, che era incinta. Dopo pochi mesi egli venne arrestato dalla polizia e incarcerato nella prigione di Cadice, con l'accusa di ribellione (anche se lui sosteneva che i ribelli erano loro); più tardi fu trasferito a Barcellona, e in attesa di processo rimase nel carcere di Montjuïc per tre anni. Nel frattempo Maria aveva dato alla luce il suo primo figlio.
Manuel vide per la prima volta il suo primogenito in carcere, e una seconda volta nel processo in cui fu condannato a morte. Tuttavia un colpo di fortuna cambiò il destino della giovane famiglia: Manuel fu liberato ed uscì dalla prigione, a condizione che si presentasse ogni settimana in caserma.
Sebbene Manuel in qualche modo avesse iniziato un nuovo percorso di vita, come conseguenza dei tre anni senza libertà e della stretta sorveglianza a cui era soggetto, non ce la faceva a tirare avanti la famiglia; per fortuna Maria era una donna forte e ottimista, quindi lei badava a tutti e a tutto, senza mollare mai. Questa storia però non è sempre stata così tragica, ci furono dei bei momenti; la famiglia crebbe, Manuel recuperò la gioia di vivere, e anche la sua passione per la poesia, regalando alla famiglia un nuovo spirito che ancora oggi permane.
Manuel non se la sentì mai di tornare a Jaén, diceva sempre che Barcellona, la Catalogna, dove era arrivato quasi per caso, era il suo posto. Due ricordi sono ancora vivi nella mia memoria: mio nonno Manuel mentre mi legge poesie di Miguel Hernández e la sera della sua morte, mentre sussurrava: assassini, assassini. Mi intristisce, quando ci penso.

