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Carlo Cattaneo, India, Messico, Cina

Geografia Comparata / Carlo Cattaneo

Girovagavo per la meravigliosa e purtroppo poco nota biblioteca dell’Istituto Italiano di Cultura di Barcellona, quando mi sono imbattuto in un piccolo libro dalla copertina color nebbia: Carlo Cattaneo, India, Messico, Cina, edito nel 1942 da Valentino Bompiani. Ne riporto qui un primo frammento in cui lo studioso confronta la geografia indiana con quella italiana, in modo non tanto diverso da come ognuno di noi fa (o faceva, in epoca a.G., avanti Google) quando torna da un viaggio in un luogo esotico: “Calcutta è un po’ come Venezia, ma più…”, “Bombay - perdon, Mumbai - ricorda Livorno, se non fosse…”.

Mi sono pure cimentato - collezionista appassionato e ossessivo di parole, passate, presenti e future - a tradurlo in spagnolo e in catalano, faticando assai a districarmi tra i nomi geografici che Cattaneo italianizza fino a renderli irriconoscibili (la sua Nerbussa resta un enigma indecifrabile. Avrà voluto indicare l’attuale Narmada, Narbada o Nerbudda? E i Seichi coi loro turbanti? Mica male, no?). Ho dovuto, naturalmente, fare delle scelte discutibili. Spero mi perdonerete il ghiribizzo.
L’India è come l’Italia, ma più gigantesca…

[…] La penisola indostanica rammenta sotto certi aspetti naturali, sebbene con superficie dieci volte maggiore, l’Italia. Anch’essa ha le sue Alpi, ma eccelse il doppio e stese da levante a ponente con arco quattro volte più vasto: anch’essa protende tra due mari una catena d’Appennini; l’indole fluviale del Gange simiglia a quella del Po; il Bramaputra raffigura l’Adige; la Nerbussa l’Arno; l’Indo gira intorno agli Imalai come il Rodano alle Alpi; l’altipiano dei Seichi e di Casmira potrebbe compararsi a quello dell’Elvezia, come quello dei Rageputi al Piemonte, le campagna d’Agra e di Benares alla Lombardia, la laguna veneta al Bengala, i monti dei Maratti alla Liguria e all’Etruria, le lande del Coromandel al tavoliere dell’Apulia, il Malabar alle riviera della Calabria, e l’isola di Ceilan, se non giacesse verso levante, alla Sicilia. In pari modo fra i paesi circostanti all’India, l’Afgania potrebbe assimigliarsi per la sua posizione alla Francia, la Persia alla Spagna, il corso navigabile dell’Oxo, al di là degli Imalai verso la Bocaria e la Chivia, al corso del Reno. […]

Frammento da Carlo Cattaneo (1801-1869): India, Messico, Cina.
La India es como Italia, pero más gigantesca…

[…] La península indostánica recuerda por ciertos rasgos naturales, aunque con superficie diez veces mayor, a Italia. Ella también tiene sus Alpes, pero excelsos el doble y extendidos desde levante hacia poniente con un arco cuatro veces más ancho: ella también despliega entre dos mares una cordillera de Apeninos; el índole fluvial del Ganges se parece a la del Po; el Brahmaputra representa al Adigio; el Narmada al Arno; el Indo gira alrededor del Himalaya como el Ródano alrededor de los Alpes; el altiplano de los Sijies y de Cachemira podría compararse al de Helvecia, como el de Rajastán a Piamonte, el campo de Agra y de Benarés a Lombardía, la laguna de Véneto a Bengala, los montes de los Marathas a Liguria y Etruria, las landas de Coromandel a la meseta de Apulia, Malabar a la costa de Calabria, y la isla de Ceilán, si no yaciera hacía levante, a Sicilia. De la misma manera entre los países que rodean India, Afganistán podría parecerse por su posición a Francia, Persia a España, el recorrido navegable del Oxus (actual Amu Daria), más allá del Himalaya hacia Bujará y Jiva, al recorrido del Rin. […]

Fragmento de Carlo Cattaneo (1801-1869): India, México, China.
L’Índia és com Italia, però més gegantina…

[…] La península indostànica recorda per alguns trets naturals, encara que amb superfície deu vegades major, Italia. Ella també té els seus Alps, però excelsos el doble i estesos des de llevant cap a ponent amb un arc quatre vegades més ample: ella també desplega entre dos mars una serralada d’Apenins; l’índole fluvial del Ganges s’asssembla a la del Po; el Brahmaputra representa l’Adige; el Narmada l’Arno; l’Indus gira al voltant de l’Himàlaia com el Roine al voltant dels Alps; l’altiplà dels Sikhs i de Caixmir es podria comparar al d’Helvècia, com el de Rajasthan a Piemont, el camp d’Agra i de Benarés a Llombardia, la llaguna de Vèneto a Bengala, els monts dels Marathas a Ligúria i Etrúria, les landes de Coromandel a l’altiplà de Pulla, Malabar a la costa de Calabria, i l’illa de Ceylon, si no jagués cap a llevant, a Sicília. De la mateixa manera entre els països que envolten l’Índia, l’Afganistan podria semblar-se per la seva posició a França, Persia a Espanya, el recorregut navegable de l’Oxus (actual Amudarià), més enllà de l’Himàlaia cap a Bukharà i Khivà, al recorregut del Rin. […]

Fragment de Carlo Cattaneo (1801-1869): Índia, Mèxic, Xina.
Intro & trad: Paolo Gravela
Foto: British Library, free copyright.
CapGazette 2015

Elena. Seconda parte







Elena
Un racconto di
Amata Brancaleone
Seconda parte

Dopo anni di sofferenze lui era arrivato ad avere un equilibrio e, cosa più importante, era riuscito a salvare quella sua piccola famiglia, quello scudo protettore che, senza alcun dubbio, amava più di ogni altra cosa.
Amava quella piccola pazza con tutto il suo cuore e si accusava di non essere riuscito a farle da padre. Amava Chiara con quel tranquillo sentimento che lei accettava senza chiedere di più, senza esigenze, senza rimproveri, ormai, dopo più di vent'anni insieme, erano una coppia affiatata.
Lei era entrata nella sua vita quando lui aveva già più di quaranta anni. L'aveva conosciuta in una sosta di un viaggio d’affari, a casa di amici di entrambi, e quasi subito aveva capito che questo incontro lo avrebbe spinto a dare una svolta alla sua vita, fino ad allora priva di una meta personale chiara.
Chiara con quella bellezza un po’ androgina, quell’ampio sorriso, gli occhi che avevano visto tanto mondo, quella vita libera, quell’atteggiamento mondano, indipendente... E tante altre cose che in poco tempo imparò da lei, quel gusto per la musica, la letteratura, il cinema, il teatro, tutti gusti simili ai suoi. Chiara e lui insieme. Adesso tutto sarà più facile – aveva pensato, allora.
Purtroppo facile non era stato.
Perché certe cose facili non sono.
Nato e cresciuto in campagna, unico maschio nel bel mezzo di quattro femmine, due più grandi da imitare, due più piccole con cui giocare, lui era sempre stato serio, responsabile e ligio a compiere i comandamenti familiari: bravissimo a scuola, al liceo e all’università, aveva preso la laurea in Economia e Ingegneria Agraria a Bologna come aveva voluto suo padre, che sognava che il suo unico figlio maschio trasformasse la piccola azienda famigliare in qualcosa d’importante.
Però quello che Massimo voleva era ben altro. Voleva andarsene via. Voleva vivere lontano. Voleva vivere la sua vita senza tanti occhi su di lui. Voleva soprattutto non essere il protagonista di quel programma paterno.
Tuttavia, fece tutto quello che da lui ci si aspettava.
Tutto tranne sposarsi. E questo divenne motivo di una lotta interiore continua e difficile.
Una lotta che durò finché gli anni non lo misero definitivamente e violentemente a confronto con quell’identità che aveva sempre negato a se stesso e che finalmente veniva fuori, e fuori da ogni dubbio. Non è che lui si fosse liberato davvero del tutto dal peso delle regole familiari e sociali. Continuamente attento a fingere, a cercare di stare sempre in gruppo, a non farsi vedere in compagnia di qualche amico “speciale” da chi avrebbe potuto raccontare qualcosa in paese.

