Posts Tagged: Letteratura

La fine

La fine

Quando Beppo Sansilvestro udì le campane, non essendo ancora mezzogiorno, smise subito di arare e tese l’orecchio ai rintocchi. In effetti suonavano a morto.
Quando Silvano Saverio, commesso viaggiatore di bottoni, passò davanti al portoncino dietro la chiesa, Don Mauro aveva appena attaccato l’epigrafe sotto la Madonna dei Dolori, ma siccome il Saverio non era del posto e non sapeva che così si annunciassero i defunti in paese, non tirò dritto e si avvicinò incuriosito a leggere l’avviso.
Quando Maria Garvatella si fermò non capì un bel niente. Non sapeva chi veramente fosse quel Giancarlo Maria Barbarese di 90 anni che una fotografia piccola piccola mostrava da giovanotto, con baffi sottili e uniforme militare.
Quando Gennaro Baruzzo, barbiere, la raggiunse, dedussero tutti insieme dall’indirizzo che quello non poteva che essere Cacà, il fabbro ferraio.
Quando passò il ragioniere Gonzaga Gazzarrini con sua moglie donna Mariolina a braccetto, lo confermarono. Non per niente lei era un’informatissima figlia di notaio, nonché parente lontana della vedova.
Ad essere sinceri, nessuno sapeva con certezza se Cacà e il defunto Barbarese fossero la medesima persona.

Solo i più vecchi del paese se la ricordavano quella storia accaduta tanti anni prima.
Tale Giancarlo Maria Barbarese, ingegnere di opere civili venuto da Milano in occasione di importanti scavi nella Magna Grecia, era comparso in quelle zone, mentre cercava un luogo dove riposarsi. Di lavoro ne aveva fatto parecchio, tant’è che aveva appena fatto una magnifica scoperta archeologica di cui tutti i giornali dell’epoca parlarono. Certo è che alla fine a ben altro che riposarsi si dedicò: incapace di starsene con le mani in mano, non smise di ricercare e scavare finché non sposò Evangelia Negri.
Era costei la figlia ancor zitella del farmacista Antonino Negri, ovvero l’ereditiera di una considerevole fortuna che proveniva dalla famiglia dalla defunta sposa del Negri. La storia si ripeteva.

Il matrimonio Barbarese Negri non fu mai benedetto da prole, sarà stato molto probabilmente questo il motivo principale per cui la povera Evangelia era precipitata in un’esistenza cupa e soffocante. Tutt’altro successe al Barbarese, poiché una volta capito che la vita gli risparmiava la responsabilità di diventare padre, si ributtò freneticamente in questioni di scavi e musei. In continuo andirivieni tra gli uni e gli altri, su e giù per la penisola, il Signor Giancarlo non disdegnava fermate intermedie in letti e case di dubbiosa reputazione, anzi di indubbia cattiva reputazione. Evangelia taceva e sopportava con rassegnazione le offese e faceva finta di niente quando incrociava per strada quelle pettegole.
Un bel giorno, e quello seguente, e quello dopo ancora, il Barbarese sparì nel nulla. O meglio: non fece più ritorno. Si diceva, chi per scherzo e chi sul serio, che avesse trovato il più grande tesoro del Mediterraneo, ma nessuno seppe mai né dove né quando. Man mano che passavano i giorni, i pettegolezzi più maligni svanirono, ed Evangelia abbandonò l’attesa e i ricordi; ritornò zitella.

Vent’anni dopo, qualcuno le bussò alla porta, entrò e si sedette nella poltrona del salotto, senza salutarla né dire niente. Era un uomo vecchio, magro, dallo sguardo diffidente, dal viso stanco. Evangelia lo accolse, lo tenne per sé e disse a tutti che suo marito era infine arrivato da una lunga missione in terre lontane. Quel vecchio di lì a poco cominciò a fare il ferraio. Se quello fosse stato davvero il Barbarese o no, per la verità una certa sua aria ce l’aveva, nessuno lo seppe mai con certezza.
Tutti si afflissero per il decesso del Barbarese, ché in fondo una celebrità come lui quel posto non l’aveva mai avuta e in più quella storia dell’identità del vecchio dava ancora di che parlare e non era poco in tempi in cui non succedeva più nulla, in anni di noia.

