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L’orologiaio. Barcellona/Londra

L’orologiaio (appunti sul tempo e le città) - Barcellona/Londra

Poblenou, Barcelona
East End, London


[…] These fragments I have shored against my ruins [1] […]
T.S. Eliot

Remor de cops d’aixada, no la sents?
Rera les altes tanques de paret.
Sense repòs, però molt lentament,
ennllà de la cleda contínua del temps.
[2] […]

Salvador Espriu


[1] […] Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine […]

[2] Rumore di colpi di zappa, non lo senti?
Dietro gli alti muri di recinzione.
Senza sosta, ma molto lentamente,
oltre il recinto continuo del tempo. […]

Da quando è andato in pensione il signor B.D. [3], ex orologiaio, ha preso casa al Poblenou, a Barcellona. Dice che si trova abbastanza bene, che può sbrigare le sue faccende quotidiane indisturbato, senza troppi intoppi: fa, disfa, prega, pellegrina, fruga nella spazzatura, raccatta di tutto, dirige il traffico, piscia negli angoli di strada.
Visto che gli passano una buona mesata - ha un'ineguagliabile anzianità di servizio - abita in un loft ricavato in un vecchio capannone industriale in disuso, di quelli con scala di ferro esterna, in un vicolo non lontano dal cimitero [4] (e dove, se no?).
A colazione mangia spesso pane e sardine in un bar tenuto da un libanese musulmano - perché lui, il signor B.D., è ecumenico, o per lo meno lo è diventato: da vecchi bisogna sforzarsi di diventare più tolleranti, pena l’abbandono.
La sera, invece, gira intorno alla Casa di Abramo (tempio ecumenico di belle speranze anche lui) incerto sul da farsi: una bella sbronza per dimenticare o una partita a domino sul lungomare per ricordare?

[3] “[…] il Signor B.D. è un ottimo orologiaio. Pallido e acquatico un morto buongiorno ondeggia nell’aria, che triste stagione! […]"
Parafrasi espressionista di testo dadaista di Tristan Tzara (Un cuore a gas).

[4] Il cimitero del Poblenou mi ricorda, a me torinese, quello di san Pietro in Vincoli a Torino, accanto al Cottolengo. Per altro anche il Cottolengo e ancor più il Signor Don Bosco hanno lasciato il loro segno a Barcellona.

In origine il Poblenou era parte del municipio indipendente di Sant Martí dels Provençals; poi, dopo una contestata votazione comunale, divenne quartiere barcellonese dei carrettieri (data l’umidità del luogo, pare che nelle stalle del pianterreno di notte i cavalli venissero appesi al soffitto per scansare i reumatismi); in seguito, nella prima metà del XX secolo fu il luogo delle fabbriche, dei giornali e delle utopie; nel 1992 è poi stato coinvolto nell’epopea moderna della Barcellona olimpica (tanto che un’area del quartiere si chiama ora Vila Olímpica); infine - ma infine solo per ora -, ribattezzato per incanto 22@, è diventato il distretto tecnologico, dell’architettura, del design e della moda.
La toponomastica è spesso crudele. Nasconde ciò che dovrebbe svelare. Eppure, se studiata con cura, è una mappa del tempo che passa. I luoghi cambiano nome e abitudini, eppure mantengono (o almeno ci provano, aggrappandosi con le unghie alle macerie) tracce dei nomi precedenti, del loro passato. Bisogna avere pazienza, scavare un po’ sotto la superficie, domandarsi e domandare, frugare negli archivi e nelle biblioteche, leggere le insegne, i volantini, le scritte sbiadite sui muri, sui lampioni, le targhe seminascoste nei giardini, tra le righe dei piedistalli delle statue…
Parlo con Carlos, figlio naturale del Poblenou, bagatto e scacchista, e mi dice di una chiesa che prima c’era e che ora non c’è:
- Stava vicino a Carrer Doctor Trueta, io la ricordo bene, ma non ne resta traccia. Vieni, ti ci porto, sono nato lì vicino. La fece costruire il proprietario di una fabbrica per evitare che lo costringessero a sgombrare. Non mi è chiaro se fosse un voto o solo speculazione edilizia. Probabilmente entrambe le cose.
- È il gioco delle tre carte: qui c’era una fabbrica, ora la fabbrica dov’è? Non perdere d’occhio le carte: qui c’era una strada, la vedi? Ora, la strada dov’è?