Lei sarà già in camino – si disse Massimo pensando a Chiara – devo assolutamente parlare con lei. Non ce la faccio più. Lei mi aiuterà, ne sono sicuro, sarà difficile, lo so, ma sono sicuro che insieme sarà più facile. Più facile per me, che ho portato questa peso per tanti anni. No, non glielo posso dire, sono un egoista. Però, come andare avanti con i ricatti di Elena? È lei a ricattarmi in realtà, grazie a quei messaggi che ha scoperto sul mio telefonino o sono io che, al solo pensiero che lei sappia, che parli con Chiara, con tutti, accetto ogni suo capriccio?
Lo psicoanalista, parlando di Elena, gli aveva fatto capire parecchie cose. Cose come la necessità nell’adolescenza di cercare l'identificazione femminile e la ricerca a quell’età della figura maschile nel padre e via dicendo. Questa colpa lo strozzava, lo avrebbe strozzato anche se Elena non si fosse accorta della sua omosessualità?
Da molti anni lui era in psicoterapia. All’inizio di nascosto da Chiara, ma dopo un po' di tempo, una sera che parlavano della famiglia, di quel padre padrone che gli era toccato, aveva deciso di approfittare del momento per dirle che a volte aveva pensato di andarci. E Chiara l’aveva incoraggiato, dicendo che anche lei ne avrebbe avuto bisogno.
L'arrivo di Chiara interruppe le sue riflessioni, i suoi ricordi. Il suo abbraccio lo confortò. Ebbe la sensazione di lasciarsi portare fino alla macchina per mano, come un bambino indifeso. Sulla strada di casa la mano destra di lei carezzava ogni tanto i suoi capelli, la sua mano. La quinta sinfonia di Mahler riempiva il silenzio.

- Meno male, caro, che l’incidente è stato lieve – disse Chiara mentre girava la chiave nella serratura per entrare. Ma credo che ti dovresti riposare per qualche giorno e non andare a lavorare.
- Hai ragione. Resterò a casa almeno domani. Anche perché... ho bisogno di parlare con te tranquillamente, senza la presenza d’Elena. Dobbiamo parlare di questa famiglia, non credi?
- Certo. Eccome se dobbiamo!
Fu una lunga notte. Contravvenendo alla loro prima intenzione di aspettare l’indomani per parlare, ormai soli nella stanza, non poterono evitare che uscisse a fiotti quel magma di sentimenti, paure, domande, segreti impossibili da celare oltre.
A cosa era dovuto quel loro evidente fallimento nell'educazione di Elena? Non si poteva negare che tutti e due l’avevano viziata troppo e, in questo senso, si sentivano in colpa. Un sentimento che, però, andava più in là: la mancanza di sincerità tra loro.
Chiara riconobbe di aver nascosto a Massimo parte del suo passato. Non gli aveva mai parlato di quella sua infanzia e adolescenza vissute nell’abbondanza economica, ma anche nella più assoluta assenza d’amore materno. Questo, insieme alla soffocante rigidità di sua madre, l’aveva spinta a fuggire da casa a 18 anni in cerca dell'agognata libertà. Ed era successo quello che era successo. Per questo aveva voluto cancellare tutta quella prima parte della sua vita, proprio come si vuole dimenticare un incubo, ed era stata questa la ragione per cui non gli aveva mai raccontato niente. Semplicemente aveva deciso di fare tavola rasa. Poi, con Elena, per quell' “effetto pendolo” che tante volte segna i nostri atti, aveva agito in un modo del tutto contrario a quello di sua madre, senza accorgersi delle disastrose conseguenze che ne potevano derivare.
Per Massimo parlare per la prima volta con Chiara della sua omosessualità fu una vera liberazione. In fondo intuiva che lei lo sospettasse, come di fatto gli venne confermato. Tuttavia, era stato più comodo per entrambi far finta di niente affinché si mantenesse incolume quella struttura che avevano costruito. Riconosceva la sua codardia nel sottomettersi ai ricatti d’Elena. Sarebbe stato meglio confessare tutto a Chiara quando avevano cominciato, ma, come tante altre volte nella sua vita, si lasciò portare dalla paura, dai dubbi, dall’insicurezza.
Il cielo cominciava a imbiancarsi quando decisero di riposarsi al meno per un paio d’ore. Li aspettava un giorno intenso. Non sarebbe stato facile parlare con Elena e convincerla della necessità di fare terapia.

Elena guardò la sua camera per l’ultima volta. Le piaceva tanto, tutto in ordine. Un vero peccato non rivederla mai più... “È l’unica scelta”, disse a sé stessa. “Non mi lasciano alternative”.
Quando era tornata da scuola non pensava nemmeno che sua madre e suo padre sarebbero stati insieme, aspettandola per “parlare”. Parlare? Era stato un monologo insopportabile! Sua madre, che credeva mezzo stupida, era diventata all’improvviso forte, coraggiosa. Abbastanza coraggiosa da dirle che la situazione non poteva continuare come era stata finora. Abbastanza forte per dirle che sapeva che suo padre aveva avuto un segreto per tantissimi anni, ma che non era importante per lei perché lo amava. “Amore”, pensò Elena. “Non esiste. L’amore è un'invenzione, lo fanno solo per infastidirmi, non voglio sentire altro. Finito”. Come poteva una donna amare un uomo omosessuale? Come potevano pensare di abitare insieme? “Ti porteremmo dallo psicologo, Elena. Tu sapevi tutto e ne hai approfittato. Ti vogliamo bene, cara, che non possiamo continuare così. Devi capire che non puoi fare sempre quello che vuoi. Ormai non ci puoi più ricattare”.
Elena ricordò all’improvviso un momento di quando era piccola. Aveva sette anni e un gattino chiamato Luigi. La mamma l’aveva portato una mattina dopo averlo trovato in strada, miagolando. Il gatto era carino, ma non amava Elena. Fin dall'inizio voleva stare con Chiara, fuggiva da Elena quando lei voleva prenderlo. “Devi coccolarlo quando lui ne ha voglia, Elena. Non farà sempre quello che vuoi tu!”, le diceva la mamma. Solo una volta il gatto aveva fatto quello che doveva: non scappare quando lei l’aveva messo in una scatola e lasciato un’altra volta nella strada, lontano da casa. Ancora lo ricordava miagolando. “Adesso sì vuoi che ti prenda, stupido gatto?”.
Mentre chiudeva silenziosamente la camera dei suoi genitori, che dormivano profondamente, le tornò in mente il momento in cui aveva chiuso la scatola del gatto. “Non chiudono mai a chiave, ma oggi sì. Oggi la loro porta sarà chiusa a chiave. Mi piacerebbe conservarla, sarebbe un bel ricordo”, pensò, mentre entrava nello studio di suo padre. C’erano ancora gli incartamenti del suo ultimo progetto sul tavolo, vicino al posacenere. Sua madre gli diceva sempre che doveva smettere di fumare, ma lui aveva sempre la stessa risposta: “Ma cara, mi piace tantissimo fumare dopo aver finito il lavoro! Mi piace il fumo, vedere come fa delle forme capricciose e non pensare a nient'altro”. Elena sorrideva, mentre accendeva una sigaretta e la lasciava cadere sul tavolo, sul progetto. “Il fumo sarà il tuo sudario”.
Due donne chiacchieravano nell’ospedale. Non potevano credere a quella tragedia. Solo il giorno prima avevano parlato con un uomo simpatico e gentile in quello stesso posto e adesso lo rivedevano sul giornale, in una fotografia con una bella donna dagli occhi azzurri.
“Incendio in un appartamento, muore una coppia e lascia orfana una quindicenne”.
- Poverina – commentò una delle due - qui dice che lei era in cucina e stava bevendo un bicchiere d’acqua quando si è accorta che al secondo piano c’era fuoco. Una sigaretta non spenta, dicono. Malgrado lei abbia cercato di aprire la porta, era chiusa a chiave con i genitori dentro. Era dovuta correre fuori per salvarsi almeno lei. Tutta la casa in cenere. Cosa farà adesso?”.
L’altra donna annuì:
- Veramente una tragedia. Cosa può fare una quindicenne da sola?
Testo: Amata Brancaleone (Carmen Rosúa, Esther Artero, Irene Acedo, Viviana Baró)
Foto: Profilo a Rotterdam.
A cura di: Paolo Gravela
CapGazette 2015