Solo uno dei paesani si sarebbe assai rallegrato per quella morte, se si fosse trovato lì con loro e con Don Mauro. Si chiamava Giovanni Becaro e faceva il veterinario a Matera: lui sì che era stato sempre perdutamente innamorato di Evangelia. Fin da fanciullo, quando erano vicini di casa, le andava dietro tutto il giorno, ogni giorno, su e giù dovunque lei andasse, lei però non lo aveva mai degnato della minima attenzione. Quando alcuni anni dopo comparve l'ingegner Barbarese, con quel suo fare da gran signore del Nord, Giovanni capì che era arrivato il momento di metterci una pietra sopra, fu un colpo duro. Tuttavia, siccome il primo amore non si scorda mai, appena venne a sapere che il Barbarese era scomparso, da gentiluomo qual era, fece passare un po’ di tempo, per prudenza, e poi decise di provare di nuovo a convincere Evangelia. Un giorno le si presentò con una scatola di cioccolatini comprati a Napoli e benedetti da San Gennaro; un altro le portò un mazzolino di occhietti della Madonna raccolti sulla strada di Ferrandina, di ritorno dalla casa dello zio Pasqualino, dove era stato a curargli la mucca migliore. Quei fiori però Evangelia li aveva messi sotto la fotografia del marito scomparso. Insomma, tutti i suoi tentativi andarono nuovamente a vuoto e in giro non lo si vide più.

Ma rieccolo infine: dietro la bara, che fosse quella del fabbro o dell'ingegnere ormai poco importava, con Evangelia di nero vestita c’era anche lui, il veterinario Becaro. E con lui Beppo Sansilvestro, Mariolina e il ragioniere Gonzaga Gazzarini, Don Mauro, Maria Garvatella, il barbiere Gennaro Baruzzo e persino il commesso viaggiatore, desideroso pure lui di far parte di una storia appena narratagli.


Text: © Sílvia Gasull, Pedro Ribosa, Josep Tuñi
Foto: dipinto di Giovanni Fattori
CapGazette Ottobre 2015

Cordova

 
 
Federico García Lorca
 
Canción de jinete

Córdoba.
Lejana y sola.

Jaca negra, luna grande,
y aceitunas en mi alforja.
Aunque sepa los caminos
yo nunca llegaré a Córdoba.

Por el llano, por el viento,
jaca negra, luna roja.
La muerte me está mirando
desde las torres de Córdoba.

¡Ay qué camino tan largo!
¡Ay mi jaca valerosa!
¡Ay que la muerte me espera,
antes de llegar a Córdoba!

Córdoba.
Lejana y sola.
Canzone del cavaliere

Cordova.
Lontana e sola.

Cavalla nera, luna grande,
e olive nella mia bisaccia.
Per quanto conosca le strade
non arriverò mai a Cordova.

Per il piano, per il vento,
cavalla nera, luna rossa.
La morte mi sta guardando
dalle torri di Cordova.

Ahi che la strada è lunga!
Ahi mia cavalla coraggiosa!
Ahi che la morte mi aspetta,
prima di arrivare a Cordova!

Cordova.
Lontana e sola.
La traduzione

Ancora una volta tradurre poesia si svela, in un primo momento, avvilente. Le parole di una lingua non sono mai adatte alle parole di un'altra lingua. Ma ecco che lasciandole sedimentare, germogliare, nell'udito e nella mente, si illuminano di luce nuova: le frontiere linguistiche sfumano, e ogni lingua diventa tutte le lingue, l'unica lingua universale.
Jorge Luis Borges si dichiarava contrario alla traduzione della Divina Commedia in spagnolo (o del Chisciotte in italiano, fa lo stesso), perché, diceva, alimenta la superstizione che lo spagnolo e l'italiano siano due lingue diverse. Lo trovo geniale, ma vorrei andare ancora oltre, perché per me la traduzione è un'arte, direi, manuale, che intesse, come fosse di vimini, la lingua del mondo.
Cordova

Riguardo a Cordova, è senz'altro una città di evocazioni letterarie e/o esotiche; non per niente José Ortega y Gasset la paragonava a un roseto capovolto, con le radici in aria e i fiori sotto terra.
Eppure, perché no? Perché non rivalutare la letteratura esotica e la poesia proprio in questi tempi superficiali e violenti, di plastica e sangue, di guerre e deportazioni, di cinismi e materialismi sordidi e di comodo? E chi vi legge ingenuità abbia vergogna della propria complicità.

Propongo quindi Cordova, la sua storia, e la letteratura in genere, come baluardi in difesa delle origini spurie del mondo.