Testo di © Yolanda Olmos
Foto © CapGazette
Aprile 2016

Le barche. In partenza da Barcellona, sulle rotte d’altri tempi

Barche

In partenza da Barcellona, sulle rotte d'altri tempi
Tra il tredicesimo e il quindicesimo secolo le navi che salpavano dal porto di Barcellona, battendo bandiera catalano aragonese, si dirigevano verso il Mediterraneo occidentale o quello orientale e verso i paesi del nord. Come cambiava il commercio col percorso marittimo?
Verso la Sicilia viaggiavano tessuti e armamenti, olio di Mallorca, riso di Valencia e miele di Tortosa, mentre sulla stessa rotta ma in senso contrario venivano trasportati il grano e lo zucchero (caricati a Palermo e a Messina erano destinati a raggiungere più tardi anche i paesi del Nord), la seta, il cotone e il corallo. A Napoli, che era un porto molto importante per gli scambi internazionali, ci si riforniva invece di vino bianco e rosso e di magnifici cavalli e i catalani vi vendevano zafferano, cera e sale di Ibiza.
In Nord Africa, soprattutto a Tunisi e a Algeri, si commerciavano utensili agricoli e stoffe in cambio d’oro e di schiavi, di corallo e di cera.
Anche sulla via del Levante, solcata prevalentemente da quelle grandi potenze marittime che furono Genova e Venezia, le navi catalane si guadagnarono un certo prestigio. Toccavano solitamente i porti di Alghero, Cagliari, Gaeta, Napoli, Palermo, Messina, Siracusa e Rodi e da qui prendevano la rotta che portava o a Beirut o a Alessandria d’Egitto. Il viaggio variava dai tre ai tredici mesi, a seconda degli scali, ma al ritorno, prima di approdare nuovamente a Barcellona, l’ultima tappa era sempre quella che si effettuava sull’isola di Mallorca.
Sulla rotta del Levante, chiamata anche rotta d’Oriente o d’Oltremare, il commercio più importante era indubbiamente quello delle spezie: pepe, incenso, mirra, zenzero, cannella e sandalo venivano scambiati con corallo, olio, nocciole, mandorle, piante aromatiche e zafferano, l’unica spezia esportata dal Mediterraneo occidentale. I preziosi tessuti di Damasco venivano scambiati con panni più economici, con lana e col vino liquoroso di Cipro. Il benessere dei mercanti, degli artigiani e dei contadini della corona catalano aragonese dipendeva prevalentemente dagli affari commerciali della rotta di Siria e Egitto: le entrate che si ricavavano dalla vendita dei prodotti acquistati in Oriente e riesportati in Castiglia, in Provenza e nei paesi del Nord dovevano infatti assicurare il lavoro nelle botteghe artigianali e nei campi dei territori della Corona.
Sulla rotta atlantica le navi che partivano da Barcellona toccavano i porti dell’Almeria, di Malaga, di Siviglia, di Cadice, di Lisbona per poi avventurarsi verso la Manica in direzione dell’Inghilterra o delle Fiandre.
Oltre a tutte le altre mercanzie che giungevano dai paesi del Levante o dalla Sicilia, i prodotti che solcavano queste acque erano prevalentemente alimenti in grado di sopportare il lugno viaggio: fichi secchi, mandorle, pinoli ed infine lo zafferano che nelle Fiandre veniva usato sia come spezia, che come colorante nella tinteggiatura dei tessuti.
Dai paesi del Nord si importavano metalli, in particolar modo il ferro che serviva a fabbricare coltelli e armi, pelli scandinave e russe, cappelli, berretti e piume per riempire i cuscini, stoffe d’ogni genere ed infine il legname.
Parliamo di mercanzie ma con loro anche di mercanti, crociati e pellegrini, di soldati alla mercé della corte, di uomini, donne e bambini che venivano trasportati nelle terre conquistate per ripopolarle; umanità in movimento e legami tra terre lontane, di cui ancor oggi rimane traccia nelle lingue e nelle tradizioni popolari, nei tratti somatici e nei caratteri delle persone.
Nel 1490 venne pubblicata a Valencia un’opera dello scrittore Joanot Martorell, dal titolo Tirant lo Blanc, destinato a diventare un classico della letteratura catalana medievale. Il libro narra le avventure cavalleresche di Tirant e del suo amore per Carmesina, la figlia dell’imperatore greco; le terre che l’eroe percorre evocano le rotte marittime commerciali di cui abbiamo parlato: l’Inghilterra, la Sicilia, Rodi, Costantinopoli, il Nord Africa.
Le stesse leggende popolari catalane sono costellate da personaggi che sono i protagonisti, e i testimoni, di una storia densa di avventure per mare; per esempio il Pescatore di Corallo, che è la vicenda di un povero orfano che un giorno, all’epoca del re Pietro, venne portato con altri giovani ad Alghero per ripopolare la terra. La leggenda racconta che giunto nell’isola, il ragazzino iniziò a lavorare come
pescatore e in una mattina di festa, mentre passeggiava per il paese, all’improvviso vide uscire dalla messa una donna bellissima e se ne innamorò perdutamente. La fanciulla era la figlia del Signore (veguer) d’Alghero ed abitava in un sontuoso palazzo affacciato sul mare. Un giorno il pescatore trovò in fondo al mare un ramo di corallo rosso, lo strappò, tornò a galla e corse a darlo in dono all’amata fanciulla. La figlia del Signore rimase abbagliata dalla generosità del pescatore e dalla preziosità di quel dono e gli chiese di portargliene ancora. Il ragazzo obbedì e per molte notti si aggrappò agli scogli sui quali si ergeva il palazzo dell’innamorata e arrampicatosi fino alla finestra tendeva la mano e le porgeva il corallo. Fin quando in una notte malaugurata, il padre della ragazza, messo al corrente di quegli incontri segreti, lo aspettò; quando il pescatore iniziò a salire per le rocce, l'uomo lo spinse e lo fece cadere giù. Il ragazzo andò a sbattere contro gli scogli e precipitò in mare. Si narra che il suo corpo senza vita venne trasportato fino alle grotte di Nettuno dove nelle notti di mare calmo ancor oggi si vede crescere altissimo sul turchese dell’acqua un ramo di rosso corallo.
Madre, se fossi marinaio,
marinaio di quelli buoni,
me ne andrei in alto mare
solo con la mia barca;
il vento sarebbe un grido di gioia,
la vela, colomba bianca,
il cuore d'un blu come d'incanto
e gli occhi d'un verde di speranza.
Se in quelle notti invece il mare fosse in burrasca, vi potrebbe capitare di avvistare all’orizzonte la Barca dei dormono e cantano e di sentire le voci dei “mori” destinati a una fuga perenne fin dall’epoca in cui Giacomo I° conquistò Mallorca. Pare che durante la notte queste anime in pena arrivino fino alla fine del mondo e che da lì tornino alle nostre acque. Tra i lampi, forse scorgereste le fiamme delle vele del vascello che arde e sentireste l’equipaggio russare o cantare all’infinito.


Text: Baldassar Perruccio © CapGazette
Trad. poesia di Miquel Martí i Pol: Paolo Gravela © CapGazette
Foto: © Renata Scanu
Luglio 2015