Elena







Elena
Un racconto di
Amata Brancaleone
Prima parte

Non risponde nemmeno al telefono in ufficio. Ma quante volte gli ho telefonato in quest’ultima ora? Undici? Certo, sono troppe. Sto davvero rischiando. Ma non ce la faccio a smettere. Non c’è scusa possibile. Alle 15 la pausa pranzo è già finita da più di mezz’ora. Dovrebbe essere tornato in ufficio. Dovrebbe rispondere. Dovrebbe essere raggiungibile! Ma niente, solo silenzio. Ok, ok, basta! Basta! Devo saper giocare bene le mie carte. E poi, in realtà chi perde di più? Anzi, chi vince di più in questa situazione? Allora, quindi, smettila di telefonargli, “piccola pazza”. Adesso dovrò chiamare a casa e chiedere a quella deficiente di venire a prendermi in questura - pensò Elena.

Quella mattina era andata un po' oltre, il motorino rubato a scuola, la droga che per fortuna avevano consegnato prima che i poliziotti li fermassero… Ora doveva pensare velocemente a cosa raccontare per tirarsi fuori come tante altre volte dai problemi in cui si cacciava, uno dopo l’altro. Comunque con la sua capacità di mentire, di manipolare, d'ingannare, di sedurre, c'era sempre riuscita.

Il telefono! È lui. Chiama dal cellulare. Come mai?…
- Pronto? Ciao, finalmente. …. Undici? Non è stata colpa mia. Dimmi piuttosto perché non rispondevi. Evidentemente avevo bisogno di parlarti, no? Dovevo dirti una cosa importante… come?...

Per fortuna l’urto non aveva avuto gravi conseguenze: alcune ammaccature e un braccio al collo per un paio di settimane.
Mentre aspettava che Chiara lo venisse a prendere, cercava d’allontanarsi dalle sue preoccupazioni leggendo un articolo di viaggi. Ma la conversazione tra due donne sedute accanto a lui attirò la sua attenzione.
- Povera donna. La figlia è morta da una settimana, ma lei è tornata a visitarla farle visita come se fosse ancora in coma.
- È impazzita, poveretta... La perdita d’una figlia sedicenne è dev’essere terribile... da impazzire.
E non era forse “da impazzire” anche la presenza d’una figlia manipolatrice, egoista e aguzzina? Pensò Massimo tornando in sé. Non negava la sua responsabilità, o meglio, la loro responsabilità: lui e Chiara avevano viziato Elena fin da molto piccola, concedendole tutti i suoi capricci, per quanto assurdi fossero. Come quando, a dieci anni, volle farsi dipingere la stanza color rosa (mobili inclusi), ma un mese dopo si stufò e, in risposta al loro “educativo” rifiuto, sporcò tutto con uno spray nero.
Era una pessima studentessa, anche se dotata d’una perversa intelligenza che sapeva perfettamente utilizzare per ottenere qualsiasi cosa volesse, soprattutto perché trovava sempre i punti deboli delle persone. E nel caso di Massimo ce n’era uno particolarmente debole.
- Quando è cominciato il suo cambiamento? Come mai siamo arrivati a questa situazione?
Si domandò come tante altre volte.
Ma in quel momento, forse per l'idea della morte, che aveva sentito così vicina e che adesso gli ricordavano le donne che chiacchieravano, le sue domande avevano un'intensità diversa.
- È possibile che non riesca a ricordarla piccola e dolce com'è stata una volta? Fino a quattro anni? Sarà stato quel primo trasloco a farla cambiare? La mancanza dei nonni, dei cugini, della casa grande, spaziosa, dove giocava felice e tranquilla?
Eh sì, la vita era cambiata per tutti e tre. La vita in città, le nuove responsabilità nella ditta, Chiara che non aveva trovato lavoro subito e si era dedicata per intero a Elena come cercando di compensare tutte le mancanze.
La piccola era graziosa, parlava come se fosse più grande, e questo richiamava l'attenzione di chi la conosceva. Tuttavia a scuola, anche se si adattò presto, cominciò ad avere atteggiamenti che a metà corso spinsero la maestra a chiamarli per metterli al corrente. Questo li colse di sorpresa e nessuno dei due accettò di buon grado le raccomandazioni. Loro non credevano che a Elena occorressero limiti, era così buona, non aveva quasi mai avuto bisogno di un "no" secco, accettava senza discussioni le loro richieste, era simpatica, dolce.
Tutto questo si dissero allora. E ancora, due anni dopo, non accettarono più di un primo incontro con la psicologa della scuola. Erano convinti: la causa era il trasloco e, con il tempo, tutto si sarebbe aggiustato. Purtroppo il tempo non fece altro che confermare che in quella simpatica, dolce, bambina c'era già il germe dell'adolescente che oggi li faceva impazzire.
E adesso, seduto su quella panca in ospedale lui si stava domandando, con la testa tra le mani, tante, troppe cose.