Vorrei dedicare questa pagina alla mia insegnante di italiano del Liceo, la professoressa Ceresa, che proprio questo testo di Federico García Lorca volle proporci come tema in classe nei pessimi anni ottanta del secolo scorso. Una donna coraggiosa.


Poesia: Federico García Lorca
Traduzione, note e foto di Cordova: Lino Graz
CapGazette 9/2015

Les aventures de l’Epicur 1

Les aventures de l'Epicur

Aquí hi ha gat amagat

a Misu, Last, Alfredo, Gelsomina
i els altres gats que m’han aguantat.
A Gaetana - Tani - Vergano,
meva professora d’història i filosofia al liceu.

Cap gat, essent jove, dubti en filosofar,
ni essent vell deixi de filosofar.
(Epicur, el gat)


Pròleg

El meu filòsof preferit és el meu gat, no per res es diu Epicur. Pensa tot el dia i no parla mai. Quasi mai: de vegades explica dels seus amics, els gats del barri amb qui dona voltes pels teulats, pels jardins i sota els cotxes aparcats. Són tots filòsofs com ell i es diuen amb els noms més extranys: Parmènides, Heràclit, Leucip, Lucreci, Pitàgores… Santagostí, Spinoza, Leibniz, i un tal Nietzsche, un individu amb grans bigotis que s’ho passa bé atacant els gossos.
En què pensa l’Epicur quan no parla, és a dir gairebé sempre? En les coses. En quines coses? Una mica de tot: en les croquetes, naturalment, en les aventures del carrer, en les rates, els gossos, les colomes, els lloros, les gavines, els cabdells de llana, les ombres, les catifes i les butaques, les cortines i en moltes més coses de la seva vida. Tot i això, més que res pensa en les converses amb els seus amics, per exemple en allò que li va dir el Parmènides una nit de la setmana passada mentre robaven un tros de carn al gos del conserge:
- Pobret, estava lligat i no podia fer res més que lladrar i estirar de la cadena com un boig…
- Això et va dir en Parmènides, Epicur?
- No, aquest és un comentari meu sobre la trista vida del gos del conserge.
- El gos és un animal educat, digne Epicur, no pas com tu. Però ara digues-me què et va dir en Parmènides.
- Ets curiós, eh? Què em dones a canvi?
- Interessat!
- Més aviat, desconfiat. Millor no refiar-se gaire dels humans
- No facis tant el filósof i digues-me què et va dir en Parmènides!
- Llaunes de tonyina?
- Entesos.
- D'acord. - Aixó és el que em va dir el Parmènides: “Cada nit la mateixa història, Epicur, amic meu. Nietzsche que intenta espantar els gossos i els corbs, Sartre i Russell que persegueixen les gatetes i nosaltres aquí robant la carn a aquest pobre diable. Tot es repeteix, amb mínimes variacions sense importància: l'equilibri entre les forces en joc està garantit”.
- Un individu una mica trist el teu amic Parmènides.
- Ell és així. Però no saps què va passar després.
- Què va passar?
- Què em dones a canvi?
- Un altre cop? Però...
- Demà salmó?
- Entesos.
- Mentre el Parmènides parlava, de sobte un raig d’aigua li va caure al cap, esquitxant-me fins i tot a mi. Saps com ens molesta l’aigua als filòsofs: ens vam amagar tot seguit sota un cotxe aparcat.
Tot i l’esglai, no podia deixar de riure imitant el meu amic: res no canvia, estimat Parmenide, hahaha, l’equilibri entre les forces, hahaha, totes les nits tu xerres i l’Heràclit t’escup l’aigua des de dalt del mur… para ja de riure, tu! - Em va dir en Parmènides - Quin amic ets? I aquell maleducat d’Heràclit, si l’agafo...

L’Heràclit és un gat trist i solitari. Està sempre sol amb la seva mala llet, maquinant contra tothom. Un individu esquerp, irascible, desbaratador, rondinaire, envejós…
Però és un filòsof aquàtic, un dels pocs a qui li agrada l’aigua: cada dia es banya una estona al riu i bufa i maleeix qualsevol que passi per la riba (llevat en Tales, un gat vellíssim i un mica boig que diu que l’aigua és una invenció genial, però del vell Tales en tornarem a parlar):
- Dolent! Covard! Gat miserable, gosset!
Crida l’Heràclit a qui gosa apropar-se al riu. Diu que ningú de nosaltres entén res (llevat en Tales). Afirma, l’Heràclit, que el riu és diferent cada dia encara que sembli sempre el mateix i que fins i tot ell mateix, Heràclit, canvia cada dia.
De fet, desprès del bany diari és una mica menys intractable, per no dura gaire: després d’una hora torna a ser l’Heràclit de sempre, ós i corb, a més de gat.
En Parmènides diu que a l’Heràclit li caldria una gata.
L’Heràclit diu que al Parmènides li caldria una gata.
En Tales diu que l’aigua la va inventar ell.
Tot i això, naturalment, ho sé de forma confidencial de l’Epicur mateix, a canvi de les llaunes de salmó.