All’inizio c’erano le maremme, le lagune della vicina foce del fiume Besòs (ne resta il nome di una strada e di una fermata della metro: Llacuna, laguna), poi i primi nuclei abitati del comune di san Martí dels Provençals, fuori le mura barcellonesi, a nord-est del centro città, i campi agricoli, le vie dei trasporti.
La storia del Poblenou, però, è soprattutto legata all’industria, alle fabbriche e alla vita dei lavoratori: capannoni, villaggi industriali, binari ferroviari, ciminiere di cui è ancora possibile scovare i segni qua e là. Ma bisogna fare in fretta.
- Alcune fabbriche sono ancora in funzione, ma niente a che vedere con quello che era…
Seguendo il filo delle trasformazioni, i tic tac irregolari e diacronici della bottega dell’orologiaio, eccoci altrove, a Londra. Cediamo la parola a Danny e al suo East End.

“My East End is Victoria Park, where the new East Londoners jog, while the old ones smoke a spliff on the park benches, and it wasn’t that long ago you wouldn’t go through it after dark.
My East End is the boarded up estates on the Old Ford Road, reminder of the finest hour of the welfare-state that the new rich are desperately trying to sweep under the carpet.
My East End is Pellicci’s, where a third-generation Italian family has become the heart of the cockney community of Bethnal Green.
My East end is Bethnal Green market, Whitechapel Market, and all the other markets, scruffy and selling all sorts, from and for people from the world over.
My East End is Turin Street, a tiny non-descript street off Columbia Road, which symbolically brings together who I am now, and where I once came from…”.

“Il mio East Est è Victoria Park, dove i nuovi residenti fanno jogging, mentre quelli vecchi fumano una canna sulle panchine del parco, e non molto tempo fa non ci si entrava col buio.
Il mio East End sono le vecchie case popolari sigillate, tappate, di Old Ford Road, un souvenir dei bei tempi del welfare che i nuovi ricchi stanno disperatamente cercando di nascondere sotto il tappeto.
Il mio East End è Pellicci’s, dove una famiglia italiana di terza generazione è diventata il cuore della comunità cockney di Bethnal Green.
Il mio East End sono il mercato di Bethnal Green, quello di Whitechapel, e tutti gli altri mercati trasandati dove gente di ogni angolo del mondo vende e compra di tutto.
Il mio East End è Turin Street, una via minuscola e insignificante dietro Columbia Road, che simbolicamente mette insieme chi sono adesso e il posto da dove sono venuto…”
Da Barcellona a Londra: ogni città europea vanta un vecchio quartiere industriale che è stato a poco a poco abbandonato e più tardi “ringiovanito”. Il signor B.D. è andato in pensione e un nuovo orologiaio più preciso (più umano o più disumano?) lo ha sostituito.

“… My East End is the Bangladeshi communities of Shadwell, Spitalfields, Whitechapel, Stepney, and the best curries in the whole world (well, Europe at least).
My East End is the woman who shouts ‘C’mon West Ham’ at my claret and blue shirt as I cycle past her through one of the few remaining estates off Cable Street, in Shadwell.
My East End is the Turner’s Old Star, the last ungentrified pub left in Wapping (shame they support Spurs there), and the Palm Tree, the Marquis of Cornwallis and any other boozer that refuses to yield to the new trendies in town…”

“… Il mio East End sono le comunità bengalesi di Shadwell, Spitalfields, Whitechapel, Stepney e i migliori curry del mondo intero (beh, almeno d’Europa).
Il mio East End è la donna che grida ‘Forza West Ham’ quando le passo accanto in bici con la mia maglia granata e blu davanti a una delle poche vecchie case popolari rimaste dietro Cable Street, a Shadwell.
Il mio East End sono il Turner’s Old Star, l’ultimo pub non messo in tiro rimasto a Wapping (peccato siano del Tottenham), e il Palm Tree, il Marquis of Cornwallis e ogni altra bettola che si rifiuta di cedere ai nuovi trendy calati in città…”
Fieri del proprio quartiere di nascita come Carlos o consapevoli di essere stati in qualche modo parte della gentrification - pre-gentrification un po’ sfigata se vogliamo: tipi bizzarri, stralunati e abbastanza sconsiderati da mandare in avanscoperta, - come Danny e il sottoscritto, gotici o grunge, snob o cialtroni, raccontiamo quello che abbiamo visto o immaginato di vedere, senza troppa paura delle incoerenze, ma senza saltellare d’entusiasmo per un progresso avvizzito e tirato a lucido, il botox urbano dal linguaggio facile, leggero, devastante, privo al contempo di ironia e di storia, quest’eterna infanzia delle moderne parole. Parole vuote, moribonde, in disuso ancor prima d’essere in uso, foglie di fico.