Chiara guardava crescere la torta nel forno. L’aveva fatta per Elena, sua figlia, che ne aveva chiesta una per quel giorno. Se non l'avesse fatta, avrebbe certo combinato un guaio… come d’altronde aveva appena fatto. Le aveva telefonato dalla stazione di polizia, dove era stata portata dopo che due poliziotti l’avevano “vista” con un amico su una motocicletta che non era loro. “Ma mamma, io non lo sapevo! Gianni è uno stronzo e mi aveva detto che era di suo fratello e che lui poteva già guidare!”. Difficile crederle. Per fortuna, i poliziotti sì che ci avevano creduto e l’avevano portata a scuola subito dopo la telefonata. “Sua figlia non c'entra niente, signora, ma crediamo che debba sapere che Elena non era a scuola e può essere pericoloso”. “Grazie mille”, aveva detto lei. Come spiegare al poliziotto che a volte pensava che, se la figlia non fosse ritornata, né a Massimo né a lei stessa in fondo…
“Elena non è la stessa figlia che avevo qualche anno fa”, pensò Chiara mentre lavava i piatti, “cosa abbiamo fatto di male Massimo e io?” Massimo, suo marito, aveva viziato Elena, ma non ne parlavano mai. “Forse è arrivato davvero il momento di parlargliene”. All’improvviso pensò che era strano che Massimo non l’avesse già chiamata, era un po’ tardi e, quando usciva, le telefonava sempre. “Qualche imprevisto”, si disse, “ma, se arriva in ritardo a scuola, Elena si seccherà e….”. Elena, Elena... Bisognava sempre pensare a cosa sarebbe piaciuto a Elena, a cosa avrebbe voluto Elena…
Chiara si guardò nello specchio. Riconosceva ancora sul suo volto la bellezza di alcuni anni prima, quando era giovane e poteva godersi la vita. Pensò a se stessa quando aveva l’età di Elena. Allora aveva ancora i modi di una ragazzina ricca che doveva sposarsi con qualche cretino ricco. Sua madre, che l'aveva voluta solo per trovarle un marito, le diceva sempre come camminare, come mangiare, come parlare e come ridere come… una… signorina. Diciamo così. Ancora oggi, dopo più di quaranta anni, si correggeva stizzita quando prendeva il coltello da carne per tagliare il pesce. Sua madre, sempre seria, sempre severa. Chiara non ricordava le avesse mai detto un semplice “ti voglio bene”. Amava solo i suoi tre maschi, morti prima della “tua nascita”, per cui vestiva sempre il lutto. Forse proprio per quella ragione era fuggita quando aveva 18 anni con i soldi che aveva risparmiato (e non erano pochi) per vivere la vita a modo suo: viaggiare con uno zaino per compagno, il mondo ai suoi piedi, parlare lingue straniere subito dopo averle sentite, sgrammaticate, vestire tutti i colori che sua madre non le permetteva di mettere. Il paradiso per una ragazzina come lei, che non aveva avuto che regole…
La sorpresa venne anni dopo la sua fuga, quando sua madre morì all’improvviso e un avvocato fece l’impossibile per trovarla (abitava in un quartiere periferico di una città periferica in un paese periferico) per dirle che tutti i beni adesso erano suoi. Aveva sempre creduto che sua mamma avesse deciso di diseredarla e invece, ad appena 30 anni, aveva una fortuna tutta sua. Così, dopo aver venduto le fabbriche e le aziende rurali della famiglia, Chiara se ne tornò “quasi a casa”, quasi perché non tornò al paesello di campagna, ma in centro città, di una città importante (e nel suo paese benestante).
Pensava di vivere da sola, come sempre, ma un po’ per caso Massimo era già entrato nella sua vita in un viaggio recente. Aveva la sua stessa età, e come lei veniva da un piccolo paese e sapeva come era la vita in campagna. Era tranquillo e gli prometteva la stabilità di cui lei aveva bisogno. Sapeva che non era innamorata, ma quello era un amore maturo, diverso da tutti quelli che aveva avuto fino ad allora. Non c’era passione, ma c’era un amore senza esigenze, semplice e puro. Si erano sposati pochi mesi dopo essersi conosciuti, in una piccola chiesa in cui nessuno si era fatto vivo per vedere Chiara che “si maritava”. Lei aveva detto a Massimo che i suoi parenti erano morti, che non aveva nessuno nella vita tranne lui.

La vita scorreva tranquilla fino al momento in cui lei si accorse di non avere il ciclo da alcuni mesi. “Sei troppo giovane per la menopausa, Chiara. Sei incinta”. A 39 anni, fu una bella sorpresa per una coppia che non si aspettava dei figli. Pensarono che quella piccolina sarebbe stata la ragazza più felice del mondo. Elena era una bambina così carina, una bambola con gli occhi azzurri, come quelli di Chiara. Lei si era ripromessa che sua figlia non sarebbe stata mai infelice, che lei sarebbe stata una madre come quella che non aveva avuto.

“Forse ho voluto troppo. Forse abbiamo fatto troppo. Forse è già tardi”, pensava mentre spegneva il forno. Come riavere indietro la sua dolce bambina, dopo tante minacce? Quando Elena aveva trovato le fotografie, non pensò che sarebbe stato un problema. Aveva mille fotografie nascoste in una scatola. Fotografie di lei in Spagna, negli Stati Uniti, in Africa... Il suo segreto raccontato in immagini. Come è naturale, Elena aveva domandato cosa faceva sua mamma, così giovane e da sola, sulla Torre Eiffel e in altri mille posti. Era accaduto quando Chiara credeva ancora di potersi fidare di sua figlia, così raccontò la verità per la prima volta nella sua vita e le domandò di non dirlo a nessuno. Come poteva immaginare che quella confessione sarebbe diventata una minaccia capace di fare male a Massimo e di distruggere tutto quello che avevano costruito?
All’improvviso, una chiamata. “Pronto. Ciao, caro, dove sei? Vieni già con Elena?... Come? Prendo la macchina subito”. Prima di uscire, Chiara ha ancora un pensiero per Elena. “Credo che oggi non potrà mangiare la torta ancora calda”.

(continua)
Testo: Amata Brancaleone (Carmen Rosúa, Esther Artero, Irene Acedo, Viviana Baró)
Foto: Profilo a Rotterdam.
A cura di: Paolo Gravela
CapGazette 2015

Pienezza autunnale • Plenitud otoñal • Plenitud tardoral

Pienezza autunnale • Plenitud otoñal • Plenitud tardoral

Foto: © Silvio Uruss, tra Langhe e Andalusia



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

CapGazette Novembre ● Noviembre 2015

Segni d’autunno • Señales de otoño • Senyals de tardor

Segni d'autunno • Señales de otoño • Senyals de tardor

Foto: © Andrea Gravela, Piverone, Serra d'Ivrea (Piemonte)
 