Però quants són els amics de l’Epicur? Si ho vols saber amb exactitud, ho has de preguntar al Pitàgores, el gat de tres potes. Coneix tots els nombres del món –és a dir del barri: quants gats negres, quantes gates femelles, quants pardals, merles, dragons i ratolins. Si hom li pregunta quantes sargantanes han passat per aquell mur en les últimes tres hores i deu minuts, ell ho sap, amb exactitud, sense cap mena de dubte, amb precisió centesimal, amb mil·lèsimes i tot.
Però no ho diu.
Els seus nombres, precisos com paranys, són efectivament un secret accessible a poquíssims iniciats. Fa cara de gat que s’ho sap tot, però repeteix sempre només que tots els gats tenen el morro triangular, que tots els becs de les merles són triangulars, que totes les cues dels ratolins són triangulars etc etc: té una veritable mania amb els triangles, per a ell tot el món –es a dir, el barri– és triangular.
Bé doncs, com deia, el meu filòsof preferit és el meu gat. És un gat jove, però ja reflexiona molt. Reflexiona tant que és difícil atreure la seva atenció; un pot moure cordes, fils, trossos de paper, o sabatilles, però si l’Epicur reflexiona no s’adona de res, encara menys de l’absurd fregar-se els dits de la mà. L’Epicur reflexiona quasi sempre i no parla quasi mai, per aixó és molt difícil entendre si està de bon humor o en canvi està trist. Cal saber reconèixer les pistes, els senyals.
Fa un temps, per exemple, durant un violent aiguat vaig entendre que l’Epicur estava preocupat perquè es va amagar sota la catifa:
- Penses, Epicur?
Li vaig preguntar. Pregunta absurda per a un filòsof, a més a més gat.
Tot i això, la seva resposta em va deixar sense paraules:
- L’Spinoza ha desaparegut.

Qui és l’Spinoza? Quines preguntes, no ho has llegit a dalt? És un dels millors amics de l’Epicur i és el gat més amable i pacífic del barri. Viu en un jardí de tulipes i no es baralla mai amb ningú, ni tan sol amb les mosques. No pixa mai sobre les plantes, no esgarrapa les catifes, saluda sempre tothom, és vegetarià i tant savi i amable que fins i tot els ratolins li demanen consell. Un dia, fins i tot un advocat es va dirigir a ell per a un consell. Un advocat jubilat, d’acord, un d’aquells que llencen pa als ocells als parcs, però era un advocat.
L’Spinoza, el gat amb ulleres, és amic de tothom al barri i no podia creure que algú li hagués fet mal. Vaig demanar a l’Epicur més explicacions, però ell com a tota resposta em va passar el seu diari dels últims dies. Us he dit que l’Epicur té un diari on explica les seves aventures?

(continuarà...)
Text: Lino Graz
Il·lustració: Albert Àlvarez
CapGazette 7/2015

Chisciotte 1

Don Quijote de la Mancha

Primero

CAPÍTULO 1

Que trata de la condición y ejercicio del famoso hidalgo D. Quijote de la Mancha.

Página 1

En un lugar de la Mancha, de cuyo nombre no quiero acordarme, no ha mucho tiempo que vivía un hidalgo de los de lanza en astillero, adarga antigua, rocín flaco y galgo corredor. Una olla de algo más vaca que carnero, salpicón las más noches, duelos y quebrantos los sábados, lentejas los viernes, algún palomino de añadidura los domingos, consumían las tres partes de su hacienda. El resto della concluían sayo de velarte, calzas de velludo para las fiestas con sus pantuflos de lo mismo, los días de entre semana se honraba con su vellori de lo más fino. Tenía en su casa una ama que pasaba de los cuarenta, y una sobrina que no llegaba a los veinte, y un mozo de campo y plaza, que así ensillaba el rocín como tomaba la podadera. Frisaba la edad de nuestro hidalgo con los cincuenta años, era de complexión recia, seco de carnes, enjuto de rostro; gran madrugador y amigo de la caza. Quieren decir que tenía el sobrenombre de Quijada o Quesada, que en esto hay alguna diferencia en los autores que deste caso escriben; aunque por conjeturas verosímiles se deja entender que se llama Quijana; pero esto importa poco a nuestro cuento; basta que en la narración dél no se salga un punto de la verdad [...]
Don Chisciotte della Mancia

Primo

CAPITOLO 1

Che tratta della condizione ed esercizio del famoso idalgo D. Chisciotte della Mancia.