L’orologiaio, vecchio o nuovo che sia, non ha pietà. Noi sì.
Testo narrativo: Lino Graz
Ballata in inglese: Danny Wintringham
Foto Poblenou: Lino Graz
Foto East End: Donia Jud
CapGazette 9/2016

Per il testo completo di Danny Wintringham.
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1623952401174901&id=1623935454509929

Breve appunto portoghese (o l’arte della digressione)

 
Breve appunto portoghese (o l’arte della digressione)

Sto leggendo Gonçalo M. Tavares, scrittore duro - non indulgente ma tutto sommato, e forse paradossalmente, clemente - di luoghi indeterminati e lingua precisa.

Lingua di precisione la sua, lingua di precisione il portoghese; ne siano esempi:
1- l’uso ancora vivo del futuro del congiuntivo, sfumatura in disuso in spagnolo e a cui altre lingue hanno rinunciato in partenza: falarei a verdade, doa a quem doer.
2 - l’infinito personale, vale a dire coniugato a seconda della persona: eu cantei uma canção para a menina dormir / para as meninas dormirem.

Decifratore, Tavares, delle malattie dei nostri tempi - anzi, delle malattie e basta: bella e triste la metafora della flor negra che troviamo per la strada e di cui non riusciamo più a liberarci.

Mentre leggo, torno col pensiero per libera associazione ad alcuni miei personali “segni portoghesi”: uno spaventapasseri quasi sul confine spagnolo, ironico segnale di frontiera, poco dopo Valencia de Alcántara; l’improvviso tacere (rispetto alla chiassosa Spagna, ma questo meriterebbe - e un giorno meriterà - un articolo a parte); le case bianche e la fabbrica del sughero di Portalegre; l’indimenticabile arrivo “trionfale” in bici a Lisbona di qualche anno fa, con Albert Àlvarez, amico illustratore (sue le illustrazioni in bianco e nero), dopo un lungo, sereno e poetico viaggio che da Madrid ci portò ad attraversare parte della Castiglia, dell’Extremadura e dell’Alentejo portoghese; l’orto botanico di Lisbona: a estufa quente e a estufa fria; una vista verticale del Tago dall’alto del Miradouro de Santa Catarina grazie a Rita Tojal, amica lisboeta che ha viaggiato più di Vasco da Gama; una pensione degna dei Ricordi della Casa Gialla (Recordações da Casa Amarela) film di João Cesar Monteiro. Poi il meandro del Douro a Oporto; il Museo delle Marionette, sempre a Oporto; la cortesia un po’ ingessata dei portoghesi, la loro cura del silenzio…

Di Gonçalo M. Tavares ho letto e consiglio vivamente Jerusalem e Aprender a rezar na Era da Técnica, Imparare a pregare nell’Era della Tecnica, che già solo il titolo vale anni di filosofie.

Tra “oggetti” personali, intimi, coperti di polvere antica, e inevitabili cliché da diario di viaggio, ritrovo naturalmente anche Fernando António Nogueira Pessoa e il suo poeta, artigiano e fingitore, di cui riporto sotto la versione originale portoghese e la mia zoppa traduzione italiana.

Autopsicografia

O poeta é um fingidor
Finge tão completamente
Que chega a fingir que é dor
A dor que deveras sente.

E os que lêem o que escreve,
Na dor lida sentem bem,
Não as duas que ele teve,
Mas só a que eles não têm.

E assim nas calhas de roda
Gira, a entreter a razão,
Esse comboio de corda
Que se chama coração.

(Fernando Pessoa, 1888/1935)
Autopsicografia
Il poeta è un fingitore / Finge così completamente / Che arriva a fingere che è dolore / Il dolore che davvero sente.
E quelli che leggono ciò che scrive / Nel dolore letto sentono bene, / Non quei due che egli ebbe, / Ma solo quello che essi non hanno.
E così nei solchi in tondo / Gira, intrattenendo la ragione, / Questo treno a molla / Che si chiama cuore.