CapGazette Ottobre ● Octubre 2015
 

R-esistenze 5

R-esistenze 5

Quando ero giù a Marsala mio padre era uno stronzo. Era un violento. E quando non se la prendeva con me, le dava a mia mamma. Io a diciassette anni, lui non ci credeva ma ho preso una valigia e sono salito su un treno. A diciassette anni da Marsala a Colonia, lassù in Germania.
E lì, diciamo che mi son dato da fare. Un po' è che lì ti aiutano, ti danno una casa, trovi lavoro così ti metti a posto. Poi sono tornato e facevo il mercato. Abbigliamento vendevo. Col mio furgone me ne andavo a Napoli a caricare. E vendevo, ma vendevo e tanto. Le borse da spiaggia, i jeans. Sai le signore, se gli metti bene le cose sul banco … Mettevo quelle borse una dentro l'altra, eh … sai quante ne vendevo?! Poi arrivavo a casa, buttavo tutti soldi sul letto e mi ci buttavo sopra. Guadagnavo bene all'ora!
Poi quello stronzo di mio suocero, sai mia moglie era molto attaccata alla sua famiglia. Comunque lui mi ha dato un terreno e io, con il suo permesso ho costruito una casa. Bella, grossa. Lui lo sapeva e diceva che era contento. Poi quando era finita, boh. Si è incazzato e la voleva indietro, la casa e il terreno. Allora ho mollato tutto, preso baracca e burattini e sono venuto su.
Mia moglie non stava bene, diceva sempre che voleva tornare giù: le mancavano la mamma e il papà. Io mi sono arrangiato, tra Santa Rita e Cascine Vica. Lavoravo, non mi sono mai tirato indietro. Guidavo i pulmini per gli handicappati a Bardonecchia. Su e giù, su e giù. Poi quando è arrivato l'inverno mi hanno lasciato a casa. Qui a Torino quindi ho lavorato per gli autobus. Sempre chiuso là sotto in officina. Che rumore, sempre con 'sti motori accesi. Laggiù, sotto terra. Era uno scantinato, un'officina. Buio e rumore, buio e rumore. E noi glielo dicevamo che non potevamo farcela, che c'era troppo rumore. Ma lui niente, notte e giorno là sotto, con i motori su di giri a lavorare. È lì che la testa mi è partita. È lì che non ce l'ho fatta più. Mia moglie se n'è andata, mi ha detto che voleva tornare da sua mamma: era come una bambina, sempre la mamma voleva.

Ora è a Verona. Lei con i miei figli: due maschietti e una bambina, la mia bambina. Era dolce, era piccola così. Io la tenevo in braccio e lei piangeva. Quanti ricordi. Sul serio, io ho tantissimi ricordi!
Testo e foto: Andrea Gravela / Snodicomunicazione
CapGazette 10/2015

Cordova

 
 
Federico García Lorca
 
Canción de jinete

Córdoba.
Lejana y sola.

Jaca negra, luna grande,
y aceitunas en mi alforja.
Aunque sepa los caminos
yo nunca llegaré a Córdoba.

Por el llano, por el viento,
jaca negra, luna roja.
La muerte me está mirando
desde las torres de Córdoba.

¡Ay qué camino tan largo!
¡Ay mi jaca valerosa!
¡Ay que la muerte me espera,
antes de llegar a Córdoba!

Córdoba.
Lejana y sola.
Canzone del cavaliere

Cordova.
Lontana e sola.

Cavalla nera, luna grande,
e olive nella mia bisaccia.
Per quanto conosca le strade
non arriverò mai a Cordova.

Per il piano, per il vento,
cavalla nera, luna rossa.
La morte mi sta guardando
dalle torri di Cordova.

Ahi che la strada è lunga!
Ahi mia cavalla coraggiosa!
Ahi che la morte mi aspetta,
prima di arrivare a Cordova!

Cordova.
Lontana e sola.
La traduzione

Ancora una volta tradurre poesia si svela, in un primo momento, avvilente. Le parole di una lingua non sono mai adatte alle parole di un'altra lingua. Ma ecco che lasciandole sedimentare, germogliare, nell'udito e nella mente, si illuminano di luce nuova: le frontiere linguistiche sfumano, e ogni lingua diventa tutte le lingue, l'unica lingua universale.
Jorge Luis Borges si dichiarava contrario alla traduzione della Divina Commedia in spagnolo (o del Chisciotte in italiano, fa lo stesso), perché, diceva, alimenta la superstizione che lo spagnolo e l'italiano siano due lingue diverse. Lo trovo geniale, ma vorrei andare ancora oltre, perché per me la traduzione è un'arte, direi, manuale, che intesse, come fosse di vimini, la lingua del mondo.
Cordova

Riguardo a Cordova, è senz'altro una città di evocazioni letterarie e/o esotiche; non per niente José Ortega y Gasset la paragonava a un roseto capovolto, con le radici in aria e i fiori sotto terra.
Eppure, perché no? Perché non rivalutare la letteratura esotica e la poesia proprio in questi tempi superficiali e violenti, di plastica e sangue, di guerre e deportazioni, di cinismi e materialismi sordidi e di comodo? E chi vi legge ingenuità abbia vergogna della propria complicità.

Propongo quindi Cordova, la sua storia, e la letteratura in genere, come baluardi in difesa delle origini spurie del mondo.


Vorrei dedicare questa pagina alla mia insegnante di italiano del Liceo, la professoressa Ceresa, che proprio questo testo di Federico García Lorca volle proporci come tema in classe nei pessimi anni ottanta del secolo scorso. Una donna coraggiosa.


Poesia: Federico García Lorca
Traduzione, note e foto di Cordova: Lino Graz
CapGazette 9/2015

Postman’s Park. Londra ⎜Postman’s Park Londres

The Postman’s Park, Londra

Un discorso, ben fatto, sui ritmi della città di Londra spetta di diritto a chi ci vive o a chi bene la conosce; io che ci passo qualche giorno in vacanza sono solamente in grado di dire che questa frenesia che ho attorno è travolgente, appassionante, talvolta addirittura esilarante. Tuttavia dall’ilarità allo spavento il passo spesso è piccolo; ammettiamolo: in certi momenti questa velocità sfinisce e preoccupa anche solo a guardarla da una certa distanza. Ora la distanza è quella di chi va lentamente, si riposa su una panchina o siede al tavolino di un bar senza fretta, senza obblighi.
Grazie a Dio Londra offre a tutti, vacanzieri o no, anche un’inifinità di luoghi all’aperto in cui interrompere la marcia rapida, temporeggiare, sostare; spesso si tratta di giardini, parchi, anche cimiteri. Quiet corners. Eccone qui uno.
Se vi capitasse di trovarvi dalle parti della cattedrale di Sant Paul, già dentro i confini della City della capitale britannica, potreste rintanarvi per un po’ al Postman’s Park.
Fino al 1912, anno della sua demolizione, si trovava a pochi passi da qui la sede centrale del General Post Office del Regno Unito e il nostro ‘parco del postino’ deve il suo nome proprio al fatto che nella pausa pranzo i suoi lavoratori si incontravano qui. Una volta entrati i rumori si attutiscono e il ritmo cardiaco nostro e dell’intera città rallentano.
La piccola loggia che appare in uno dei lati del parco è il Memorial to Heroic Self Sacrifice voluto dal pittore e scultore simbolista George Frederick Watts e inaugurato il 30 luglio del 1900. In occasione del 50º anniversario dell’incoronazione della regina Vittoria, Watts aveva proposto al comune di Londra di festeggiare la ricorrenza con la costruzione di un monumento dedicato agli eroi sconosciuti, ovvero alla gente comune che aveva perso la propria vita per salvarne una altrui. Il pittore era convinto che il ricordo di quelle morti potesse fornire ai suoi concittadini un modello di comportamento e un esempio di rettitudine da seguire. In una lettera inviata al Times nel settembre del 1887 Watts scriveva: «It must surely be a matter of regret when names worthy to be remembered and stories stimulating and instructive are allowed to be forgotten. It is not too much to say that the history of Her Majesty's reign would gain a lustre were the nation to erect a monument, say, here in London, to record the names of these likely to be forgotten heroes.»
La proposta, che inizialmente prevedeva la costruzione all’interno di Hyde Park di una specie di camposanto coi nomi degli eroi incisi su una lunga parete di marmo, non venne mai presa in seria considerazione; nonostante ciò George e la moglie Mary non abbandonarono l’idea.
Mentre iniziava a donare alcune delle sue opere alla Tate e si dedicava alla costruzione della Watts Gallery a sud-ovest di Londra, il pittore continuava infatti a conservare tutti i ritagli di giornale in cui si parlasse della morte disgraziata, ma pur sempre eroica, di un londinese. Poi, quando finalmente nell’estate del 1900, quattro anni prima della sua di morte, Watts realizzò il suo particolare camposanto la loggia commemorava in realtà solo quattro di quelle vittime esemplari; solo negli anni successivi ne furono aggiunte altre cinquanta. Il nome e la causa della morte degli ‘eroi di ogni giorno’ sono scritti su piastrelle in ceramica, alcune decorate dall'artista William De Morgan (1839-1917), altre opera dei ceramisti della Doulton of Lambeth.
Nel rispetto delle intenzioni di Watts, ne leggeremo alcune, contribuendo a strappare all’anonimato questi comuni salvatori, e metti mai che ci riesca pure di illuderci che quando fra poco ci ributteremo nel via vai della City, trai velocipedissimi londinesi, avremo anche noi a fianco il nostro eroe pronto a soccorrerci.
The Postman's Park, Londres