Pagina 1

In un paese della Mancia, del cui nome non mi voglio ricordare, non molto tempo fa viveva un nobiluomo di quelli con lance nella rastrelliera, emblema araldico antico, ronzino magro e cane sparviero. Una pentola più di vacca che di montone, trito in salsa il più delle sere, resti e ossa il sabato, lenticchie il venerdì, qualche piccione in aggiunta la domenica, consumavano i tre quarti delle sue rendite. Il resto se ne andava in un saio di panno scuro, calzoni di velluto per le feste con pantofole di velluto anch’esse, mentre nei giorni feriali si agghindava di finissimo albagio. Teneva in casa una domestica di quarant’anni e passa, e una nipote che non ne aveva ancora venti, e un ragazzo buono per la campagna e la piazza, capace di sellare il ronzino e di maneggiare la roncola per potare. Si accostava l’età del nostro idalgo ai cinquant’anni, era di costituzione robusta, di carni secche, asciutto in viso; mattiniero nelle abitudini e amico della caccia. Vogliono alcuni che fosse chiamato Chisciata o Caseata, che su questo vi sono alcune divergenze tra gli autori che di questo caso scrivono; sebbene per congetture verosimili si lasci intendere che si chiamasse Chisciana; ma questo importa poco al nostro racconto; basta che nella sua narrazione non ci si scosti un punto dalla verità [...]
Text: Miguel de Cervantes / Trad ita e foto: Paolo Gravela / ©CapGazette, oct 2014

Chisciotte 2

Don Chisciotte e Sancio Panza visti da Albert Àlvarez
Don Chisciotte della Mancia
Secondo