Intro e trad: Paolo Gravela
Illustrazioni: Albert Àlvarez
Foto (Profilo a Oporto e Personaggi sui muri di Oporto): Lino Graz
CapGazette 1/2016

Postman’s Park. Londra ⎜Postman’s Park Londres

The Postman’s Park, Londra

Un discorso, ben fatto, sui ritmi della città di Londra spetta di diritto a chi ci vive o a chi bene la conosce; io che ci passo qualche giorno in vacanza sono solamente in grado di dire che questa frenesia che ho attorno è travolgente, appassionante, talvolta addirittura esilarante. Tuttavia dall’ilarità allo spavento il passo spesso è piccolo; ammettiamolo: in certi momenti questa velocità sfinisce e preoccupa anche solo a guardarla da una certa distanza. Ora la distanza è quella di chi va lentamente, si riposa su una panchina o siede al tavolino di un bar senza fretta, senza obblighi.
Grazie a Dio Londra offre a tutti, vacanzieri o no, anche un’inifinità di luoghi all’aperto in cui interrompere la marcia rapida, temporeggiare, sostare; spesso si tratta di giardini, parchi, anche cimiteri. Quiet corners. Eccone qui uno.
Se vi capitasse di trovarvi dalle parti della cattedrale di Sant Paul, già dentro i confini della City della capitale britannica, potreste rintanarvi per un po’ al Postman’s Park.
Fino al 1912, anno della sua demolizione, si trovava a pochi passi da qui la sede centrale del General Post Office del Regno Unito e il nostro ‘parco del postino’ deve il suo nome proprio al fatto che nella pausa pranzo i suoi lavoratori si incontravano qui. Una volta entrati i rumori si attutiscono e il ritmo cardiaco nostro e dell’intera città rallentano.
La piccola loggia che appare in uno dei lati del parco è il Memorial to Heroic Self Sacrifice voluto dal pittore e scultore simbolista George Frederick Watts e inaugurato il 30 luglio del 1900. In occasione del 50º anniversario dell’incoronazione della regina Vittoria, Watts aveva proposto al comune di Londra di festeggiare la ricorrenza con la costruzione di un monumento dedicato agli eroi sconosciuti, ovvero alla gente comune che aveva perso la propria vita per salvarne una altrui. Il pittore era convinto che il ricordo di quelle morti potesse fornire ai suoi concittadini un modello di comportamento e un esempio di rettitudine da seguire. In una lettera inviata al Times nel settembre del 1887 Watts scriveva: «It must surely be a matter of regret when names worthy to be remembered and stories stimulating and instructive are allowed to be forgotten. It is not too much to say that the history of Her Majesty's reign would gain a lustre were the nation to erect a monument, say, here in London, to record the names of these likely to be forgotten heroes.»
La proposta, che inizialmente prevedeva la costruzione all’interno di Hyde Park di una specie di camposanto coi nomi degli eroi incisi su una lunga parete di marmo, non venne mai presa in seria considerazione; nonostante ciò George e la moglie Mary non abbandonarono l’idea.
Mentre iniziava a donare alcune delle sue opere alla Tate e si dedicava alla costruzione della Watts Gallery a sud-ovest di Londra, il pittore continuava infatti a conservare tutti i ritagli di giornale in cui si parlasse della morte disgraziata, ma pur sempre eroica, di un londinese. Poi, quando finalmente nell’estate del 1900, quattro anni prima della sua di morte, Watts realizzò il suo particolare camposanto la loggia commemorava in realtà solo quattro di quelle vittime esemplari; solo negli anni successivi ne furono aggiunte altre cinquanta. Il nome e la causa della morte degli ‘eroi di ogni giorno’ sono scritti su piastrelle in ceramica, alcune decorate dall'artista William De Morgan (1839-1917), altre opera dei ceramisti della Doulton of Lambeth.
Nel rispetto delle intenzioni di Watts, ne leggeremo alcune, contribuendo a strappare all’anonimato questi comuni salvatori, e metti mai che ci riesca pure di illuderci che quando fra poco ci ributteremo nel via vai della City, trai velocipedissimi londinesi, avremo anche noi a fianco il nostro eroe pronto a soccorrerci.
The Postman's Park, Londres