Un discurso, bien hecho, sobre los ritmos de la ciudad de Londres merece la autoría de quien en ella vive o, por lo menos, de quien bien la conoce, yo que paso aquí algunos días de mis vacaciones sólo podré decir que el frenesí que me rodea es impetuoso, apasionante, incluso hilarante. Sin embargo, de la hilaridad al susto, el paso puede ser muy corto y habrá que admitir que este vaivén de velocidades a veces extenúa o tal vez preocupa, aunque se observe desde cierta distancia. Ahora mismo es la distancia de quien anda lentamente, descansa en un banco sin prisa alguna, sin obligaciones.
Ya saben que, afortunadamente, Londres también ofrece a todos una infinidad de lugares al aire libre donde detenerse, tomar tiempo, interrumpir la marcha rápida. A menudo se trata de jardines, parques, tal vez cementerios. Quiet corners. Aquí va uno.
Si un día se encontraran en la zona de la catedral de San Pablo, ya dentro de los límites de la City, les aconsejaría que se escondieran durante unos minutos en el Postman’s Park. Hasta el 1912, año de su demolición, a poca distancia de aquí se hallaba la Oficina Central del General Post Office del Reino Unido y, de hecho, nuestro ‘parque del cartero’ se define así porque era aquí donde sus empleados se encontraban a la hora de comer. Una vez en el interior, los ruidos se amortiguan y el ritmo cardiaco nuestro y de la ciudad entera ralentizan. La pequeña galería que aparece en uno de los lados del parque es el ‘Memorial to Heroic Self Sacrifice’, ideado por el pintor y escultor simbolista George Frederick Watts.
En ocasión del 50º aniversario de la coronación de la reina Victoria, Watts había propuesto al ayuntamiento de Londres que se celebrara la fecha con la edificación de un monumento dedicado a aquellos héroes desconocidos que habían perdido su vida para salvar otra. El pintor estaba convencido que el recuerdo de aquellos muertos proporcionaría a sus conciudadanos un modelo de comportamiento y un ejemplo de rectitud que valdría la pena seguir. En una carta que envió al Times en septiembre de 1887, Watts comentaba: «It must surely be a matter of regret when names worthy to be remembered and stories stimulating and instructive are allowed to be forgotten. It is not too much to say that the history of Her Majesty's reign would gain a lustre were the nation to erect a monument, say, here in London, to record the names of these likely to be forgotten heroes.»
Su propuesta, que inicialmente preveía que se construyera en Hyde Park un camposanto con los nombres de los desaparecidos gravados sobre una larga pared de mármol, nunca se tomó verdaderamente en cuenta. Sin embargo, él y su mujer Mary no abandonaron su idea. Mientras empezaba a donar algunas de sus obras a la Tate Gallery y se dedicaba a la nueva Watts Gallery que estaba surgiendo al sur oeste de Londres, el pintor seguía guardando los recortes de los diarios donde se narraba la muerte desgraciada, pero igualmente heroica, de un londinense.
En realidad, más tarde, cuando por fin su peculiar camposanto se realizó e inauguró en el verano de 1900, en la galería sólo se conmemoraban cuatro de aquellas ejemplares víctimas; en los años siguientes, fueron añadidos unos cincuenta nombres más. El nombre del fallecido y la causa de su muerte se escribieron sobre azulejos, algunos decorados por el artista William De Morgan (1839-1917), otros producidos por los alfareros de la famosa ‘Doulton of Lambeth’.
Respetando las voluntades del señor Watts, leeremos algunos, contribuyendo de tal manera a rescatar del anonimato unos humildes salvadores y nunca se sabe, tal vez nos sirva también para convencernos de que cuando llegue el momento de salir de aquí tendremos a nuestro héroe al lado, entre esos rapidísimos londoners
«Soloman Galaman, deceduto all’età di 11 anni, in seguito alla ferite riportate per salvare il fratellino che rischiava di essere investito sulla Commercial Street: “Madre, ho salvato lui, ma non sono riuscito a salvare me stesso” - 6 Settembre 1901»
«Frederick Alfred Croft, ispettore, deceduto all’età di 31 anni, travolto da un treno alla stazione di Woolwich dopo aver salvato dal suicidio una donna malata di mente - 11 gennaio 1878»
«Ernest Benning, tipografo, deceduto all’età di 22 anni in una notte buia, dopo essere caduto da una barca all’altezza di Pimlico ed aver salvato una donna che sorreggeva con un braccio mentre con l’altro ancora si aggrappava ad un remo. - 25 agosto 1883»
«Richard Farris, manovale, deceduto per annegamento dopo essersi gettato in acqua nel tentativo di salvare una povera ragazza buttatasi nel canale presso il Globe Bridge - 20 Maggio 1878».
«Soloman Galaman, fallecido a los 11 años, después de ser atropellado mientras salvaba a su hermanito en Commercial Street: “Madre, le he salvado a él, pero no he logrado salvarme a mi mismo” - 6 de septiembre de 1901»
«Frederick Alfred Croft, inspector, fallecido a los 31 años, atropellado por un tren en la estación de Woolwich, después de evitar el suicidio de una mujer débil de mente - 11 de enero de 1878»
«Ernest Benning, tipógrafo, fallecido a los 22 años en una noche obscura, después de caer de su barco a la altura de Pimlico y salvar a una mujer que sustentaba con el brazo derecho mientras que con el otro se agarraba a un remo - 25 de agosto de 1883»
«Richard Farris, peón, fallecido por ahogamiento después de lanzarse en el canal con el intento de salvar a una pobre chica en la zona Globe Bridge - 20 de mayo de 1878».


Text & Foto: Baldassar Perruccio @ CapGazette
Settembre · Septiembre 2015

Les aventures de l’Epicur 1

Les aventures de l'Epicur

Aquí hi ha gat amagat

a Misu, Last, Alfredo, Gelsomina
i els altres gats que m’han aguantat.
A Gaetana - Tani - Vergano,
meva professora d’història i filosofia al liceu.