Un anno dopo proponiamo il secondo paragrafo del Don Quijote e la sua corrispondete traduzione in italiano. Abbiamo calcolato che continuando così, saranno sufficienti 1.800 anni per finire di tradurlo, a meno che il traduttore, come si ripromette epicamente di fare, non smetta di fumare, sostituendo il tabacco con la traduzione ossessiva compulsiva. Non disperiamo.
[...] Es, pues, de saber, que este sobredicho hidalgo, los ratos que estaba ocioso - que eran los más del año - se daba a leer libros de caballerías con tanta afición y gusto, que olvidó casi de todo punto el ejercicio de la caza, y aun la administración de su hacienda; y llegó a tanto su curiosidad y desatino en esto, que vendió muchas hanegas de tierra de sembradura para comprar libros de caballerías en que leer; y así llevó a su casa todos cuantos pudo haber dellos; y de todos ningunos le parecían tan bien como los que compuso el famoso Feliciano de Silva: porque la claridad de su prosa, y aquellas intrincadas razones suyas, le parecían de perlas; y más cuando llegaba a leer aquellos requiebros y cartas de desafío, donde en muchas partes hallaba escrito: la razón de la sinrazón que a mi razón se hace, de tal manera mi razón enflaquece, que con razón me quejo de la vuestra fermosura, y también cuando leía: los altos cielos que de vuestra divinidad divinamente con las estrellas se fortifican, y os hacen merecedora del merecimiento que merece la vuestra grandeza.
Con estas razones perdía el pobre caballero el juicio, y desvelábase por entenderlas, y desentrañarles el sentido, que no se lo sacara, ni las entendiera el mismo Aristóteles, si resucitara para sólo ello. No estaba muy bien con las heridas que don Belianís daba y recibía porque se imaginaba que, por grandes maestros que le hubiesen curado, no dejaría de tener el rostro y todo el cuerpo lleno de cicatrices y señales. Pero con todo alababa en su autor aquel acabar su libro con la promesa de aquella inacabable aventura, y muchas veces le vino deseo de tomar la pluma, y darle fin al pie de la letra, como allí se promete; y sin duda alguna lo hiciera, y aun saliera con ello, si otros mayores y continuos pensamientos no se lo estorbaran. Tuvo muchas veces competencia con el cura de su lugar —que era hombre docto, graduado en Cigüenza— sobre cuál había sido mejor caballero: Palmerín de Ingalaterra o Amadís de Gaula; mas maese Nicolás, barbero del mesmo pueblo, decía que ninguno llegaba al Caballero del Febo, y que si alguno se le podía comparar era don Galaor, hermano de Amadís de Gaula, porque tenía muy acomodada condición para todo, que no era caballero melindroso, ni tan llorón como su hermano, y que en lo de la valentía no le iba en zaga [...]
[...] Bisogna, quindi, sapere, che questo suddetto nobiluomo, nei momenti in cui era ozioso - che erano i più dell’anno - si metteva a leggere libri di cavalleria con così tanta passione e gusto, da dimenticare quasi del tutto l’esercizio della caccia, e pure l’amministrazione della sua tenuta; e in ciò giunsero a tanto la sua curiosità e il suo sproposito, che vendette molte giornate di terra da semina per comprare libri di cavalleria da leggere; e così si portò a casa quanti di essi riuscì ad avere; e tra tutti nessuno gli pareva pari a quelli composti dal famoso Feliciano de Silva: poiché la chiarezza della sua prosa, e quei suoi intricati ragionamenti, gli parevano di perle; e più ancora quando arrivava a leggere quelle galanteria e lettere di sfida, nelle quali ovunque trovava scritto: la ragione del torto che alla mia ragione si fa, in tal modo la mia ragione indebolisce, che a ragion veduta lamento la vostra beltà, e anche quando leggeva: gli alti cieli che della vostra divinità divinamente con le stelle si fortificano, e vi fanno meritevole del merito che merita la vostra grandezza.
Con questi ragionamenti perdeva il povero cavaliere il senno, e si tormentava per capirli, e sviscerarne il senso, che non l’avrebbe svelato, né compreso Aristotele stesso, nemmeno resuscitando solo per questo. Non lo convincevano del tutto le ferite che don Belianis dava e buscava poiché immaginava che, per quanto grandi i maestri che l’avevano curato, non avrebbe certo potuto evitare di avere il viso e tutto il corpo pieni di cicatrici e segni. Ciononostante, lodava dell’autore qual suo concludere il libro con la promessa di quella interminabile avventura, e molte volte gli venne voglia di prendere la penna, e finirlo per filo e per segno, come lì si promette; e senza dubbio l’avrebbe fatto, e ci sarebbe riuscito, se altri maggiori e continui pensieri non gliel’avessero impedito. Ebbe molte volte da discutere con il curato del villaggio - che era uomo dotto, diplomato a Sigüenza - su quale fosse stato migliore cavaliere: Palmerino d’Inghilterra o Amadigi di Gaula; ma mastro Nicolás, barbiere dello stesso paese, diceva che nessuno era pari al Cavaliere del Febo, e che se qualcuno gli si poteva paragonare era don Galaorre, fratello di Amadigi di Gaulia, perché disponeva di condizione molto acconcia a tutto; che non era cavaliere sdolcinato, né lagnoso come suo fratello, e in quanto a coraggio non gli era secondo [...]
Texto: Miguel de Cervantes
Traduzione: Paolo Gravela
Disegno: Albert Àlvarez
CapGazette 6/2015