Un discurso, bien hecho, sobre los ritmos de la ciudad de Londres merece la autoría de quien en ella vive o, por lo menos, de quien bien la conoce, yo que paso aquí algunos días de mis vacaciones sólo podré decir que el frenesí que me rodea es impetuoso, apasionante, incluso hilarante. Sin embargo, de la hilaridad al susto, el paso puede ser muy corto y habrá que admitir que este vaivén de velocidades a veces extenúa o tal vez preocupa, aunque se observe desde cierta distancia. Ahora mismo es la distancia de quien anda lentamente, descansa en un banco sin prisa alguna, sin obligaciones.
Ya saben que, afortunadamente, Londres también ofrece a todos una infinidad de lugares al aire libre donde detenerse, tomar tiempo, interrumpir la marcha rápida. A menudo se trata de jardines, parques, tal vez cementerios. Quiet corners. Aquí va uno.
Si un día se encontraran en la zona de la catedral de San Pablo, ya dentro de los límites de la City, les aconsejaría que se escondieran durante unos minutos en el Postman’s Park. Hasta el 1912, año de su demolición, a poca distancia de aquí se hallaba la Oficina Central del General Post Office del Reino Unido y, de hecho, nuestro ‘parque del cartero’ se define así porque era aquí donde sus empleados se encontraban a la hora de comer. Una vez en el interior, los ruidos se amortiguan y el ritmo cardiaco nuestro y de la ciudad entera ralentizan. La pequeña galería que aparece en uno de los lados del parque es el ‘Memorial to Heroic Self Sacrifice’, ideado por el pintor y escultor simbolista George Frederick Watts.
En ocasión del 50º aniversario de la coronación de la reina Victoria, Watts había propuesto al ayuntamiento de Londres que se celebrara la fecha con la edificación de un monumento dedicado a aquellos héroes desconocidos que habían perdido su vida para salvar otra. El pintor estaba convencido que el recuerdo de aquellos muertos proporcionaría a sus conciudadanos un modelo de comportamiento y un ejemplo de rectitud que valdría la pena seguir. En una carta que envió al Times en septiembre de 1887, Watts comentaba: «It must surely be a matter of regret when names worthy to be remembered and stories stimulating and instructive are allowed to be forgotten. It is not too much to say that the history of Her Majesty's reign would gain a lustre were the nation to erect a monument, say, here in London, to record the names of these likely to be forgotten heroes.»
Su propuesta, que inicialmente preveía que se construyera en Hyde Park un camposanto con los nombres de los desaparecidos gravados sobre una larga pared de mármol, nunca se tomó verdaderamente en cuenta. Sin embargo, él y su mujer Mary no abandonaron su idea. Mientras empezaba a donar algunas de sus obras a la Tate Gallery y se dedicaba a la nueva Watts Gallery que estaba surgiendo al sur oeste de Londres, el pintor seguía guardando los recortes de los diarios donde se narraba la muerte desgraciada, pero igualmente heroica, de un londinense.
En realidad, más tarde, cuando por fin su peculiar camposanto se realizó e inauguró en el verano de 1900, en la galería sólo se conmemoraban cuatro de aquellas ejemplares víctimas; en los años siguientes, fueron añadidos unos cincuenta nombres más. El nombre del fallecido y la causa de su muerte se escribieron sobre azulejos, algunos decorados por el artista William De Morgan (1839-1917), otros producidos por los alfareros de la famosa ‘Doulton of Lambeth’.
Respetando las voluntades del señor Watts, leeremos algunos, contribuyendo de tal manera a rescatar del anonimato unos humildes salvadores y nunca se sabe, tal vez nos sirva también para convencernos de que cuando llegue el momento de salir de aquí tendremos a nuestro héroe al lado, entre esos rapidísimos londoners
«Soloman Galaman, deceduto all’età di 11 anni, in seguito alla ferite riportate per salvare il fratellino che rischiava di essere investito sulla Commercial Street: “Madre, ho salvato lui, ma non sono riuscito a salvare me stesso” - 6 Settembre 1901»
«Frederick Alfred Croft, ispettore, deceduto all’età di 31 anni, travolto da un treno alla stazione di Woolwich dopo aver salvato dal suicidio una donna malata di mente - 11 gennaio 1878»
«Ernest Benning, tipografo, deceduto all’età di 22 anni in una notte buia, dopo essere caduto da una barca all’altezza di Pimlico ed aver salvato una donna che sorreggeva con un braccio mentre con l’altro ancora si aggrappava ad un remo. - 25 agosto 1883»
«Richard Farris, manovale, deceduto per annegamento dopo essersi gettato in acqua nel tentativo di salvare una povera ragazza buttatasi nel canale presso il Globe Bridge - 20 Maggio 1878».
«Soloman Galaman, fallecido a los 11 años, después de ser atropellado mientras salvaba a su hermanito en Commercial Street: “Madre, le he salvado a él, pero no he logrado salvarme a mi mismo” - 6 de septiembre de 1901»
«Frederick Alfred Croft, inspector, fallecido a los 31 años, atropellado por un tren en la estación de Woolwich, después de evitar el suicidio de una mujer débil de mente - 11 de enero de 1878»
«Ernest Benning, tipógrafo, fallecido a los 22 años en una noche obscura, después de caer de su barco a la altura de Pimlico y salvar a una mujer que sustentaba con el brazo derecho mientras que con el otro se agarraba a un remo - 25 de agosto de 1883»
«Richard Farris, peón, fallecido por ahogamiento después de lanzarse en el canal con el intento de salvar a una pobre chica en la zona Globe Bridge - 20 de mayo de 1878».