Le barche. Le Drassanes e il Museu Marítim di Barcellona

Barche

Le Drassanes e il Museu Marítim di Barcellona

Dopo esser passate per il genovese e il veneziano, la ‘casa del mestiere' o la 'fabbrica’, custodite dalla parola araba Dār-ṣinā῾a, sono approdate nell'italiano sotto forma di 'darsena’ e 'arsenale’.
Nella città di Barcellona i più antichi arsenali marittimi, in catalano les drassanes, risalivano all’XI° secolo. Tuttavia, gli unici di cui oggi rimane testimonianza sono quelli che vennero costruiti ai piedi del Montjuïc a partire dalla seconda metà del XIII° secolo, sotto il regno di Pietro il Grande. Nel XIV° secolo, il re Pietro il Cerimonioso diede il via alla costruzione delle navate e l’arsenale assunse l’aspetto che tuttora conserva; si racconta che quell'ampliamento prese dimensioni tali che all'interno vi si potevano costruire contemporaneamente fino a 30 galere.
Quando nel 1369 si innalzò il terzo anello della cinta muraria cittadina, le darsene entrarono definitivamente a far parte del nucleo cittadino. Oggi sono la sede del Museu Marítim di Barcellona. Il centro propone un percorso tra le imbarcazioni che solcarono le acque catalane, mediterranee e oceaniche nel corso dei secoli, facendo rivivere al visitatore sia la storia medievale della potenza marittima catalano-aragonese, che quella delle navi moderne impiegate nella rotta d’oltreoceano. Tra barche da pesca di distinti tipi, navi da guerra e immagini di transatlantici il pezzo forte è senza dubbio la riproduzione de “La Capitana”, la Galera Reale di Giovanni d’Austria che venne costruita qui nel 1568 e che nel 1571 portò i cristiani a vincere i turchi nella battaglia di Lepanto; è lunga 59 metri ed è decorata con preziosi motivi barocchi dai colori rosso ed oro.
Non poteva mancare una riproduzione dell’'Ictineo', il primo sottomarino della storia che proprio nelle acque del porto di Barcellona si immerse nella seconda metà dell’Ottocento. Ci incuriosisce inoltre l'esposizione dei mascarons (mascheroni o polene), quelle figure in legno di uomini e animali selvaggi o mistici che venivano installate sulla prua per allontanare le forze occulte del mare. Qui la Blanca Aurora, il Negre de la Riba, il Ninot non sono altro che versioni ottocentesche dell'occhio protettore di Egizi e Fenici e delle sculture delle navi vichinghe. La scultura del Ninot, che è un ragazzino che porta in una mano un diploma di nautica e nell’altra un berretto da marinaio, è probabilmente la più nota in città grazie al fatto che sulla facciata di uno dei mercati primo novecenteschi più frequentati, chiamato appunto il ‘Mercat del Ninot’, è in bella mostra una sua riproduzione in bronzo.


Secondo la leggenda si tratterebbe di un mascaró appartenuto ad una nave di trasporto di schiavi naufragata nella costa barcellonese; si racconta che il capitano si salvò dal naufragio aggrappandosi al Ninot per raggiungere la città.
Appena messosi in salvo, il capitano festeggiò così di gusto e di bevute che quella notte dimenticò il mascherone in una taverna che si trovava di fianco ad un mercato, ancora senza nome...
Stando invece a un'altra versione, il Ninot sarebbe appartenuto ad una nave di bandiera italiana che in una notte di tempesta approdò nel quartiere della Barceloneta; una ragazza che passeggiava in riva al mare col fidanzato e i suoceri, vedendo arrivare la nave, mise alla prova il promesso sposo, chiedendogli di recuperare la polena della nave.
E l’innamorato così fece, la ragazza se ne tornò a casa col suo Ninot e il giorno dopo il padre, pure lui fiero della prodezza del genero, lo appese nella taverna che gestiva vicino ad un mercato.
L’edificio delle drassanes di Barcellona è uno splendido esempio di gotico civile catalano con una parte centrale formata da otto navi parallele ad archi semicircolari sostenuti da pilastri di sei metri. Anche se pare che dell’originario edificio rimanga solo la facciata marittima risalente al XIV° secolo, nel corso delle modifiche apportate successivamente si adottò la stessa tipologia costruttiva della struttura originaria; continuano dunque a risaltare alcuni elementi gotici tipicamente catalani e assenti nell'architettura dello stesso stile diffusasi nel resto d’Europa: gli archi semicircolari non delimitano un lungo corridoio slanciato verso il cielo, bensì grandi sale quadrangolari, che danno la sensazione di un unico ed ampio spazio e oltre alla pietra, materiale più rappresentativo del gotico europeo, si è fatto uso anche del legno.

Gli arsenali passarono sotto il controllo della corona di Castiglia a metà del XVII° sec., dopo la guerra dei Segadors (1640-1659) e con Filippo Vº furono destinati ad arsenale militare; solo nel 1935 l’esercito li cedette alla città di Barcellona.
Tra la prima metà del XIII° sec. e il XV°, in epoca d’espansione della marina catalano-aragonese, negli arsenali di Barcellona si costruirono imbarcazioni di tutti i tipi, dalle barche più piccole fino alle grandi navi commerciali che percorrevano le rotte verso il Levante e verso i paesi del Nord Europa. Il legno utilizzato proveniva prevalentemente dai boschi dei Pirenei, ma anche da quelli della Croazia e delle Fiandre. Al suo interno lavoravano i costruttori di corde (corders) e di remi (remolers) , i tessitori di vele (velers), i fabbri (ferrers) e i maestri d'ascia ovvero i falegnami marittimi (mestres d’aixa). Terminata e preparata la nave, i proprietari la affidavano al capitano (patrò). Con lui avrebbero viaggiato due scrivani-contabili, uno con il compito di controllare e segnare su un registro tutte le spese e le entrate del viaggio e l’altro responsabile della mercanzia lasciata a bordo al momento della partenza. Oltre a mozzi e marinai, non sarebbe mancato un barbiere, che all'occorrenza sarebbe diventato chirurgo, i trombettieri per gli ordini da trasmettere all’equipaggio, il maestro d'ascia e una persona che si sarebbe occupata dei salari.


Text: Nicoletta De Boni © CapGazette
Foto: © Renata Scanu
Maggio 2105