Un síndrome literario

Un síndrome literario, por Luis Soravilla

Lo que más me fastidia de Stendhal es la hache: nunca sé si se escribe Stendhal o Stendahl y siempre me equivoco. Pero, por lo demás, es uno de mis autores favoritos, con los que más me divierto, a los que más admiro.
Escribió como vivió, de modo impetuoso, apasionado y despreocupado.
La primera vez que estuvo en Italia vestía el uniforme de dragones del ejército francés. Lo empleó en el campo de batalla y en el teatro de la ópera, y fue en Italia donde comenzó a escribir. Luego abandonó el ejército, pero a las órdenes de la administración bonapartista viajó por toda Europa y fue testigo directo de la campaña de Rusia. Roma, Nápoles y Florencia (1817) comienza con el recuerdo de esa cruel derrota. Stendhal se dice incapaz de apreciar la belleza de un paisaje nevado desde que vivió la Gran Retirada. De refilón, recuerda cuando tapiaban las ventanas de un hospital de campaña con los miembros amputados a los heridos, siniestros ladrillos que evitaron la muerte por congelación de los que ahí se habían refugiado de la tormenta.
Así, con esa imagen aterradora, Stendhal deja atrás la nieve y el hielo y se adentra en la que sería su patria de adopción, Italia, en el relato de su primer gran viaje a Italia. Deja atrás el frío del norte y se adentra en el cálido sur.
En Roma, Nápoles y Florencia se muestra locuaz y divertido, encantado de conocerse, felicísimo de estar ahí. Cuando no acierta a rescatar de la memoria tal o cual suceso, no tiene reparos en inventárselo y nos contagia su alegría. Por eso, siempre, siempre, recomiendo comparar este texto con los diarios del viaje a Italia de Goethe. El alemán es sutil, bello, elegante, intelectual, mientras Stendhal es vital, sensual, de ninguna manera contemplativo. Tan próximos, tan diferentes.
Con todo, es Stendhal el afortunado a la hora de bautizar el síndrome más poético de los desórdenes psicológicos pasajeros, el famoso y reconocido síndrome de Stendhal.
El síndrome fue descrito por vez primera por una psiquiatra florentina, Graziella Margherini. Es una crisis de ansiedad que desemboca en un episodio depresivo. Suele ser pasajero. La contemplación de tanta belleza en personas sensibles y predispuestas a ello parece ser la causa y en Florencia no faltan bellezas que contemplar.
La doctora Margherini tuvo a bien inspirarse en un fragmento de Roma, Nápoles y Florencia, el que describe el agotamiento de Stendhal después de visitar la Santa Croce.
Traducido por Elisabeth Falomir, el fragmento dice así:
«Estaba ya en una suerte de éxtasis ante la idea de estar en Florencia y por la cercanía de los grandes hombres cuyas tumbas acababa de ver. Absorto en la contemplación de la belleza sublime, la veía de cerca, la tocaba, por así decir. Había alcanzado ese punto de emoción en el que se encuentran las sensaciones celestes inspiradas por las bellas artes y los sentimientos apasionados. Saliendo de la Santa Croce, me latía con fuerza el corazón; sentía aquello que en Berlín denominan nervios; la vida se había agotado en mí y caminaba temeroso de caerme.»
La editorial Gadir publicó El síndrome del viajero (Diario de Florencia), un fragmento de Roma, Nápoles y Florencia, del que he copiado el párrafo anterior. Como es un libro pequeñito, me lo llevé conmigo la última vez que estuve en Florencia y tan pronto salí de la Santa Croce, en una suerte de éxtasis, me senté en un banco frente a la iglesia, abrí el librito y leí. También sentí que la vida se había agotado en mí y caminaba temeroso de caerme.
Pero tengo que añadir que ya llevaba varios días en la ciudad y pocas veces había caminado tanto en mi vida. Aunque fue un momento emocionante ¡y vaya si lo fue!, tengo que señalar que la mayor parte de las veces se confunde el síndrome de Stendhal con puro agotamiento, insolación o deshidratación, y siento restarle emoción al cuento. Aunque la emoción la pone cada uno a lo que siente, por qué no. Si bien es cierto que casos clínicos de tan particular ansiedad se dan pocas veces al año en Florencia, se dan, y si un turista como un servidor de ustedes se emociona y confunde que no puede con su alma físicamente con una sobrecarga emocional de su espíritu y le hace ilusión, bendita sea su inocencia si con ello es feliz. Es posible que existan otros síndromes literarios. Sin ir más lejos, Freud nos propone el complejo de Edipo y detrás de ése, tantos otros. Pero el síndrome de Stendhal es el más apasionado, inofensivo y bello de todos, al menos en su forma más leve, y procura divertimento y solaz a tantos turistas agotados por su peregrinación de monumento en monumento. La ocurrencia de la doctora Margherini merece un aplauso.
Ajeno a la fortuna que tendría su descripción de la emoción y el agotamiento que sintió después de visitar la Santa Croce, Stendhal siguió viajando y escribiendo. Regresó a Italia tiempo después, y viajo por la península varias veces antes de morir, finalmente, mientras aseguraba que él era más italiano que francés, algo que los franceses atribuyeron a su excentricidad, al puro capricho de un tipo voluble y singular.
El epitafio de su tumba está escrito en italiano. Dice:
«Arrigo Beyle, milanese. Scrisse, amò, visse Ann. LIX M. II. Morì il XXIII marzo MDCCCXLII»
El amigo Beyle, milanés. Escribió, amó, vivió.
Texto: ©Luis Soravilla
CapGazette, junio 2015