Text & Foto: Baldassar Perruccio @ CapGazette
Settembre · Septiembre 2015

Il Museo del Giocattolo di Figueres

Il Museo del Giocattolo di Figueres
Per entrare al 'Museu del Joguet de Catalunya' di Figueres calpesto il gioco del mondo, quello che in realtà io ho sempre chiamato 'gioco della campana' e che qualcuno conosce anche come 'gioco della settimana', a seconda della parte d’Italia dove si è cresciuti. Oppure rayuela, xarranca, hopscotch, marelles, ula, tempelhupfen se siamo stati bambini in Argentina o in Catalunya, in Inghilterra o in Francia, in Nepal o in Germania. Una volta dentro, una riproduzione della Tour Eiffel del 1929 mi sembra lì per lì un bel modo per accogliere i visitatori che, oggi per lo meno, sono soprattutto francesi (fra un po’ capirò che la struttura vuole essere un esempio di grande meccano: 9.832 pezzi e 8.623 viti).
Il confine con la Francia è effettivamente a pochi chilometri da Figueres, nota prevalentemente per lo strampalato e capriccioso museo voluto da Dalì, che è infatti il motivo principale del passaggio in città di molti turisti. Mi chiedo se la vicinanza tra i due musei giovi al più piccolo o saranno solo coloro che viaggiano con bambini a visitare anche il 'Museo del Giocattolo'? Fosse così sarebbe un peccato, venendo qui incontreremmo infatti un grillo parlante desideroso di riaccompagnarci tra le stramberie dell'infanzia nostra, dei nostri genitori, nonni e bisnonni. Forse il grillo ce le canterebbe pure, per essere diventati troppo seriosamente adulti, e di un grillo parlante c'è da fidarsi...
In realtà arriveremo a epoche ancor più remote, se teniamo conto che nella prima sala del museo sono esposti giochi dell’antichità greca e di quella romana ritrovati negli scavi di Tarragona e in quelli di Empúries: bambole e poi dadi, pedine e tavolieri di osso, fango o avorio.
Tra l’altro, anche il gioco del mondo che ci dà il benvenuto all’entrata pare che abbia origini assai lontane, per la precisione nell’antico Egitto, e che poi si sia diffuso in tutta Europa sui selciati dell’Impero Romano, quando il gioco veniva detto ‘dello zoppo’ (claudus).
La maggior parte degli oggetti in mostra appartengono alla collezione di Josep Maria Joan Rosa che li ha donati alla sua città, dopo aver raccolto per anni centinaia di giochi di tutti i tipi e provenienze.
La suddivisione che ci viene proposta è tematica e i primi giochi che troviamo sono quelli che si fanno all’aperto, quindi pattini, monopattini, tricicli, birilli, corde, palle, trottole, cerchi (o hula-hop) e biglie. Subito dopo vengono i giochi legati al tema del viaggiare e qui la parte del leone la fanno i trenini elettrici e le autombili d’altri tempi, soprattutto dei primi decenni del Novecento e di fabbricazione catalana, spagnola, tedesca e inglese. C’è per esempio un bel modellino del vecchio tram della linea Gracia-Bonanova, attualmente due quartieri di Barcellona, e una riproduzione degli anni Venti di un taxi sempre della capitale catalana.
Il percorso continua con la parte dedicata agli animali, prevalentemente di cartone, dove non mancano però il cavallino a dondolo e gli orsetti, tra cui Don Osito Marquina, l’orsetto con cui giocavano Dalì e la sorella.
Dopo la sezione dei giochi da tavolo, c’è quella riservata alla vita di famiglia che raccoglie bambolotti e bambole, cucine e negozi in miniatura; c’è anche una bambola stesa sul lettino di una sala operatoria specializzata in ‘operazioni senza dolore’. Altre bambole sono di fabbricazione torinese e risalenti agli anni Venti del secolo scorso; un altro pezzo forte è una delle prime Barbie della Mattel, datata 1959. In questa zona del museo è stata esposta anche una sezione davvero insolita di ambientazione religiosa, con bambole-suore e aule con la riproduzione di una lezione di religione e poi altari, processioni e indumenti sacri di vario genere.
Dopo le bambole si passa ai teatrini e ai palcoscenici, alle marionette e ai burattini e ai giochi di magia con l’immancabile scatola del piccolo prestigiatore e qualche testo e oggetto del poeta Joan Brossa. Tra i divertimenti ‘ottici’ sono stati invece raccolti alcuni modelli degli Anni Trenta di cinematografi portatili, il ‘Cine Nic’, un’evoluzione della lanterna magica che divenne la passione di molti bambini spagnoli, i quali potevano anche creare il proprio film, disegnando prima le scenette su una carta apposita; usando la versione munita di grammofono, potevano addirittura sceglierne la banda sonora. Vediamo anche il dispositivo ottico dello zootropio (dal greco ‘giro della vita’), strumento giratorio per la magia delle immagini in movimento.
Oltre a soldati e a giochi di ‘guerra per scherzo’, dietro le vetrine troveremo poi innumerevoli figure di latta con i personaggi più insoliti, maschere, giochi per non vedenti e strumenti musicali, carte da gioco, il cubo magico e chi più ne ha, più ne metta.
Tra i fumetti è presente ovviamente il TBO, famoso settimanale di storie illustrate e umoristiche che venne pubblicato in Spagna tra il 1917 e il 1998; fra le vecchie pagine spicca la figura in cartone dell’illustre Doctor de Copenhague che era colui che presentava la sezione della rivista dedicata alle grandi invenzioni, probabilmente una delle poche concessioni europeiste sotto il franchismo, recitano le informazioni ai suoi piedi.