Cap gat, essent jove, dubti en filosofar,
ni essent vell deixi de filosofar.
(Epicur, el gat)


Pròleg

El meu filòsof preferit és el meu gat, no per res es diu Epicur. Pensa tot el dia i no parla mai. Quasi mai: de vegades explica dels seus amics, els gats del barri amb qui dona voltes pels teulats, pels jardins i sota els cotxes aparcats. Són tots filòsofs com ell i es diuen amb els noms més extranys: Parmènides, Heràclit, Leucip, Lucreci, Pitàgores… Santagostí, Spinoza, Leibniz, i un tal Nietzsche, un individu amb grans bigotis que s’ho passa bé atacant els gossos.
En què pensa l’Epicur quan no parla, és a dir gairebé sempre? En les coses. En quines coses? Una mica de tot: en les croquetes, naturalment, en les aventures del carrer, en les rates, els gossos, les colomes, els lloros, les gavines, els cabdells de llana, les ombres, les catifes i les butaques, les cortines i en moltes més coses de la seva vida. Tot i això, més que res pensa en les converses amb els seus amics, per exemple en allò que li va dir el Parmènides una nit de la setmana passada mentre robaven un tros de carn al gos del conserge:
- Pobret, estava lligat i no podia fer res més que lladrar i estirar de la cadena com un boig…
- Això et va dir en Parmènides, Epicur?
- No, aquest és un comentari meu sobre la trista vida del gos del conserge.
- El gos és un animal educat, digne Epicur, no pas com tu. Però ara digues-me què et va dir en Parmènides.
- Ets curiós, eh? Què em dones a canvi?
- Interessat!
- Més aviat, desconfiat. Millor no refiar-se gaire dels humans
- No facis tant el filósof i digues-me què et va dir en Parmènides!
- Llaunes de tonyina?
- Entesos.
- D'acord. - Aixó és el que em va dir el Parmènides: “Cada nit la mateixa història, Epicur, amic meu. Nietzsche que intenta espantar els gossos i els corbs, Sartre i Russell que persegueixen les gatetes i nosaltres aquí robant la carn a aquest pobre diable. Tot es repeteix, amb mínimes variacions sense importància: l'equilibri entre les forces en joc està garantit”.
- Un individu una mica trist el teu amic Parmènides.
- Ell és així. Però no saps què va passar després.
- Què va passar?
- Què em dones a canvi?
- Un altre cop? Però...
- Demà salmó?
- Entesos.
- Mentre el Parmènides parlava, de sobte un raig d’aigua li va caure al cap, esquitxant-me fins i tot a mi. Saps com ens molesta l’aigua als filòsofs: ens vam amagar tot seguit sota un cotxe aparcat.
Tot i l’esglai, no podia deixar de riure imitant el meu amic: res no canvia, estimat Parmenide, hahaha, l’equilibri entre les forces, hahaha, totes les nits tu xerres i l’Heràclit t’escup l’aigua des de dalt del mur… para ja de riure, tu! - Em va dir en Parmènides - Quin amic ets? I aquell maleducat d’Heràclit, si l’agafo...

L’Heràclit és un gat trist i solitari. Està sempre sol amb la seva mala llet, maquinant contra tothom. Un individu esquerp, irascible, desbaratador, rondinaire, envejós…
Però és un filòsof aquàtic, un dels pocs a qui li agrada l’aigua: cada dia es banya una estona al riu i bufa i maleeix qualsevol que passi per la riba (llevat en Tales, un gat vellíssim i un mica boig que diu que l’aigua és una invenció genial, però del vell Tales en tornarem a parlar):
- Dolent! Covard! Gat miserable, gosset!
Crida l’Heràclit a qui gosa apropar-se al riu. Diu que ningú de nosaltres entén res (llevat en Tales). Afirma, l’Heràclit, que el riu és diferent cada dia encara que sembli sempre el mateix i que fins i tot ell mateix, Heràclit, canvia cada dia.
De fet, desprès del bany diari és una mica menys intractable, per no dura gaire: després d’una hora torna a ser l’Heràclit de sempre, ós i corb, a més de gat.
En Parmènides diu que a l’Heràclit li caldria una gata.
L’Heràclit diu que al Parmènides li caldria una gata.
En Tales diu que l’aigua la va inventar ell.
Tot i això, naturalment, ho sé de forma confidencial de l’Epicur mateix, a canvi de les llaunes de salmó.

Però quants són els amics de l’Epicur? Si ho vols saber amb exactitud, ho has de preguntar al Pitàgores, el gat de tres potes. Coneix tots els nombres del món –és a dir del barri: quants gats negres, quantes gates femelles, quants pardals, merles, dragons i ratolins. Si hom li pregunta quantes sargantanes han passat per aquell mur en les últimes tres hores i deu minuts, ell ho sap, amb exactitud, sense cap mena de dubte, amb precisió centesimal, amb mil·lèsimes i tot.
Però no ho diu.
Els seus nombres, precisos com paranys, són efectivament un secret accessible a poquíssims iniciats. Fa cara de gat que s’ho sap tot, però repeteix sempre només que tots els gats tenen el morro triangular, que tots els becs de les merles són triangulars, que totes les cues dels ratolins són triangulars etc etc: té una veritable mania amb els triangles, per a ell tot el món –es a dir, el barri– és triangular.
Bé doncs, com deia, el meu filòsof preferit és el meu gat. És un gat jove, però ja reflexiona molt. Reflexiona tant que és difícil atreure la seva atenció; un pot moure cordes, fils, trossos de paper, o sabatilles, però si l’Epicur reflexiona no s’adona de res, encara menys de l’absurd fregar-se els dits de la mà. L’Epicur reflexiona quasi sempre i no parla quasi mai, per aixó és molt difícil entendre si està de bon humor o en canvi està trist. Cal saber reconèixer les pistes, els senyals.
Fa un temps, per exemple, durant un violent aiguat vaig entendre que l’Epicur estava preocupat perquè es va amagar sota la catifa:
- Penses, Epicur?
Li vaig preguntar. Pregunta absurda per a un filòsof, a més a més gat.
Tot i això, la seva resposta em va deixar sense paraules:
- L’Spinoza ha desaparegut.

Qui és l’Spinoza? Quines preguntes, no ho has llegit a dalt? És un dels millors amics de l’Epicur i és el gat més amable i pacífic del barri. Viu en un jardí de tulipes i no es baralla mai amb ningú, ni tan sol amb les mosques. No pixa mai sobre les plantes, no esgarrapa les catifes, saluda sempre tothom, és vegetarià i tant savi i amable que fins i tot els ratolins li demanen consell. Un dia, fins i tot un advocat es va dirigir a ell per a un consell. Un advocat jubilat, d’acord, un d’aquells que llencen pa als ocells als parcs, però era un advocat.
L’Spinoza, el gat amb ulleres, és amic de tothom al barri i no podia creure que algú li hagués fet mal. Vaig demanar a l’Epicur més explicacions, però ell com a tota resposta em va passar el seu diari dels últims dies. Us he dit que l’Epicur té un diari on explica les seves aventures?

(continuarà...)
Text: Lino Graz
Il·lustració: Albert Àlvarez
CapGazette 7/2015

Las aventuras de Epicuro 1

Las aventuras de Epicuro

Aquí hay gato encerrado

a Misu, Last, Alfredo, Gelsomina
y los demás gatos que me han aguantado.
A Gaetana - Tani - Vergano,
mi profesora de historia y filosofía en el liceo.