Crimen, castigo y Dostoyevski



Crimen, castigo y Dostoyevski

(Luis Soravilla)
Rodión Raskólnikov pasa por apuros económicos y depende de una prestamista, Aliona Ivánovna, malvada, fea y vieja. Raskólnikov considera que hará un favor a la humanidad matándola y que se hará un favor a sí mismo apoderándose de las monedas que atesora la vieja justo después. La mata, ¡vaya si la mata! A hachazos. En medio de la carnicería, aparece Lizaveta, la hermana de Aliona. Raskólnikov también la mata, qué remedio. A partir de ahí, todo va torciéndose, poquito a poco, cada vez más y más, hasta que la culpa consume al asesino y se entrega a la justicia. Al final, en Siberia, buscará la redención. Muy, pero que muy por encima, éste es el argumento de Crimen y castigo, considerada una de las mejores y más influyentes novelas del siglo XIX.

Crimen y castigo se publicó por entregas, doce, en la revista El mensajero ruso, como casi todas las grandes novelas de Dostoyevski. Poco después, se juntaron las partes y se publicó en forma de libro, en 1866. Cuando Nietzsche lo leyó, traducido al alemán, exclamó: ¡Dostoyevski! ¡Qué gran psicólogo! La obra le impresionó mucho, como ha impresionado a tantos y tantos lectores desde entonces. Porque, permítanme la redundancia, es una obra impresionante.
Dicho esto, es una obra que se me atragantó infinitas veces. La tenía al alcance de mi mano, en un lugar preferente, retándome. Entonces iba yo, abría sus páginas, comenzaba a leer... y nunca llegaba a presenciar el crimen de Raskólnikov. El libro regresaba a su lugar en la estantería, apenas leído, y un servidor de ustedes regresaba a sus cosas echando pestes del ruso. ¡Pobre Dostoyevski! No tenía culpa de nada, pero no podía con él.
Conversando con una editora, acabé confesando mi mala relación con Dostoyevski. No oculté mi enfado, no sé con quién, seguramente conmigo mismo. Mis relaciones con otros grandes autores eran y siguen siendo difíciles. Así, por ejemplo, Faulkner y Kafka son a veces amados, a veces odiados, pero leídos con gran provecho. En cambio, Dostoyevski... La mujer me clavó unos ojos feroces y me dijo: ¡Léelo! Fue una orden, no un consejo, y no hubo más que decir.
Obedecí. Abrí las páginas de Crimen y castigo y comencé mi undécimo intento de lectura. Habían sido diez fracasos, diez, y no esperaba ir más allá que la última vez. Pero, de repente, Raskólnikov, hacha en mano, va y mata a la vieja Ivánovna y en medio del chas, chas, de los hachazos, supe que ya no podría parar de leer. Así fue. Crimen y castigo fue leída de cabo a rabo, sin prisas, con mucho cuidado. Pasé del crimen al castigo y sin darme cuenta, acabé en Siberia en lo que me pareció un pispás. Cerré el libro todavía consternado.
No me gusta Dostoyevski, sigue sin gustarme, aunque el verbo gustar no es el adecuado, nunca lo es cuando se lee en serio. Dostoyevski me abruma, despierta mi mal humor, ¡hasta me deprime! Intensamente, además. Y al mismo tiempo, me interesa muchísimo, me fascina. Tengo que reconocer que el retrato de sus personajes es impecable (¡Dostoyevski! ¡Qué gran psicólogo!). Este autor es mi adversario, no creo que vaya a ser mi amigo, pero no puede negársele grandeza y tras cada combate entre su escritura y mi lectura regreso a la vida con la derrota en el rostro y más sabio que me fuí. En suma, Crimen y castigo ha dejado una huella muy profunda en mi relación con los libros.
Luego vinieron Memorias del subsuelo, El idiota y Los hermanos Karámazov y qué les voy a contar. Sólo les daré la orden que recibí tiempo atrás: ¡Léanlas! Al menos, lean una de ellas.
Cuando volví a encontrarme con la editora que me ordenó leer Crimen y castigo, lo primero que me dijo fue: ¿Ya te la has leído? Pudo verme en la cara que sí. Sonrió, ladina, y me preguntó: ¿Quién te había dicho que leer iba a ser fácil?
No se desanimen: no es fácil, pero se aprende mucho y bueno.



Text: Luis Soravilla
CapGazette, Mar. 2015