Del gioco dell’oca ritroviamo diversi esemplari; si tratta probabilmente del più famoso gioco di percorso che sia mai esistito. Con il suo tragitto a spirale rappresenta la vita: una serie di ostacoli da superare e poi l’arrivo al giardino dell’oca, simbolo del bene ma anche del ritorno alle origini. A proposito di origini, pare che Ferdinando de’ Medici ne avesse regalato uno al re Filippo IIº di Spagna già nella seconda metà del Cinquecento, ma l’oca era già stato animale molto apprezzato da civiltà ben più antiche: i Celti, gli Egizi ed anche i Romani che avevano eletto le oche a guardiane del tempio di Giunone. Prima di arrivare al corridoio che ci porta alla fine del museo dove si rende omaggio ai più importanti costruttori di giocattoli, la sorpresa del ricordo, e anche un po’ di nostalgia, conducono di nuovo tra peluche, costruzioni di carta, Meccano, valigette zeppe di piccoli oggetti.
Al termine della visita ritorniamo all'inizio, laddove ci era stato raccontato che uno dei più antichi giochi da tavolo e di percorso, il 'Gioco reale di Ur' risalente al 2600-2400 a.C., fu rinvenuto negli anni Venti del Novecento nelle tombe reali della città sumera; perfino durante il viaggio eterno fu, e sarà, importante continuare a giocare.