Ningún gato, por ser joven, dude en filosofar,
ni por ser viejo deje de filosofar.
(Epicuro, el gato)


Prólogo

Mi filósofo favorito es mi gato, no por nada se llama Epicuro. Piensa todo el día y no habla nunca. Casi nunca: a veces habla de sus amigos, los gatos del barrio con los cuales da vuelta por los tejados, en los jardines y bajo los coches aparcados. Son todos filósofos como él y tienen nombres estrafalarios: Parménides, Heráclito, Leucipo, Lucrecio, Pitágoras… Sanagustín, Spinoza, Leibniz, y un tal Nietzsche, un tipo de bigotes grandes que se lo pasa bien acechando a los perros.
¿En qué piensa Epicuro cuando no habla, es decir casi siempre? En las cosas. ¿En qué cosas? Un poco de todo: en la comida, naturalmente, en las aventuras de la calle, en los ratones, los perros, las palomas, los loros, las gaviotas, los ovillos de lana, las sombras, las alfombras y los sillones, las cortinas y en muchas más cosa de su vida. Sin embargo, más que nada piensa en las conversaciones con sus amigos, por ejemplo en lo que le dijo Parménides una noche de la semana pasada mientras robaban un pedazo de carne al perro del conserje:
- Pobrecito, estaba atado y sólo podía ladrar y tirar de la cadena como un loco...
- ¿Es esto lo que te dijo Parménides, Epicuro?
- No, esto es un comentario mío sobre la triste vida del perro del conserje.
- El perro es un animal educado, honrado, Epicuro, diferente de tí. Pero ahora dime lo que te dijo Parménides.
- ¿Eres curioso, eh? ¿Qué me das a cambio?
- ¡Interesado!
- Más bien, prudente. Mejor no confiar mucho en los humanos.
- No te hagas tanto el filósofo y dime lo que te dijo Parménides!
- Lata de atún?
- Trato hecho.
- Vale. Esto me dijo Parménides: “Cada noche lo mismo, Epicuro, amigo mío. Nietzsche intentando asustar a los perros y a los cuervos, Sartre y Russell persiguiendo a las gatitas y nosotros aquí robando la carne a este pobre diablo. Todo se repite, con mínimas variaciones sin importancia: el equilibrio entre las fuerzas en juego está garantizado”.
- Un tipo algo triste tu amigo Parménides.
- Él es así. Pero no sabes lo que nos pasó después.
- ¿Qué pasó?
- ¿Qué me das a cambio?
- ¿Otra vez? Pero...
- ¿Mañana salmón?
- Trato hecho.
- Mientras Parménides hablaba, de repente le cayó en la cabeza un chorro de agua, que incluso me salpicó a mí. Tú sabes cuánto odiamos el agua los filósofos: nos escondimos en seguida bajo un coche aparcado.
A pesar del susto, sin embargo, no podía dejar de reírme imitando a mi amigo: nada cambia, querido Parménides, jajaja, el equilibrio entre las fuerzas, jajaja, todas las noches tú hablas y hablas... y Heráclito escupiéndote agua desde el muro… ¡Para de reírte, tú! - Me dijo Parménides - ¡Vaya amigo eres! Aquel maleducado de Heráclito, si lo pillo...

Heráclito es un gato triste y solitario. Está siempre solo con su mala leche, arisco, tramando contra todo el mundo. Un tipo irascible, aguafiestas, gruñon, envidioso…
Sin embargo es un tipo acuático, uno de los pocos filósofos a quien le gusta el agua: cada día se baña un rato en el río y sopla y maldice a cualquiera que pase por la orilla (excepto a Tales, un gato muy viejo y algo loco que dice que el agua es un invento genial, pero del viejo Tales volveremos a hablar):
- ¡Bellaco! ¡Cobarde! ¡Gato de cuatro perras!
Grita Heráclito a los que se acercan al río. Dice que ninguno de nosotros entiende nada (excepto Tales). Afirma, Heráclito, que el río es cada día distinto aunque parezca siempre el mismo y que él mismo, Heráclito, cambia cada día.
De hecho, después de su chapuzón diario tiene algo menos de genio, pero dura poco: al cabo de una hora vuelve a ser el Heráclito de siempre, oso y cuervo, además de gato.
Parménides dice que a Heráclito le haría falta una gata.
Heráclito dice que a Parménides le haría falta una gata.
Tales dice que el agua la inventó él mismo.
Todo esto naturalmente lo sé de forma confidencial de Epicuro, a cambio de las latas de salmón.

¿Pero cuántos son los amigos de Epicuro? Si lo quieres saber exactamente, tienes que preguntárselo a Pitágoras, el gato con tres patas. Conoce todos los números del mundo –es decir del barrio: el número de gatos negros, de gatas hembras, de gorriones, mirlos, dragones y ratones. Si se le pregunta cuántas lagartijas han pasado por tal muro en las últimas tres horas y diez minutos, él lo sabe, con exactitud, sin duda alguna, con precisión centesimal, con milésimas y todo.
Pero no lo dice.
Sus números, exactos como trampas, son efectivamente un secreto accesible a muy pocos iniciados. Pone cara de gato que se lo sabe todo, pero repite siempre y sólo que todos los gatos tienen morro triangular, que todos los picos de los mirlos son triangulares, que todas las colas de los ratones son triangulares, etc etc: una verdadera manía con los triángulos, según él todo el mundo -es decir el barrio- es triangular.
Bueno, como decía antes, mi filósofo favorito es mi gato. Es un gato joven, pero ya reflexiona mucho. Reflexiona tanto que es difícil llamar su atención; uno puede agitar cuerdas, hilos, trozos de papel o pantuflas, pero si Epicuro reflexiona no se entera de nada, aún menos del absurdo frotarse los dedos acompañado por chasquidos de la lengua con que nosotros seres humanos imaginamos llamar a los gatos. Epicuro reflexiona casi siempre y no habla casi nunca, por eso mismo es muy difícil entender si está de buen humor o triste. Hay que saber ver las señales, las pistas.
Hace un tiempo, por ejemplo, durante un violento chaparrón entendí que Epicuro estaba preocupado porque se escondió debajo de la alfombra:
- ¿Piensas, Epicuro?
Le pregunté. Pregunta absurda por un filósofo, aún más siendo gato.
Sin embargo, su respuesta me dejó sin palabras:
- Spinoza ha desaparecido.

¿Quién es Spinoza? Vaya preguntas, ¿no lo has leído arriba? Es uno de los mejores amigos de Epicuro y es el gato más amable y pacífico del barrio. Vive en un jardín de tulipanes y no se mete nunca con nadie, ni siquiera con las moscas. No mea nunca en las plantas, non rasga las alfombras, saluda siempre a todo el mundo, es vegetariano y tan sabio y amable que incluso los ratones le piden consejo. Un día, hasta un abogado se consultó con él. Un abogado jubilado, de acuerdo, uno de los que echan migas de pan a las palomas en los parques, pero seguía siendo un abogado.
Spinoza, el gato con las gafas, es amigo de todos en el barrio y no podía creer que alguien le hiciera daño. Le pedí a Epicuro más explicaciones, pero él me contestó pasándome su diario de los últimos días. ¿Os he comentado que Epicuro escribe un diario donde cuenta sus aventuras?

(continuará...)
Texto: Lino Graz
Ilustración: Albert Àlvarez
CapGazette 7/2015