Text&Foto: Baldassar Perruccio © CapGazette
Settembre 2015

All’Isola di San Lazzaro degli Armeni. Seconda parte

All'Isola di San Lazzaro degli Armeni
Seconda parte

Per entrare nella chiesa del monastero di San Lazzaro degli Armeni si attraversa un chiostro rinascimentale che fa da corona a un piccolo giardino. Tra le piante troviamo un'antica glicine, dei roseti, un'Araucaria araucan, detta anche Pino del Paranà, e naturalmente l'albero simbolo dell'Armenia: il melograno. Nella mitologia greca il melograno viene associato alla dea Afrodite, ai cristiani ricorda la perfezione divina, per gli ebrei simboleggia la terra promessa, mentre i musulmani lo evocano contro l'odio e l'invidia. Nella parte settentrionale dell'isola i filari di pini si alternano a quelli dei roseti; è qui che vengono coltivate le rose da cui i frati ricavano il vartanush, la famosa marmellata fatta con i petali raccolti all'alba o al calar del sole durante il mese di maggio.
Su una parete del chiostro si leggono alcuni versi che sono stati tradotti dalla scrittrice italo-armena Antonia Arlsan e che sono tratti dal Ritorno di Daniel Varujan, il poeta armeno morto nel genocidio del 1915:
Questa sera veniamo da voi, cantando un canto, / per il sentiero della luna, / o villaggi, villaggi; / nei vostri cortili / lasciate che ogni mastino si svegli, / e che le fonti di nuovo / nei secchi irrompano a ridere. / Per le vostre feste dai campi, vagliando / vi abbiamo portato con canti la rosa. / Questa sera veniamo da voi, cantando l’amore, / per il sentiero della montagna, / o capanne, capanne; / di fronte alle corna del bue / lasciate che infine si aprano le vostre porte, / che il forno fumi, che si incoronino / di un fumo azzurro i tetti. / Ecco a voi le spose con i nuovi germogli / hanno portato il latte con le brocche. / Questa sera veniamo da voi, cantando la speranza, / per il sentiero del campo, / o fienili, fienili; / tra le vostre buie pareti / lasciate che risplenda il nuovo sole, / sui tetti verdeggianti / lasciate che la luna setacci la farina. / Ecco vi abbiamo portato il fieno raccolto in covoni / la paglia con il dolce timo. / Questa sera veniamo da voi, cantando il pane, / per il sentiero dell’aia, / o granai, granai; / nell’oscurità del vostro seno immenso / lasciate che sorga il raggio della gioia; / la ragnatela sopra di voi / lasciate che sia come un velo d’argento; / poiché carri, file di carri vi hanno portato / il grano in mille sacchi.
La chiesa mantiene la struttura a tre navate dell'originaria e trecentesca chiesa benedettina, ma dopo il primo restauro effettuato nel Settecento da Mekhitar, padre del monastero e dell'ordine, ha continuato a subire modifiche fino al secolo scorso. Al suo interno, come in tutte le chiese armene e in ricordo di una visione della Madonna avuta dal fondatore, c'è un altare consacrato alla Vergine; sopra l’altare principale i ritratti delle vetrate colorate raffigurano San Lazzaro, patrono dell'isola, e San Mesrop.
Fu quest'ultimo che, per poter tradurre la Bibbia, creò nel 405 l’alfabeto armeno, composto allora da 36 diversi segni, 7 vocali e 29 consonanti; Mesrop scelse allora anche il tipo di scrittura, da sinistra a destra, come nel greco, e non al contrario, come invece succedeva nella scrittura assira. Davanti all'altare maggiore può scorrere una grande tenda rossa che viene chiusa durante la Quaresima per separare la divinità dall’uomo e riaperta nel giorno della resurrezione, quando l’umanità è stata salvata dal peccato originale.
Alltri due ritratti vanno considerati piuttosto importanti per la storia religiosa armena: uno è quello di San Antonio Abate, qui però col volto di Mekhitar; infatti al momento della fondazione dell'ordine ci si rifece proprio alle regole di quello benedettino: ora et labora. L'altro è il ritratto di San Gregorio l'Illuminatore, grazie al quale nell'antica Armenia il cristianesimo divenne religione di stato.
La biblioteca e il museo si trovano al piano superiore; c'è un telescopio del Seicento posto accanto alla porta d’ingresso, a voler ricordare l’importanza che l’ordine mekhitarista ha sempre conferito agli studi e alla ricerca, quali mezzi che avvicinano alla verità o la svelano. Fu proprio grazie a questo che Napoleone considerò San Lazzaro degli Armeni più come un centro di studi e di cultura, che non come centro religioso, risparmiandone così la chiusura.
Il museo raccoglie molti oggetti un tempo appartenuti ai commercianti armeni. Uno dei pezzi più importanti della raccolta è la palla di Canton, opera di un monaco buddista che da una zanna di elefante ha ricavato una sfera d'avorio composta a sua volta da altre quindici sfere indipendenti l'una dall'altra e impreziosite con incisioni di scene della vita di Budda.
Nella biblioteca si trovano da una parte i libri religiosi e dall’altra i libri scientifici; superati gli scaffali si entra in una stanza con una serie di vetrinette che custodiscono oggetti di culto di vario tipo: una spada di Leone VI, ultimo re di Cilicia, ceramiche e monete, una maschera mortuaria del musicista armeno Komitas Vardapet, morto nel 1935 e artefice della raccolta delle più importanti musiche tradizionali armene. Nella successiva sala, detta di Byron e così chiamata perché il poeta inglese la usava come studio quando tra il 1815 e il 1817 soggiornò sull'isola, c’è un trono indiano del 1400 e la mummia egiziana del principe Nehmekhet, perfettamente conservata.
Al termine della visita risalpiamo in direzione della Riva degli Schiavoni e pare quasi di abbandonanare il leggendario paradiso terrestre delle antiche terre armene. Il buio è già sceso quando saliamo sul vaporetto; grazie a un miraggio, e a questa visita, l'imbarcazione si trasforma nell'Arca di Noè che, approdata nella notte dei tempi sull'Ararat, ora scende dal più alto monte d'Armenia e riprende il suo viaggio.


Text & Foto: Nicoletta De Boni © Cap Gazette
Marzo 2015